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Sequestro preventivo dello Studio Legale di un avvocato accusato di attività delittuosa

E’ illegittimo in quanto manca il nesso di pertinenzialità tra i reati contestati e il bene sequestrato
Nei confronti di un avvocato accusato dei reati di falsa testimonianza e frode alle assicurazioni, il Tribunale del riesame di Cosenza disponeva il sequestro preventivo dell’immobile adibito a studio legale del medesimo avvocato. Avverso tale pronuncia, l’imputato ha promosso ricorso per Cassazione. Con la Sentenza n. 36201/2010, la Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Il ricorrente ha dedotto l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo del ritenuto nesso di pertinenzialità tra il bene in sequestro e i reati contestati.In particolare, si è negato che lo studio professionale in questione costituisse cosa pertinente al reato, potendo al massimo rappresentare il “locus commissi delicti”, considerato che tra il bene sottoposto a vincolo reale e l’attività illecita contestata non sussisteva una relazione di pertinenza strumentale, dotata dei caratteri della specificità, stabilità e indissolubilità strumentale; che, in ogni caso, il rapporto di strumentalità tra il bene in sequestro e il suo possibile utilizzo criminoso imporrebbe che il sequestro preventivo avesse a oggetto “cose” oggettivamente e specificamente predisposte per la realizzazione di attività criminose e che per ciò stesso costituissero un mezzo indispensabile, stabile e specifico per l’attuazione o la prosecuzione della attività illecita. Inoltre, il ricorrente ha prospettato la violazione di legge e il vizio di motivazione sotto il profilo dell’apparenza delle giustificazioni, che sono state offerte a fondamento dell’affermazione che lo studio legale fosse la sede naturale, base logistica e operativa del sodalizio criminoso, posto in essere dagli associati per realizzare, truffe alle, compagnie di assicurazione. La Suprema Corte ha ritenuto le censure fondate, osservando che il ricorso alle norme generali in tema di sequestro preventivo, nei casi in cui quest’ultimo sia finalizzato a impedire la protrazione dell’attività illecita, è necessaria, la presenza di una correlazione indefettibile tra l’immobile e la commissione del reato, la quale sussiste quando l’immobile non è soltanto il luogo dove si compie l’attività illecita, in astratto realizzabile anche, altrove, ma costituisce il mezzo indispensabile per l’attuazione e la protrazione della condotta illecita. Ora, nel caso di specie, ad avviso della Corte, non può considerarsi “ex se”, la sede dello studio legale, in assenza di altri elementi idonei a avvalorare l’unicità e la indispensabilità di tale studio, in termini di indissolubile esclusiva e necessaria funzionalità per l’utile conseguimento degli obiettivi illeciti, inteso come luogo insostituibile, al fine di realizzare e proseguire le condotte illecite costituite dai delitti di falsa testimonianza e dalle condotte fraudolente messe in atto nei confronti di compagnie assicuratrici. Le misure cautelari non possono tenere conto di qualsiasi profilo di “colpevolezza”, proprio perché la funzione preventiva non attiene all’autore del fatto criminoso, ma concerne solo il tasso di “pericolosità” di alcune cose in quanto si pongono con un vincolo di pertinenzialità rispetto al reato.Tale pertinenzialità postula che la libera disponibilità di tali cose possa costituire una situazione di pericolo, tanto è vero che il sequestro preventivo, ancorché funzionale alla confisca, ben può tralasciare qualsiasi verifica in merito alla fondatezza dell’accusa. Pertanto la Corte ha ribadito che l’immobile adibito a studio legale per l’esercizio della professione di avvocato non può ritenersi collegato, in modo automatico, da un nesso strumentale diretto e immediato all’esercizio di tale attività, che è caratterizzata piuttosto dal rapporto fiduciario esistente tra il professionista e il cliente e che può svolgersi in luoghi diversi. Non è pertanto consentito sottoporre tale immobile a sequestro preventivo, non sussistendo il rapporto di pertinenzialità tra l’attività delittuosa in questione e lo studio in cui la medesima viene esercitata e tenuto in particolare conto che nel caso di specie, al ricorrente non è contestato il reato di associazione per delinquere, al fine di realizzare truffe in danno di compagnie di assicurazione e che costui ha dedotto, senza che sul punto vi sia stata risposta da parte del Tribunale del riesame, che la sua attività non era per nulla limitata a quel preciso contenzioso assicurativo, che fondava il provvedimento cautelare reale, ma si estendeva a altri e molteplici settori in materia civilistica.

http://www.studiolegalelaw.net/consulenza-legale/21888

Cassazione: ragazzate isolate non vanno punite Sono frutto di superficialità adolescenziale

Bocciato il ricorso della Procura di Potenza che si era opposta alla decisione del gup di non procedere, 'per irrilevanza del fatto', nei confronti di un 16enne che, armato di coltello, squarciò le ruote di alcune auto

Nessuna punizione per le 'ragazzate', se sono episodi sporadici. Lo rileva la Cassazione secondo la quale le bravate sporadiche sono il "frutto della superficialità adolescenziale" e non vanno punite perché non possono essere trattate alla stregua di azioni che "destano particolare allarme sociale". Con questa motivazione, la Seconda sezione penale ha bocciato il ricorso della Procura di Potenza che si era opposta alla dichiarazione di "non luogo a procedere per irrilevanza del fatto" pronunciata dal gup presso il Tribunale per i minorenni di Potenza, nel maggio 2009, nei confronti di un ragazzo potentino, all'epoca dei fatti 16enne, che era uscito con un coltello di 15 centimetri e si era messo a bucare le ruote di una macchina parcheggiata sulla pubblica via.

Secondo l'accusa, la condotta del ragazzo "non poteva dirsi irrilevante" e quindi non doveva restare impunita. Piazza Cavour - sentenza 32692 - ha bocciato il ricorso della Procura e ha evidenziato che la decisione di non luogo a procedere è "corretta e immune da vizi di legittimità". Infatti, scrive la Suprema Corte, "il fatto, valutato nella sua globalità, deve ritenersi una vera e propria ragazzata, frutto di superficialità adolescenziale".

Che le cose stiano in questo modo, dice ancora la Cassazione, è confermato dalla circostanza che il ragazzo, che non era mai stato segnalato, "aveva appena compiuto sedici anni, ed il reato commesso in sé non pare che abbia provocato un particolare allarme sociale". Giusto, dunque, non punire la 'ragazzata', "fatto di lieve entità".

Più in generale, i giudici ricordano che le bravate che vanno 'graziate' devono avere come requisiti "la tenuità del fatto" e "il comportamento occasionale del minore". Inoltre, si deve tenere conto del fatto che la finalità del processo penale minorile è "improntata più al recupero della devianza minorile che alla repressione" e quindi va evitato "l'ulteriore corso del procedimento che pregiudichi le esigenze educative del minorenne".

http://www.repubblica.it/cronaca/2010/09/11/news/cassazione_ragazzate_occasionali_non_vanno_punite_soono_frutto_di_superficialit_adolescenziale-6965602/

Niente carcere per i malati di tumore

Ai malati gravi va evitata la prigione, anche se la patologia è compatibile con la detenzione e con le possibilità di cura fornite dalla struttura carceraria. La Corte di cassazione (si legga la sentenza su Guida al diritto ) afferma la priorità della tutela della salute dei detenuti e invita i giudici a scegliere le misure alternative al carcere anche quando il tipo di reato non le contempla.

Il caso esaminato dalla prima sezione penale di piazza Cavour riguardava un detenuto che aveva chiesto al tribunale del riesame di trascorrere la pena agli arresti domiciliari in attesa di essere sottoposto a un intervento per un tumore al cervello. Domanda che il tribunale della libertà aveva respinto basandosi su accertamenti medici che avevano affermato la possibilità di mantenere il regime carcerario almeno fino all'operazione. Responso negativo supportato anche dalla considerazione che per il tipo di reato commesso dal malato non è prevista la detenzione domiciliare.

Diversa l'impostazione degli ermellini i quali specificano che la norma richiamata dal riesame lascia al giudice un margine di discrezionalità nella scelta della misura da applicare in caso di gravi infermità. Secondo la Cassazione la via da seguire è dunque quella del rispetto dei diritti umani e del divieto di mettere in atto trattamenti inumani e degradanti indicata anche dagli articoli 32 e 27 della Costituzione. Non c'è dubbio – spiega il supremo collegio - che anche in caso di patologie gravi il carcere, benché attrezzato per le cure, rappresenta una sofferenza aggiuntiva che può superare i limiti della umana tollerabilità. La Cassazione censura dunque la scelta, contraria al senso di umanità, del tribunale della libertà che non ha tenuto in debito conto i principi umanitari e costituzionali privando il ricorrente, condannato a una pena di soli cinque anni, della possibilità di trascorre in ambito familiare il tempo in attesa di un intervento da cui dipendeva la sua sopravvivenza.

http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-09-03/niente-carcere-malati-tumore-180812.shtml?uuid=AYH3QMMC

Gli effetti del raggiungimento della maggiore età del convenuto legittimato passivo nel corso del processo

La terza sezione della Cassazione ribadisce l'orientamento fatto proprio dalle Sezioni unite nel 2005 sugli effetti derivanti in conseguenza dell'acquisto della maggiore età nel corso del giudizio da parte di minore già costituito a mezzo dei rappresentanti legali.

La terza sezione della Cassazione ribadisce l’orientamento fatto proprio dalle Sezioni unite nel 2005 sugli effetti derivanti in conseguenza dell’acquisto della maggiore età nel corso del giudizio da parte di minore già costituito a mezzo dei rappresentanti legali.

Qualora uno degli eventi idonei a determinare l'interruzione del processo (nella specie, il raggiungimento della maggiore età da parte di minore costituitosi in giudizio a mezzo dei suoi legali rappresentanti) si verifichi nel corso del giudizio di primo grado, prima della chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell'art. 190 c.p.c.), e tale evento non venga dichiarato né notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce a norma dell'art. 300 c.p.c., il giudizio di impugnazione deve essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati: e ciò alla luce dell'art. 328 c.p.c., dal quale si desume la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell'impugnazione, con piena parificazione, a tali effetti, tra l'evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato né notificato.

Limitatamente, peraltro, ai processi pendenti alla data del 30 aprile 1995 - rispetto ai quali non opera la possibilita' di sanatoria dell'eventuale errore incolpevole nell'individuazione del soggetto nei cui confronti il potere di impugnazione deve essere esercitato, offerta dal nuovo testo dell'art. 164 c.p.c., come sostituito dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, nella parte in cui consente la rinnovazione, con efficacia "ex nunc", della citazione (e dell'impugnazione) in relazione alle nullità riferibili ai nn. 1 e 2 dell'art. 163 c.p.c. - il dovere di indirizzare l'impugnazione nei confronti del nuovo soggetto effettivamente legittimato resta subordinato alla conoscenza o alla conoscibilità dell'evento, secondo criteri di normale diligenza, da parte del soggetto che propone l'impugnazione, essendo tale interpretazione l'unica compatibile con la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.). Un'esigenza di tutela della parte incolpevole non si pone, in ogni caso, rispetto all'ipotesi del raggiungimento della maggiore età nel corso del processo, che non costituisce un evento imprevedibile, ma, al contrario, un accadimento inevitabile nell'"an" - essendo lo stato di incapacità per minore età "naturaliter" temporaneo - ed agevolmente riscontrabile nel "quando". In termini cfr. Cass., SS.UU., n. 15783 del 2005 e, in precedenza, tra le varie conformi, Cass. n. 8827 del 2003.
(Cassazione civile Sentenza 13/07/2010, n. 16408)

http://www.ipsoa.it/PrimoPiano/Diritto/gli_effetti_del_raggiungimento_della_maggiore_et_agrave_del_convenuto_legittimato_passivo_nel_corso_del_processo_id1000065_art.aspx

Cassazione: imputato può eleggere domicilio presso una casella postale

Chi è senza fissa dimora può decidere di eleggere domicilio presso una casella postale. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 32213 in cui ha stabilito il principio di diritto secondo cui se il cittadino elegge domicilio presso una casella postale risulta essere irregolare la notifica fatta nelal sede del difensore d’ufficio. Come ha infatti spiegato la Corte, riprendendo la descrizione del servizio da parte di Poste Italiane, è proprio questa la funzione della Casella postale e cioè “il servizio di domiciliazione della corrispondenza dedicato, in modo particolare, ai clienti che necessitano di riservatezza e di comodità di ritiro”. La Corte, annullando la sentenza impugnata, ha spiegato che “appare erronea l’applicazione dell’art. 161 c.p.p., in luogo dell’art. 159 c.p.p.; delle due, infatti, l’una: o l’indicazione della casella postale era idonea a configurare originariamente un domicilio dichiarato ed eletto, e la rinuncia a procedervi non poteva essere nella specie attribuita ad una sopravvenuta inidoneità o impossibilità, tale non essendo certo la scelta tecnica del singolo ufficiale giudiziario (irrilevante essendo che la stessa fosse o meno in ipotesi corretta); ovvero tale indicazione doveva considerarsi originariamente inidonea (ritenendosi giuridicamente irrilevante la sua comprovata efficacia in fatto), ma allora si sarebbe dovuto procedere alle ricerche ex art. 159 c.p.p. (ed eventualmente all’emissione del decreto di irreperibilità), attesa l’impossibilità di procedere ai sensi dell’art. 157 c.p.p.”. Nel caso esaminato dalla Corte, l'ufficiale giudiziario aveva notificato nella sede del difensore d'ufficio (invece che nella casella postale dove la parte aveva eletto domicilio), un atto di citazione in giudizio d'appello perchè aveva ritenuto che non si potesse eseguire la notifica presso una casella postale.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8896.asp

Carcere preventivo: il limite cancellato

Un persona è costituzionalmente innocente fino a verdetto definitivo: sempre che valgano ancora le regole dello Stato di diritto

Se sono colpevoli o innocenti, lo si appurerà nel processo. Quando, se condannati, meriteranno il carcere. Appunto: se condannati. Mentre la prolungata custodia cautelare è sempre carcere (anche se domiciliare), ma senza condanna stabilita da un verdetto giudiziario. Una condanna preventiva. Una sanzione anticipata. Come se i tempi (mostruosamente dilatati) della giustizia non tenessero conto dei tempi della persona. Costituzionalmente innocente fino a verdetto definitivo: sempre che valgano ancora le regole dello Stato di diritto.

Princìpi elementari, quasi ovvii nel catechismo garantista che pure è la base dello Stato di diritto in cui abbiamo l’impressione di vivere. Ma che l’opinione pubblica, esacerbata dal moltiplicarsi di corruzione e di crimini contro il bene pubblico, tende a dimenticare. Anche nel caso degli indagati per il giro di false fatturazioni e di riciclaggio. La Cassazione ha stabilito che Bruno Zito, coinvolto nel «caso Fastweb», debba restare nella galera (preventiva) in cui è rinchiuso dal 23 febbraio: più di quattro mesi fa, oramai. Confermati anche gli arresti domiciliari di Silvio Scaglia. Il Corriere, alla vigilia del pronunciamento della Cassazione, ha pubblicato una lettera molto dignitosa del padre di Zito, dove non si entrava nel merito delle accuse, ma ci si chiedeva se davvero sussistessero le condizioni per cui il figlio dovesse essere trattenuto (preventivamente) in carcere. Anche i giornalisti non devono entrare nel merito delle accuse. Anzi, dovrebbero, perché molti giornalisti sembrano ispirati dalla missione di giudicare al posto dei giudici, sostituendosi a essi in modo arbitrario e prepotente. Ma chiedersi fino a quando può durare un regime di carcerazione preventiva non è una domanda legittima. Anche chiedersi se non c’è un abuso della custodia cautelare. O se, addirittura, in molti casi in Italia non si abusi deliberatamente del carcere preventivo per «ammorbidire» gli indagati, spronarli alla collaborazione: che poi è un modo gentile ed edulcorato per alludere alla confessione.

Ai tempi di Mani Pulite (sono fatti noti, oramai da raccontare come fossero storia) capitava che, alla scadenza dei termini di custodia cautelare, un’altra accusa si abbatteva sulla testa dell’indagato, e si ricominciava da capo, azzerando il cronometro. Di questi tempi, invece, il Tribunale del riesame di Firenze, motivando il rigetto di scarcerazione per Balducci e altri esponenti in vista della «cricca», ha deplorato addirittura «uno stile di vita antigiuridico degli indagati » nonché, testuale, «l'atteggiamento di totale chiusura all’ipotesi accusatoria». Se non si capisce male, la non aderenza degli indagati agli argomenti dell’«ipotesi accusatoria» costituirebbe un’aggravante, passibile di ulteriore sanzione carceraria (preventiva) che non si sarebbe manifestata se invece gli stessi indagati si fossero conformati alle ipotesi formulate dagli accusatori. Un’innovazione, che è anche un’indicazione per chi, in futuro, dovesse regolare opportunamente linee difensive e comportamenti («stili di vita») efficaci ai fini della scarcerazione.

Il merito delle accuse, dunque, non c’entra. C’entrano i criteri, i tempi, le modalità con cui la custodia cautelare può subire una distorsione irreparabile. Come fosse un surrogato per una pena la cui certezza, dopo e non prima la sentenza, appare sempre più aleatoria. Ma mettere il «prima» al posto del «dopo» è prassi ingiusta, anche se capace di appagare, in modi obliqui, la richiesta di giustizia dell’opinione pubblica.


http://www.corriere.it/politica/10_giugno_29/battista-carcere-preventivo_bb71dba0-8342-11df-aec8-00144f02aabe.shtml

Autodichiarazione: è sempre necessario un preventivo accertamento di quanto affermato.

Rischia la condanna penale colui che presenti autodichiarazioni non veritiere o che ometta di indicare dati di fatto. Rilasciare dichiarazioni false, all’interno della propria autodichiarazione, lede il generale dovere di lealtà che incombe sul cittadino nei confronti delle istituzioni. Prescindendo dal fatto che il soggetto ottenga o meno il beneficio richiesto, la fattispecie di cui all’art. 483 c.p., è idonea ad integrare un reato di pura condotta e prescinde dall’ottenimento di un ingiusto profitto. Nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte di Cassazione, uno studente aveva omesso di inserire, nella propria autodichiarazione, resa la fine di ottenere una borsa di studio, il reddito posseduto dal fratello. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21580 del 2010, ha ritenuto che il reato di falso ideologico in atto pubblico, previsto dall’articolo 483 del c. p., commesso da un privato cittadino, debba considerarsi reato di pura condotta e che la fattispecie in oggetto debba ritenersi integrata ogni qualvolta vengano rese dichiarazioni non veritiere, o si ometta di indicare dati di fatto. Non è stata perciò accolta la tesi difensiva, sostenuta dal giovane studente, secondo cui lo stesso non avrebbe fornito i dati in quanto non era a conoscenza del reddito del fratello. Secondo gli ermellini l’autodichiarazione non può prescindere da un preventivo accertamento in ordine alla veridicità di quanto affermato dal dichiarante a pena di querela di falso.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8632.asp

Cassazione: si possono evadere i domiciliari per impossibilita' di convivenza

Si possono evadere i domiciliari per "impossibilita' di convivenza in famiglia". La licenza arriva dalla Cassazione che ha accolto il ricorso di Nicola P., un aspirante evasore salernitano che, non tollerando piu' di stare ai domiciliari "a causa dei difficili rapporti con i famigliari" aveva simulato una evasione alla presenza dei carabinieri per essere riarrestato e tornare finalmente in galera. Per due volte la messinscena era stata giudicata passibile di condanna per evasione dai domiciliari. Poi in Cassazione la difesa di Nicola P. ha fatto notare che ne' il tribunale di Nocera Inferiore ne' la Corte d'Appello di Salerno avevano tenuto in giusto il movente che aveva indotto il giovane ad evadere i domiciliari.

fonte http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Cassazione-si-possono-evadere-i-domiciliari-per-impossibilita-di-convivenza_325574930.html

Omicidio plurimo volontario anche per l'armatore delle carrette del mare

Omicidio plurimo volontario per chi fornisce le carrette del mare. A un anno dalla condanna del comandante del natante F174, in cui morirono 283 clandestini asiatici la notte del Natale 1996, la Corte di Cassazione conferma la condanna a 30 anni per l'armatore che mise a disposizione il battello e collaborò all'organizzazione del viaggio(si legga la sentenza su Guida al diritto).L'armatore libanese era stato assolto in primo grado, con un verdetto ribaltato in appello, perché non presente al momento in cui è avvenuto, al largo della Sicilia, quello che la stampa internazionale aveva chiamato il naufragio "fantasma". La tragedia si era verificata nel corso di un trasbordo tra due imbarcazioni, fatto malgrado le pessime condizioni del mare, per stipare oltre 300 uomini nella F174 che si era inabissata. La nave pilota era partita lasciando senza soccorso i naufraghi, i cui corpi vennero individuati e recuperati solo nel 2001, anche grazie all'appello di 4 premi Nobel. L'armatore libanese, la cui condanna è stata confermata ieri, era stato assolto nel 2007 dalla Corte d'Assise di Siracusa per non aver commesso il fatto.

Secondo i giudici siracusani non esistevano, infatti, le prove del dolo, del nesso causale tra la sua condotta e l'evento, né di una sua partecipazione alla decisione di non prestare soccorso ai naufraghi. Di parere opposto la Cassazione che, in linea con la Corte d'Assise d'Appello di Catania, indica punto per punto le responsabilità dell'armatore, nel più grande disastro nella storia dell'immigrazione clandestina. L'imprenditore libanese aveva, infatti, fornito un'imbarcazione fatiscente, in grado di accogliere 100 persone al massimo, pur sapendo che ne sarebbero partite 500, sapeva inoltre che le persone erano in mare da 15 giorni in condizioni disumane che imponevano lo sbarco a ogni costo, per finire, era consapevole che le condizioni del mare non consentivano un trasbordo. L'assenza sul posto dell'armatore, secondo la Cassazione, non solo non esclude le colpe, anzi conferma la consapevolezza che il verificarsi della tragedia era altamente possibile. Il ricorrente aveva deciso di seguire le operazioni dalla terra ferma in contatto radio, senza avvertire nessuno di quanto stava accadendo. Neppure con una telefonata anonima.

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Norme%20e%20Tributi/2010/04/cassazione-armatore-carrette-mare-omicidio-plurimo-aggravato.shtml?uuid=61ba5d8c-51ef-11df-92be-7a8b1f1c5244&DocRulesView=Libero

Cassazione: violazione Know How? Legittimo sequestro pc ai fini probatori..

La quinta sezione penale di Palazzo Cavour, con la sentenza n.11965 depositata il 29 marzo 2010, in tema di rivelazione del segreto industriale, ha stabilito che è legittimo il sequestro del pc dell’indagato per violazione del cd. “know-how”. Secondo la ricostruzione della vicenda, era stato proposto ricorso per la cassazione dell’ordinanza del tribunale del riesame con cui era stato rigettato l’appello dell’imputato e confermato quindi il sequestro probatorio del computer, dei supporti informatici e delle fatture. La Corte ha infatti ritenuto legittimo il sequestro, poiché “rientra nell’oggetto di tutela della norma di cui all’art.623 c.p. anche il cd. Know-how aziendale, mirato alla funzionalità degli impianti ed alla economia della gestione”. In particolare gli Ermellini hanno stabilito che “non costituisce condizione per la configurabilità del reato di rilevazione di segreti industriali la sussistenza dei presupposti per la brevettabilità ex art. 2585 c.c. della scoperta o della applicazione rilevata (…) e che oggetto della tutela penale di tale reato è costituito da quel patrimonio congiuntivo ed organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un apparato industriale”.

fonte http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8248.asp

Le “tavole della legge” sul telefonino

Ogni professionista sogna di avere i propri strumenti di lavoro a portata di mano ed in particolar modo gli avvocati i quali, per consultare le leggi, hanno bisogno di tomi e tomi di codici! Finalmente i codici e le relative leggi complementari sono praticamente tascabili e consultabili in modo rapido ed efficiente grazie alle applicazioni per iPhone e iPod Touch. Professionisti, giuristi, studenti ed avvocati possono consultare il Codice Civile, Codice Penale, Codice di Procedura Civile e Codice di Procedura Penale in versione integrale anche off-line (ovvero senza connessione ad Internet) sul proprio cellulare Apple alla modica cifra di 3,99€ a codice.

Le quattro applicazioni sono state sviluppate dall’Editore Maggioli e permettono di consultare con facilità gli articoli del codice, comma per comma, ovunque ci si trovi. I codici sono presentati in modo semplice ed intuitivo, hanno la funzione di ricerca rapida ed anche quella avanzata per effettuare ricerche per numero di articolo oppure per testo secondo le esigenze. Fra le funzionalità non poteva mancare un comodo “segnalibro” virtuale per avere a portata di mano gli articoli consultati più di frequente, che è possibile inoltre inviare anche per e-mail direttamente dall’iPhone.

Insomma un’ottima idea di Maggioli il quale però sembra approfittare dei vigili urbani ai quali chiede ben 24,99€ per il Prontuario delle violazioni e il Nuovo Codice della Strada! Poveri loro…

fonte http://avvisodichiamata.tgcom.it/wpmu/?p=249

Niente legittima difesa se l'errore non e` giustificabile

Con sentenza n. 3464 del 27 gennaio 2010, la Cassazione, Prima sezione penale, ha precisato che, perche` possa essere ravvisata una legittima difesa putativa tale da escludere la responsabilita` penale dell'imputato, occorre che l'errore in cui quest'ultimo sia incorso sia giustificabile in quanto determinato da un effettivo stato delle cose, tale che avrebbe confuso chiunque. Per contro, l'errore conseguente a colpa derivante dal fatto di aver interpretato male le circostanze, non esclude la responsabilita` penale colposa del soggetto.

Infine, per parlarsi di eccesso colposo di legittima difesa, – si legge nella sentenza – deve essere ravvisata una sproporzione tra l'errore colposo commesso e la necessita` di doversi difendere.

fonte http://www.ateneoweb.com/aw/news/news.php?id_std=1011&id_news=476&tn=2

LE BATTAGLIE DELLE CAMERE PENALI - Tribunale di Nola. Avv. Francesco De Vita

Il dramma degli avvocati impegnati nella trattazione dei maxi processi a carico di imputati di violazione dell’art. 416 bis innanzi al Tribunale di Nola, tacciati, a causa del loro stato di agitazione, dalla ANM sia a livello nazionale sia a livello locale (Napoli) – come si evince dagli organi di stampa - di “paradossale agitazione degli avvocati”, di “assurdo attacco all’esercizio della giurisdizione”, di “attacco strumentale ed ingiustificato degli avvocati”, è semplicemente di non essere capiti da chi avrebbe ragione di capire. Ma ciò che è più grave, è l’assoluta disinformazione in merito degli organi di rappresentanza dei Magistrati, la quale chiaramente traspare dalle note emesse.
Il sottoscritto avvocato è impegnato nella difesa di un solo imputato innanzi al Collegio B del Tribunale - i cui termini di scadenza di custodia cautelare dovrebbero essere lontani – e pertanto, può riferire solo su quanto è successo innanzi a tale Collegio, per adesso in maniera sommaria, con riserva di approfondimento dell’argomento.
Il GIP dispose il rinvio a giudizio degli imputati in numero di 66 (originariamente gli imputati erano 117, dei quali una parte optò per il giudizio abbreviato, ed un’altra parte fu rinviata a giudizio innanzi alla Corte di Assise), per l’udienza del 20 maggio 2008 (Collegio A). Il 23 settembre 2008 si insediò il Collegio B, che rinviò il processo all’udienza del 17/10/2008. Da quel momento e fino a venerdì 6/11/2009 le udienze si sono tenute con la media di una ogni 2/3 settimane, di venerdì secondo quanto prescritto dal protocollo per la disciplina delle udienze penali del Tribunale di Nola, giorno riservato alla trattazione dei processi della DDA. Da quel momento, improvvisamente, senza previo, congruo avviso alle parti, come ritenuto doveroso anche dalla Corte Suprema di Cassazione (V. 1^ sezione penale, sent. n° 21034 del 6/6/2005), le udienze sono aumentate a due ogni settimana, compreso il 24/12/2009, vigilia di Natale. Col nuovo anno esse sono aumentate a tre, anche quattro, per settimana, compreso il sabato, con orario di trattazione che spesso si protrae fino a tarda serata. Il Tribunale, all’udienza del 29/1/2010 nel rigettare l’istanza di rinvio di alcuni difensori che intendevano partecipare il giorno successivo (sabato 30/1/2010) all’inaugurazione dell’anno giudiziario, con un provvedimento nel quale traeva impropriamente giustificazioni da una circolare del CSM, evidenziava che il processo aveva numerosi imputati detenuti, i cui termini di custodia cautelari erano prossimi a scadere. Ma non rese noto, né allora, né ha reso noto successivamente, chi fossero tali imputati e quando sarebbero scaduti i termini di custodia cautelare. È evidente, allora, come l’accellerazione dei tempi di trattazione del processo, sia per il numero delle udienze che per la loro durata, ha come finalità esclusiva del Tribunale quella di evitare la scadenza dei termini di custodia cautelare per un piccolo gruppo di detenuti.
Pertanto, è di lampante comprensione come la protesta degli avvocati impegnati nel processo non è diretta assolutamente nei confronti di giudici “accusati di lavorare troppo, di essere troppo produttivi, di rimanere troppo tempo in aula e di compiere molti sforzi per arrivare alla conclusione del processo in tempi ragionevoli”, ma contro giudici che, dopo quasi due anni di trattazione del processo sulla base di un normale calendario giudiziario, preoccupati all’improvviso di esporsi alla responsabilità della scadenza dei termini di custodia cautelari per alcuni imputati, ha accelerato in maniera parossistica i tempi di trattazione del processo. Ma ciò che è più grave, è che tutto ciò è stato fatto nella indiscutibile consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere tale obiettivo, tenuto conto della fase in cui si trova attualmente il processo (ad oggi si sta espletando l’esame ed il controesame degli imputati; si dovranno poi escutere i testimoni della Difesa, si dovranno affrontare le richieste delle parti ai sensi dell’art. 507 cpp, ed infine, ci dovrà essere la requisitoria del P.M. e le arringhe dei difensori di ben 62 imputati). È chiaro che tutto ciò comprime inevitabilmente l’esercizio del diritto di difesa e pregiudica ingiustificatamente l’attività dei difensori, impegnati anche in altri processi, alcuni di pari o maggiore gravità.
Il sottoscritto difensore nella nota indirizzata alla Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane, ebbe già a dare atto che la condotta del Tribunale, se per un senso dimostrava un elevato senso del dovere da parte dei componenti del Collegio, con sacrificio anche delle proprie esigenze personali, dall’altro confliggeva, però, vistosamente col diritto di difesa dell’imputato, perché la prolungata ed estenuante durata delle udienze non poteva non incidere negativamente sulla capacità di apprensione e di valutazione dei fatti, e della loro rilevanza processuale, sia da parte del Collegio che da parte dei difensori.
Con riserva, come detto, di ulteriori e documentati approfondimenti della questione.
Napoli, 23/2/2010
Avv. Francesco De Vita

fonte http://www.camerepenali.it/forum.aspx?p=posts&f=289&t=3049&m=7064

PRESCRIZIONE EX CIRIELLI: QUANDO LA NUOVA NORMATIVA (PIÙ FAVOREVOLE) È APPLICABILE

Cassazione, Sezioni unite penali, 10 dicembre 2009, n. 47008

    * Ai fini dell'applicazione delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza del giudizio in appello e vale ad escludere la regola della retroattività delle disposizioni più favorevoli
    *  L'esclusione sancita dall'art. 10 c. 3 L. 251/05 non concerne solo i termini fissati dall'art. 157 c.p., ma tutte le disposizioni che hanno come effetto una loro riduzione: ciò in quanto la norma non distingue tra i vari modi che possono portare a detto risultato, con la conseguenza che nell'ambito della non operatività deve ritenersi compresa anche l'ipotesi in cui la maggior brevità del tempo di prescrizione derivi da una disposizione che incide sulla durata stessa, anticipandone nel tempo la decorrenza, come quella che, eliminando nell'art. 158 c.p. il richiamo alla continuazione, ha determinato che, in caso di reati uniti da tale vincolo, debba aversi riguardo alla commissione di ciascuno di essi e non già dalla data di cessazione dell'attività criminosa

Cassazione, Sezioni unite penali, 10 dicembre 2009, n. 47008
(Pres. Gemelli – Rel. Ferrua)

Svolgimento del procedimento

Con sentenza 10-11-05 il Tribunale di Palermo dichiarava D. O. responsabile ai sensi degli artt. 81 cpv., 519 c. 1 e 2 c.p. dei reati continuati di violenza carnale e di atti di libidine ai danni della figlia S., all'epoca minore degli anni omissis, fatti commessi sino al omissis: condannava il predetto a pena ritenuta di giustizia.

Con pronuncia 14-2-08 la Corte di appello, a seguito di espletamento di una perizia sulla capacità della persona offesa a rappresentare gli accadimenti oggetto del processo e dopo avere effettuato nuovo esame della medesima, riduceva l'inflitta sanzione confermando nel resto la decisione impugnata.

Avverso la sentenza di secondo grado l'imputato ha proposto ricorso per cassazione in base ai seguenti motivi.

1 - Violazione degli artt. 157, 519 c.p. e 129, 531 c.p.p. per omessa declaratoria di estinzione dei reati ascritti a causa di intervenuta prescrizione.

In particolare è stato dedotto che tali reati, per i quali è stabilita la pena edittale massima di anni 10 di reclusione, alla luce della modifica dell'art. 157 c.p. introdotta dalla L. 5-12-05 n. 251 erano già prescritti sin dal omissis, quindi prima della data di emissione della sentenza di appello: ciò in quanto doveva applicarsi il nuovo e più favorevole termine di operatività della causa estintiva, pari ad anni 10, eventualmente aumentato di un quarto ex art. 161 c.p.

2 - Vizio di motivazione in punto responsabilità e travisamento della prova (motivo enunciato con successiva memoria, peraltro nel lasso temporale previsto per l'impugnazione principale).

Precipuamente si è denunciata mancanza di adeguata valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, la quale quando si era espressa spontaneamente non aveva mai accusato il padre, ma aveva ribadito la di lui estraneità ai fatti.

Il ricorso veniva assegnato alla terza sezione penale della Cassazione ed il collegio lo rimetteva alle Sezioni Unite, evidenziando che in relazione al primo motivo si delineava una questione - quella concernente il momento cui collegare il limite posto dall'art. 10, c. 3 L. 251/2005 alla retroattività, per i processi “pendenti in appello”, delle disposizioni più favorevoli in materia di prescrizione introdotte dalla suddetta legge - in ordine alla quale sussisteva contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici.



Motivi della decisione

Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è dunque il seguente:“se a seguito della sentenza di condanna emessa in primo grado debba ritenersi verificata la pendenza in appello del processo, prevista dall'art. 10 c. 3 della L. 5-12-2005 n. 251 ai fini di escludere l'applicabilità delle disposizioni sopravvenute, più favorevoli in tema di prescrizione”.

Per un corretto inquadramento ed un agevole approfondimento della questione è utile riportare il contenuto della norma di riferimento nella sua originaria formulazione ed in quella attuale, risultante a seguito dell'intervento operato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 23-11-06 n. 393.

L'art. 10 L. 251/05 - dopo avere fissato, al comma 1, l'entrata in vigore della nuova legge nel giorno successivo alla sua pubblicazione ed avere sancito, al comma 2, la non applicabilità ai procedimenti ed ai processi in corso della nuova disciplina, qualora i termini di prescrizione risultassero più lunghi di quelli previgenti - recitava testualmente, al comma 3: “Se per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti ed ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di Cassazione”.

La Corte Costituzionale con la menzionata pronuncia ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale comma, limitatamente alle parole “dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché”.

All'uopo ha rilevato: che il principio della retroattività delle disposizioni più favorevoli posto dall'art. 2 c. 4 c.p. (da intendersi riferito a tutte le norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato) non è oggetto della tutela privilegiata contemplata dall'art. 25 c. 2 Cost. poiché questa concerne unicamente il divieto di applicazione retroattiva della norma incriminatrice o comunque più sfavorevole all'imputato; che, pertanto, il medesimo è derogabile anche tramite una legge ordinaria, ma che, trattandosi comunque di una regola generale del nostro sistema penale, alla quale viene attribuita valenza anche dalla legislazione internazionale e da quella comunitaria (Patto sui diritti civili e politici di New York del 16-12-66; Trattato sull'Unione Europea di Amsterdam del 2-10-97 e Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea di Nizza del 7-12-00), la deroga deve essere diretta a far prevalere principi di uguale o maggior valenza (quali - a titolo esemplificativo - l'efficienza del processo, la salvaguardia dei diritti dei soggetti che in vario modo sono destinatari della funzione giurisdizionale, la tutela di interessi dell'intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo). Con specifico riferimento alla disposizione transitoria de qua ha affermato che la scelta di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado come discrimine temporale per l'applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione non era “assistita da ragionevolezza” e violava l'art. 3 della Costituzione sotto diversi profili. Innanzitutto, a causa del carattere non indefettibile dell'incombente suddetto, che caratterizza solo il rito ordinario, restando estraneo a quelli alternativi ed altresì perché il medesimo non era idoneo a correlarsi significativamente alla funzione della prescrizione (strumento con il quale l'ordinamento si fa carico del diminuito allarme sociale suscitato dal reato e del meno agevole esercizio del diritto di difesa, determinati dal decorso del tempo), tanto da risultare “eccentrico” rispetto agli altri eventi processuali presi in considerazione dall'art. 160 c.p. ai fini della sua interruzione; inoltre si è segnalato che non erano invocabili esigenze di efficienza processuale e di conservazione della prova poiché al momento dell'apertura del dibattimento non sono state ancora compiute attività processuali suscettibili di essere vanificate.

Per effetto della richiamata sentenza l'operatività dei nuovi termini di prescrizione, in quanto più favorevoli, risulta ormai esclusa dalla disposizione di cui al c. 3 dell'art. 10 della L. 251/05 unicamente con riguardo ai “processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di Cassazione”.

Con successiva pronuncia, del 28-3-08 n. 72, la Consulta ha dichiarato infondate varie questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla suddetta residua deroga, evidenziando: che la stessa non può dirsi irragionevole, discendendo dal fatto oggettivo e inequivocabile che “processi di quel tipo siano in corso ad una certa data”; che l'avvenuta emissione di una sentenza di primo grado o di un decreto di condanna assume rilievo rispetto all'istituto della prescrizione in quanto questi atti, al pari del decreto di citazione per il giudizio di secondo grado, sono inclusi tra quelli indicati dall'art. 160 c.p.; che nei processi di appello (ed ancor più in quelli pendenti in cassazione) l'esigenza di evitare che l'acquisizione del materiale probatorio e quindi l'esercizio della difesa siano resi più difficili a causa del decorso del tempo è ormai soddisfatta poiché, in linea generale, l'attività istruttoria si svolge in primo grado; che l'opzione legislativa trova giustificazione siccome volta ad impedire la dispersione delle attività processuali realizzate secondo cadenze calcolate in base ai tempi di prescrizione più lunghi, vigenti all'epoca del loro compimento (motivazione integralmente richiamata dall'ordinanza 23-10-08 n. 343 che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione nuovamente sollevata).

In relazione all'attuale testo della norma transitoria si è dunque posto il quesito sopra enunciato, il quale nella fattispecie in esame è rilevante sotto duplice aspetto. Da un lato va considerato che la L. 251/05 è entrata in vigore il 7-12-05, ossia un mese dopo la pronuncia della sentenza del Tribunale ed in pendenza del termine per proporre appello; per altro verso, se si ritenesse applicabile la previgente disciplina, la causa estintiva (come con maggiore precisione verrà in seguito illustrato) non si sarebbe ancora verificata, mentre in caso di operatività di quella nuova l'ultimo fatto delittuoso addebitato al ricorrente nell'ambito del reato continuato risulterebbe prescritto al omissis, quindi prima della sentenza di secondo grado (risalendo a data ancora precedente l'avverarsi della prescrizione per quelli commessi in epoca anteriore).

Al proposito si sono delineate nella giurisprudenza di legittimità diverse e contrastanti posizioni.

In taluni precedenti è stato affermato che la pendenza del grado di appello, alla quale consegue la non retroattività delle norme sopravvenute più favorevoli, ha inizio con l'effettiva proposizione del gravame e non già con la semplice conclusione del primo grado di giudizio: invero la formula adottata dal legislatore deve essere valutata “nella sua specificità lessicale” e l'art. 10 c. 3 L. 251/05 evoca non la pendenza del giudizio di appello, bensì del processo nel “grado di appello”, in questo modo attribuendo rilievo all'atto che lo introduce; né possono assumere valenza il decreto di citazione in giudizio per l'appello ovvero la trasmissione del fascicolo al giudice di secondo grado, eventi successivi all'impugnazione (Cass. 2-10-07 n. 41965 Rv. 238194; Cass. 9-4-08 n. 18382 Rv. 240375; Cass. 10-4-08 n. 26101 Rv.240608; 28-5-09 n. 22328 Rv. 244000).

Una pronuncia, rimasta peraltro isolata, ha invece collegato la pendenza di un processo in appello alla sua iscrizione nel registro della Corte di appello (Cass. 15-4-08 n. 24330 Rv. 240342). In particolare si è assunto che il dato centrale e fondamentale del passaggio da una fase processuale all'altra è costituito rispettivamente dalla trasmissione e dalla ricezione degli atti: ciò alla luce dell'urgenza imposta per il primo di questi adempimenti dagli artt. 432, 590 c.p.p. e della circostanza che il giudice dell'impugnazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 465 e 598 c.p.p., può provvedere agli atti preliminari di sua competenza solo dopo la suddetta ricezione. Al contempo è stato censurato il riferimento alla presentazione dell'impugnazione, comportando un criterio del genere molteplici incertezze nell'ipotesi di procedimenti con più imputati; del pari si è esclusa la possibilità di avere riguardo all'emissione della sentenza di primo grado in quanto siffatta interpretazione sarebbe in contrasto con il dettato normativo e porterebbe a ritenere già istaurato l'appello, pur essendo la celebrazione di questo giudizio meramente eventuale.

Secondo un altro orientamento, decisamente maggioritario, la pendenza del processo in appello coincide con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (tra i precedenti più significativi: Cass. 27-11-06 n. 42189 Rv. 234954; Cass. 21-2-08 n. 13350 Rv. 241319; Cass. 20-11-07 n. 1574 Rv. 240156; Cass. 26-5-08 n. 31702 Rv. 240607; Cass. 10-10-08 n. 40976 Rv. 241319; Cass. 15-7.08 n. 38587 RV. 241698; Cass. 16-7-08 n. 37333 Rv. 241699; Cass. 16-1-09 n. 7697 Rv. 242966; Cass. 22-10-08 n. 13523 Rv. 243826; Cass. 14-5-09 n. 34231 Rv. 244100).

A sostegno si è considerato che il significato dell'attuale norma transitoria va inteso e “ri-definito” nel senso che non riproduca ciò che la Consulta ha ritenuto irragionevole e non conforme al sistema, tenendosi altresì conto dello scopo originariamente perseguito. È stato, quindi, rilevato che la sentenza di condanna determina interruzione della prescrizione e si pone in armonia con l'esigenza di non ridurne indiscriminatamente i tempi; si è precisato che l'effetto riconosciuto alla medesima, di escludere la retroattività delle norme più favorevoli, va riportato alla lettura del dispositivo e non al deposito della motivazione, che non incide sul decorso della causa estintiva; infine è stata negata ogni rilevanza ad altri fatti, quali la presentazione dell'impugnazione o l'iscrizione nel registro della Corte di appello, che a loro volta non sono ricompresi tra quelli previsti dall'art. 160 c.p. e dipendono dalla volontà di taluni soggetti processuali.

Anche le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi in ordine a questioni diverse, in ben due occasioni hanno seguito quest'ultimo indirizzo, in un caso affermando che doveva operare la nuova disciplina in quanto al momento della entrata in vigore della L. 251/05 non era ancora stata pronunciata la sentenza di condanna di primo grado (Cass. S.U. 28-2-08 n. 19601), nell'altro applicando la normativa previgente perché al momento suddetto già era stata emessa tale sentenza, che “costituisce atto interruttivo della prescrizione” (Cass. S.U. 27-11-08 n. 3287)

Ferma restando la soluzione di cui sopra, sono intervenute ulteriori e divergenti specificazioni: ribadendosi che il diniego della retroattività della lex mitior presuppone il verificarsi di un evento interruttivo della prescrizione, è stato assunto che, per l'ipotesi in cui il giudizio di primo grado si concluda con una sentenza di proscioglimento (la quale non è contemplata dall'art. 160 c.p.), la deroga opererebbe solo a partire dall'emissione del decreto di citazione in appello, che rappresenta il primo atto in sequenza procedimentale avente l'effetto in questione (Cass. 25-11-08 n. 7112 Rv. 242421; Cass. 16-4-09 n. 25470 Rv. 243898); in senso difforme si è dato risalto al solo principio dell'efficienza del processo, a prescindere dall'intervento di un atto interruttivo della prescrizione e l'esito del giudizio di primo grado è stato considerato indifferente. (Cass. 6-3-08 n. 18765 Rv. 239868; Cass. 11-4-08 n. 17349 Rv. 240403).

Queste Sezioni Unite, rimanendo nell'ambito del quesito che qui interessa e rileva, ritengono di aderire all'orientamento maggioritario che individua nella sentenza di condanna emessa in primo grado il fattore al quale ancorare, in tema di prescrizione, l'inapplicabilità delle norme sopravvenute, più favorevoli all'imputato; all'uopo si condividono le argomentazioni che sono state riportate e si osserva quanto segue.

Le pronunce della Corte costituzionale producono effetti vincolanti in ogni procedimento esclusivamente per quanto attiene alla dichiarazione in queste contenuta di illegittimità costituzionale di una norma (Cass. 21-2-84 n. 4678 Rv. 164298; Cass. 15-7-96 n. 7895; Cass. S.U. 29-3-07 n. 27614 Rv. 236535); la giurisprudenza civile ha, peraltro, evidenziato che le argomentazioni poste a fondamento della decisione rilevano al fine di individuarne l'oggetto e la portata, costituendo la motivazione ed il dispositivo elementi di uno stesso atto, unitariamente inteso, reso secondo il modello della sentenza. (Cass. S.U. 24-10-84 n. 5401 Rv. 437104; Cass. S.U. 16-1-85 n. 94 Rv. 438291; Cass. civ. 15-3-01 n. 3756 Rv. 544785; Cass. civ. 17-12-04 n. 23506 Rv. 579373); in sede penale, con riferimento a sentenze di rigetto delle questioni di legittimità, le quali non sono in alcun modo vincolanti, si è tuttavia affermato, con diverse sfumature, che esse rappresentano un precedente autorevole e che il giudice in un diverso procedimento, pur conservando il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la disposizione “salvata”, incontra il limite di non assegnare alla formula normativa un significato che secondo il Giudice delle leggi sarebbe in contrasto con la Costituzione (Cass. 13-12-95 n. 930 Rv. 203426; Cass. S.U. 13-7-98 n. 21 Rv. 211195; Cass. S.U. 16-12-98 n. 25 Rv. 212075).

Orbene, la sentenza della Corte Costituzionale parzialmente demolitiva dell'art. 10, c. 3 non solo ha efficacia “erga omnes” in ordine al precetto dichiarato illegittimo, ma assume valenza, sebbene non assoluta, con riguardo ai motivi della ritenuta irragionevolezza i quali nell'interpretazione della restante disposizione non possono essere trascurati, dovendosi evitare che venga adottato un criterio avente gli stessi caratteri di quello censurato.

Così pure occorre tenere presenti le valutazioni in base alle quali la successiva sentenza della Consulta ha escluso la incostituzionalità della deroga alla retroattività della disciplina più vantaggiosa per quanto attiene ai processi pendenti in appello (ovvero avanti la Corte di cassazione): infatti se ci si discostasse dalle medesime, senza addivenire a soluzioni dotate di pari ragionevolezza, potrebbero prospettarsi nuove questioni di costituzionalità.

È quindi evidente che, a fronte della previsione rimasta in vigore, non deve tanto ricostruirsi la nozione generale ed astratta di pendenza del giudizio o di pendenza del giudizio di appello, ma piuttosto l'esatto significato che la locuzione normativa assume nel particolare contesto in cui è stata introdotta, considerando gli interessi perseguiti e le condizioni per le quali l'esclusione della retroattività si palesa compatibile con la legge fondamentale.

Né potrebbe giovare un richiamo dogmatico al dato testuale posto che il concetto di pendenza non ha ricevuto definizione nel nostro sistema processual-penalistico, il che consente di adeguarlo alle caratteristiche ed alla finalità delle situazioni in cui è destinato ad incidere.

Nella delineata ottica, essendo ormai indiscutibile l'operatività della disciplina più favorevole per tutta la durata del giudizio di primo grado, risulta legittimo far scattare l'esclusione a partire dall'atto conclusivo di quest'ultimo il quale si concreti in una sentenza di condanna, che determina interruzione della prescrizione.

In effetti, ravvisare la pendenza di un procedimento in appello nel momento in cui viene emesso il provvedimento che pone fine al grado precedente trova congrua spiegazione nella circostanza che questo evento comporta l'impossibilità per il giudice di assumere ulteriori decisioni in merito all'accusa, nell'ambito del processo principale (non rilevando, ai fini in questione, le disposizioni in tema di competenza dettate da esigenze pratiche in relazione ai procedimenti incidentali cautelari) e che esso apre comunque la fase dell'impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla.

A conferma di tale impostazione v'è la tecnica legislativa impiegata nel concepire la norma nonché la ratio a questa sottesa.

Mentre il riferimento ai processi di primo grado era avvenuto con indicazione di una determinata cadenza (l'apertura del dibattimento), quelli di appello e di cassazione, invece, sono stati richiamati nella loro globalità e come aventi, ciascuno di loro, immediato corso rispetto al precedente: il che segnala che non è ipotizzabile una soluzione di continuità tra la conclusione di un grado e la pendenza del successivo.

D'altronde va riconosciuto che il legislatore con la disposizione originaria intese apportare, in tema di prescrizione, ampia deroga al principio posto dall'art. 2 c. 4 c.p.p., al fine di impedire che si verificasse una forma generalizzata di amnistia a scapito di una coerente applicazione della legge penale; la Corte Costituzionale non ha censurato la ragione che ebbe ad ispirare la limitazione (avendo anzi ritenuto che la tutela dell'efficienza del processo valga, in generale, a giustificare un'eccezione al citato principio), ma la scelta della formalità destinata a fungere da discrimine in subiecta materia: pertanto, in relazione alla norma che residua dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale, s'impone un approccio ermeneutico che sia conforme agli enunciati in questa contenuti ed attribuisca altresì rilievo al suddetto intento, evitando di restringere senza necessità la deroga stessa.

Di conseguenza, anche sotto codesto aspetto, occorre riportarsi ad un momento che, dopo la conclusione del giudizio di primo grado, sia il più possibile risalente nel tempo; per il resto si condivide quanto segnalato nelle sentenze del Giudice delle leggi circa la specifica esigenza che il sacrificio dell'interesse dell'imputato ad un più benevolo trattamento venga parametrato alla funzione dell'istituto della prescrizione e quindi collegato ad un atto interruttivo del suo corso.

All'uopo va puntualizzato che, se la prescrizione implica la rinuncia dello Stato a realizzare la pretesa punitiva a causa del decorso del tempo, di converso ogni atto avente efficacia interruttiva di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 160 c.p., rappresenta esplicitazione e riaffermazione della volontà di accertare fatti e responsabilità, in una prospettiva di ravvisato perdurare dell'allarme sociale (Cass. 22-4-97 n. 6054 Rv. 208089; Cass. 27-11-02 Rv. 226427; Cass. 22-11-07 n. 2113 Rv. 238478).

In altre parole l'interruzione della prescrizione, nell'incidere in modo negativo sul calcolo della prescrizione, si traduce in un elemento di contrasto al verificarsi della causa estintiva e pertanto costituisce un'espressione tipica dell'esigenza di assicurare l'efficacia della giurisdizione e del processo penale.

La sentenza di condanna - quale accadimento che conclude il giudizio di primo grado, nel cui corso si è raccolto il materiale probatorio e quale evento che, consolidando l'accusa, interrompe la prescrizione - è dunque idonea, sia in relazione al momento processuale in cui interviene, sia con riguardo al suo contenuto di verifica fattuale e di imposizione punitiva, a segnare la linea di demarcazione temporale tra la pregressa e la nuova normativa; né può sottacersi che la stessa è stata menzionata dalla Consulta nell'operare richiamo ad atti rilevati a questo fine.

Gli esposti motivi rendono evidente che la situazione di pendenza non può essere determinata dalla proposizione dell'impugnazione ovvero dall'iscrizione del processo nel registro del giudice di secondo grado: tali fatti non sono interruttivi della prescrizione né altrimenti indirizzati a garantire la funzione del processo; a ciò aggiungasi che la soluzione di far dipendere il verificarsi o meno della prescrizione da comportamenti delle parti oppure da adempimenti di carattere amministrativo sarebbe priva di plausibile fondamento.

In conclusione deve affermarsi il seguente principio di diritto:

“ai fini dell'applicazione delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza del giudizio in appello e vale ad escludere la regola della retroattività delle disposizioni più favorevoli”.

Venendo al ricorso in esame, il primo motivo è infondato poiché, essendo la nuova disciplina entrata in vigore dopo la pronuncia della sentenza di condanna emessa in primo grado, deve applicarsi quella previgente.

In particolare si ribadisce che l'esclusione sancita dall'art. 10 c. 3 L. 251/05 non concerne solo i termini fissati dall'art. 157 c.p., ma tutte le disposizioni che hanno come effetto una loro riduzione: ciò in quanto la norma non distingue tra i vari modi che possono portare a detto risultato, con la conseguenza che nell'ambito della non operatività deve ritenersi compresa anche l'ipotesi in cui la maggior brevità del tempo di prescrizione derivi da una disposizione che incide sulla durata stessa, anticipandone nel tempo la decorrenza, come quella che, eliminando nell'art. 158 c.p. il richiamo alla continuazione, ha determinato che, in caso di reati uniti da tale vincolo, debba aversi riguardo alla commissione di ciascuno di essi e non già dalla data di cessazione dell'attività criminosa (Cass. 14-2-07 n. 15177 Rv. 236813; Cass. 23-2-07 n. 41811 Rv. 237906).

Poiché nella vicenda in esame i fatti delittuosi sono stati addebitati e ritenuti quali realizzati dall'imputato ex art. 81 cpv c.p. sino al omissis, va riconosciuto che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 157, 158, 161 c.p. nella loro originaria formulazione, la prescrizione non si è ancora verificata, poiché il termine massimo si esaurirebbe solo nel novembre del 2016.

Il secondo motivo di ricorso si risolve nell'invocare una valutazione in ordine al contesto probatorio diversa da quella di cui al provvedimento impugnato, senza individuare in questo alcun errore di logica argomentativa rilevante a norma dell'art. 606 c. 1 lett. e) c.p.p.

La Corte territoriale ha evidenziato che le dichiarazioni della D. circa gli abusi sessuali subiti ad opera dell'imputato - rese con specifiche indicazioni agli operatori sociali, all'insegnante e successivamente al P.M. nonché al Gip nel corso dell'incidente probatorio - erano state confermate nel giudizio di primo grado (alle udienze dibattimentali del 23-1-04, del 24-3-05) e ribadite in appello (all'udienza del 6-7-07), avendo la medesima riferito che la pregressa ritrattazione (operata all'udienza del 29-4-03) le era stata richiesta dal padre e che ella l'aveva effettuata nella speranza di riunirsi alla di lui famiglia (stante il cattivo rapporto con la madre), ma che poi era tornata a dire la verità “perché certe cose non si possono dimenticare”. Inoltre è stato segnalato come i periti, nominati in secondo grado, avessero affermato che la persona offesa era esente da carenze concernenti le principali funzioni psichiche (essendo dotata di percezione pronta ed immune da errori, di buona memoria a breve termine e sufficientemente conservata quella a lungo termine, di soddisfacente capacità critica su realtà e verità, di regolari nessi associativi) e che la stessa presentava una struttura di personalità con evidenti segnali di sofferenza emotiva, compatibile con una vita segnata da episodi traumatici sul piano fisico, psichico, affettivo e relazionale.

Rispetto a tali emergenze la conclusione adottata, circa la credibilità delle dichiarazioni della persona offesa - in quanto precise, lucide e ripetute - ed in ordine al carattere non inficiante della ritrattazione - perché dettata dal disperato tentativo di recuperare il rapporto col padre - si palesa del tutto consequenziale e pertanto sottratta a possibilità di sindacato di legittimità.

Né può incidere il richiamo dell'impugnante al fatto che la minore, all'età di omissis anni, avesse confidato alla cugina di avere subito atti di violenza sessuale solo ad opera dello zio (condannato in separato processo) e non anche da parte del padre; del pari non rileva l'ulteriore circostanza invocata dalla difesa, rappresentata dall'avere detta cugina riferito in dibattimento che S. le aveva ripetutamente confessato l'estraneità del padre alle violenze subite: anche questi dati, alla luce delle spiegazioni della vittima e delle risultanze peritali, sono stati ritenuti, in termini del tutto logici, significativi unicamente di originarie remore e dell'intento che, ad un certo punto, la minore aveva avuto di avvicinarsi alla famiglia paterna, dovendosi altresì tenere conto dell'ambivalenza dei sentimenti della stessa verso il padre, caratterizzati da disprezzo e rabbia ma anche da desiderio di affetto e protezione, specie per l'assenza di una figura alternativa nella madre che potesse darle il necessario sostegno.

Per tutte le svolte argomentazioni s'impone il rigetto del ricorso, con condanna dell'imputato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

fonte http://www.dirittoeprocesso.com/index.php?option=com_content&view=article&id=748:prescrizione-ex-cirielli-quando-la-nuova-normativa-piu-favorevole-e-applicabile&catid=65:processo-penale&Itemid=99

Non commette reato il cliente che minaccia l'avvocato di un esposto all'Ordine

Non può essere condannato penalmente il cliente che, durante un legittimo “sfogo”, minaccia l’avvocato di presentare un esposto all’ordine.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 2 del 4 gennaio 2010, ha confermato l’assoluzione pronunciata in favore di una donna dal Tribunale di Lanciano, accusata di aver minacciato un legale di rivolgersi all’ordine nel caso questo non avesse ritirato il ricorso. Insomma, il vibrato sfogo nello studio dell’avvocato, hanno sancito gli Ermellini, non poteva avere una rilevanza penale.

fonte cassazione.net

Guida in stato di ebbrezza Sospensione della patente Carenza di giustizia

Il rigore sanzionatorio nei confronti della guida in stato di ebbrezza non va disgiunto dalle garanzie difensive.E’ noto che per i delitti di una certa gravità il codice di procedura penale prevede la possibilità di applicare misure cautelari che arrivano sino alla carcerazione in attesa del giudizio. Vero è che in ordine all’applicazione delle stesse sussistono delle garanzie.In primo luogo le misure cautelari vengono disposte da un magistrato; in secondo luogo è prevista la possibilità di adire il Tribunale del riesame e la Corte di Cassazione. Per la violazione dell’art. 186 del Codice della Strada, questo prevede tre ipotesi di contravvenzione a seconda del tasso alcolemico rilevato e oltre all’arresto e all’ammenda, la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida. Tale ultima sanzione trova provvisoria esecuzione in seguito a provvedimento del Prefetto, in attesa della definizione del procedimento penale ed è graduata nel tempo in relazione alla gravità dell’ipotesi riscontrata.Il provvedimento del Prefetto è in sostanza una misura cautelare che precede l’accertamento definitivo del giudice penale in ordine alla sussistenza della contravvenzione. Come ogni misura cautelare che in un secondo momento potrebbe rilevarsi ingiusta, dovrebbe sussistere un’istanza di controllo sulla stessa.Tale istanza è stata ravvisata nel ricorso al Giudice di Pace, per costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, il quale ha il potere di sospendere il provvedimento del Prefetto.  Il risultato dell’etilometro è invero soggetto all’accertamento del tribunale monocratico e prima di tale accertamento non può ritenersi incontrovertibile. In fatto esistono situazioni quali l’esposizione del conducente ad alcune sostanze che possono falsare il tasso del risultato alcolemico. Ma ciò che preme sottolineare è l’esigenza di un controllo sulla misura provvisoria cautelare così come per ogni misura cautelare. Tale garanzia pare non debba sussistere. Invero, con una recente sentenza, il Giudice di Pace di Padova, ma sembra che il precedente non sia isolato, adito ai sensi della legge 689/81 ha statuito il proprio difetto di giurisdizione in ordine all’opposizione avverso il ritiro della patente di guida per violazione dell’art.186 del codice della strada. Va notato che il tempo per il giudizio rende inutile il ricorso innanzi alla Corte di Cassazione per contestare l’affermato difetto di giurisdizione. Le conseguenze sono di tutta evidenza. Sino all’apertura del processo penale non è contestabile la sospensione della patente disposta dal Prefetto. Il processo penale è destinato, peraltro, ad esaurirsi ben dopo trascorso il periodo di sospensione della patente di guida. La conseguenza è pertanto che quali che siano le ragioni di chi ha subito il provvedimento, la sospensione della patente è comunque sanzione di fatto eseguita. E’ augurabile si arrivi dunque ad un mutamento giurisprudenziale o legislativo per porre termine ad un’irrazionale situazione di carenza di giustizia.
Avv.Prof. Rodolfo Bettiol
fonte http://sandrovivan.wordpress.com/2010/01/01/guida-in-stato-di-ebbrezza-sospensione-della-patente-carenza-di-giustizia/

In dibattimento legittima l’ammissione al giudizio abbreviato per i fatti già oggetto di indagine

Estesi i diritti di difesa dell’imputato. D’ora in avanti potrà infatti chiedere in dibattimento di essere ammesso al rito abbreviato in relazione a fatti (reato concorrente e fatti diversi) oggetto della stessa indagine contro di lui.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 333 di ieri ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale. Non solo. I giudici di Palazzo della Consulta hanno anche bocciato l’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.

fonet cassazione.net

Non retroattiva la riforma del 2005 sulla prescrizione

Non si applica retroattivamente la nuova e più favorevole prescrizione (corrispondente al massimo della pena edittale) introdotta con la riforma del 2005. Infatti agli imputati già condannati in primo grado prima dell’entrata in vigore delle nuove norme si applicano le disposizioni abrogate.
A questa conclusione sono giunte le Sezioni unite penali della Cassazione che, con la sentenza n. 47008 di oggi, hanno respinto il ricorso di un uomo condannato in primo grado per violenza sessuale ai danni della figlia.
L’imputato era stato condannato in primo grado dal Tribunale di Palermo nel 2005. Tre anni più tardi la Corte d’Appello aveva ridotto la pena, confermando però la responsabilità penale.
Contro questa decisione lui ha fatto ricorso in Cassazione chiedendo alla Suprema corte che il reato fosse dichiarato estinto per intervenuta prescrizione. Ma le Sezioni unite lo hanno respinto affermando il principio secondo cui “ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza del giudizio in appello e vale ad escludere la regola della retroattività delle disposizioni più favorevoli”.

fonte cassazione.net

La denuncia dell’avvocato contro il magistrato non fa scattare la ricusazione

Il giudice non può essere ricusato solo perché in passato è stato denunciato all’autorità giudiziaria dall’avvocato. Infatti, ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 46631 di oggi, “la presentazione di una denuncia contro un magistrato non è da sola sufficiente ad integrare l’ipotesi di ricusazione, poichè il sentimento di grave inimicizia, per essere pregiudizievole, dev’essere reciproco, deve cioè nascere o essere ricambiato dal giudice e deve trarre origine dai rapporti di carattere privato estranei al processo”. Non solo, lo stesso principio vale anche quando il legale abbia denunciato un familiare stretto del magistrato.
fonte cassazione.net

CASSAZIONE: È riciclaggio qualunque attività per ripulire denaro sporco, a prescindere dal reato da cui proviene

La Cassazione affila le armi nella lotta contro il riciclaggio di capitali. L’incriminazione prescinde dal reato dal quale provengono i soldi (un tempo le accuse di riciclaggio si reggevano solo se era stata accertata la concussione, la corruzione, reati societari e fallimentari) e si può fondare “su qualsiasi condotta tendente a ripulire il denaro sporco”, fra cui un’evasione fiscale e la sola appartenenza a un’organizzazione criminale.

Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 45643 di ieri, ha respinto il ricorso di un appartenente a un clan mafioso che aveva fatto ricorso contro le accuse di riciclaggio perché, aveva sostenuto la difesa, il Tribunale delle Libertà di Firenze, nel confermare la custodia cautelare, non aveva accertato il reato da cui provenivano i capitali.

fonte cassazione.net