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Cassazione: precedenza nella riassunzione ai lavoratori licenziati per riduzione del personale

La Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con sentenza n. 2005 del 22 settembre 2010, ha affermato che "con riguardo alla disciplina posta dalla L. 29 aprile 1949, n. 264, art. 15, ove il datore di lavoro abbia proceduto al licenziamento di dipendenti per riduzione di personale, il lavoratore licenziato ha la precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda entro un anno dal licenziamento, sempre che la richiesta di nuova assunzione, numerica o nominativa, presentata dal datore di lavoro, riguardi lavoratori della medesima qualifica di quello licenziato (Cass. n. 937/1990)." La vicenda è relativa a benefici contributivi, per il cui godimento della L. n. 223 del 1991 prevede un’unica condizione ostativa, costituita dal fatto che l’assunzione per la quale l'impresa invoca gli sgravi contributivi non deve essere avvenuta in applicazione del diritto di precedenza previsto dalla L. 29 aprile 1949 n. 264. Tale condizione negativa è assente nel caso di specie, non essendo prospettabile una riassunzione obbligatoria del lavoratore assunto per soddisfare un'esigenza lavorativa diversa rispetto a quella per la quale era stato assunto in precedenza. A tal proposito, la Corte d’Appello aveva accertato e compiutamente motivato che il lavoratore aveva svolto mansioni diverse e specializzate rispetto a quelle espletate in precedenza e che dall'esclusione dell'obbligo di riassunzione derivava la possibilità di usufruire delle agevolazioni contributive. La Suprema Corte non ravvisa nell'iter motivazionale del Giudice di appello le violazioni denunciate dall'INPS e rigetta il ricorso.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9080.asp

Cassazione: il dipendente va in ferie nel periodo natalizio senza il consenso dell’azienda? Rischia il licenziamento

Con ordinanza n. 20461 del 30/09/2010 la Corte di Cassazione ha affermato che costituisce giusta causa di recesso l’allontanamento arbitrario dal posto di lavoro in presenza di espresso rigetto della richiesta di ferie. Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, il lavoratore propone ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello, confermando la pronuncia di primo grado, rigettava la domanda di annullamento del licenziamento intimato al lavoratore per essersi allontanato dal posto di lavoro durante il periodo natalizio. La Corte territoriale rilevava che la richiesta di ferie era stata espressamente rigettata per cui l’allontanamento non autorizzato, conformemente alla previsione disposta dall’art. 151 del C.C.N.L., costituiva giusta causa di recesso. Sebbene la Corte di Cassazione condivida la tesi per cui "non è sufficiente che una inadempienza sia contemplata dal CCNL come meritevole di recesso", sottolinea come nel caso concreto non siano state dimostrate circostanze rilevanti tali da rendere più lieve l’infrazione e quindi eccessiva la sanzione del licenziamento e rigetta, di conseguenza, il ricorso proposto dal lavoratore.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9081.asp

Multa al datore di lavoro che insulta il dipendente

Il datore di lavoro deve trattare con rispetto il dipendente che «non è tenuto a sottostare all’uso di epiteti di disprezzo e di disistima in virtù delle generali scelte di espressione del datore di lavoro». Lo ammonisce la Cassazione, ricordando che «il contesto lavorativo è caratterizzato da una pari dignità dei suoi protagonisti, da una pari effettività di tutta la normativa, senza che possa invocarsi, per nessuna delle parti una desensibilizzazione alle altrui trasgressioni». In questo modo, la Quinta sezione penale ha convalidato una multa di 240 euro a un imprenditore, colpevole di avere detto alla dipendente: "sei una stronza se te la prendi". La donna si era risentita per un rimprovero del capo e aveva espresso il rammarico. Lui, di tutta risposta, aveva replicato dicendole la frase offensiva. Il datore di lavoro era stato querelato e condannato dal Tribunale di Avezzano nel giugno 2009. La tesi difensiva, volta a dimostrare che il vocabolo utilizzato «è entrato nel linguaggio comune romanesco» e che, in ogni caso, il suo modo di fare era sempre «colorito in ambiente lavorativo», non ha fatto breccia in Cassazione. Gli ermellinì, infatti, hanno respinto il ricorso e hanno evidenziato che quando il datore di lavoro «fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non li può fare "a modo suo, anche al di fuori dei normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica". La Cassazione ha obiettato che "questa depenalizzazione di condotte trasgressive riveste spiccata insostenibilità in materia di rispetto della dignità umana, ancor maggiore quando è in gioco la dignità del datore di lavoro". Oltre alla multa, l'imprenditore. dovrà anche rifondere la dipendente per le spese processuali sostenute in Cassazione.

http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/lavoro/news/articolo/lstp/345032/

Cassazione: parolacce alla dipendente? E' ingiuria. Contesto lavorativo non è un'esimente

Risponderà del reato di ingiuria il datore di lavoro che si permette di prendere a parolacce il proprio dipendente. A dirlo è una recente sentenza della Corte di Cassazione, in particolare la n. 35099 depositata lo scorso 29 settembre 2010. Su ricorso proposto da un imprenditore, condannato per aver ingiuriato una sua dipendente, che aveva motivato il ricorso sostenendo la mancanza dell’offesa al bene giuridico protetto dalla norma, l’onore, in quanto l’espressione utilizzata (“sei una stronza se te la prendi”), “non esprime il giudizio su una persona ma su uno specifico comportamento”, il Palazzaccio ha spiegato che il contesto lavorativo non costituisce una circostanza attenuante o addirittura esimente del reato in esame, da arrivare a “tradursi in un’insostenibile affermazione di abrogazione per desuetudine di norme penali in quanto proiettate in un quadro sociologicamente e/o culturalmente disegnato dal giudice. Questa depenalizzazione di condotte trasgressive riveste spiccata insostenibilità in materia di rispetto della dignità umana, ancora maggiore quando è in gioco la dignità del lavoratore”.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9052.asp

Rientra nell'orario di lavoro il tempo impiegato nell'indossare la divisa aziendale

Un gruppo di dipendenti della xx Italia srl., con separati ricorsi poi riuniti, convenivano in giudizio la predetta società per chiedere la corresponsione dell’equivalente di venti minuti di retribuzione giornaliera per 45 settimane, a fronte del cd. “tempo tuta”. Esponevano che per entrare nel perimetro aziendale dovevano transitare per un tornello apribile mediante tesserino magnetico di riconoscimento, indi percorrere cento metri ed accedere allo spogliatoio, ivi indossare gli indumenti di lavoro forniti dall’azienda, effettuare una seconda timbratura del tesserino prima dell’inizio del lavoro; al termine, dovevano effettuare una terza timbratura, accedere allo spogliatoio per lasciare gli abiti di servizio, passare una quarta volta il tesserino al tornello ed uscire. Deducevano che il tempo occorrente per le suddette operazioni costituiva una “messa a disposizione” delle proprie energie in favore del datore di lavoro, onde il tempo stesso doveva essere retribuito. Si costituiva la società ed eccepiva che nel corso delle operazioni suddette i lavoratori rimanevano comunque liberi di disporre del proprio tempo e non erano sottoposti al potere datoriale, mentre soltanto con l’inizio effettivo del turno di lavoro essi erano sottoposti agli ordini ed alle indicazioni dei superiori gerarchici...

http://www.laprevidenza.it/news/lavoro/rientra-nell-orario-di-lavoro-il-tempo-impiegato-nell-indossare-la-divisa-aziendale/4939

Cassazione: il datore di lavoro è tenuto a informare i dipendenti sui rischi specifici dell'utilizzo di un prodotto

La Quarta sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 34771 depositata il 27/9/2010, ha stabilito che, perché possa ritenersi assolto l'obbligo di sicurezza previsto dagli artt. 21 e 22 del D.Lgs. 626/94 (vigente all'epoca dei fatti), è necessario che il lavoratore venga informato dei rischi specifici connessi all'uso di un prodotto. "Tale specificità non deve arrestarsi alla esplicitazione di un mero divieto, ma deve indicare le conseguenze per la sicurezza e la salute che determinate modalità di lavoro possono comportare." Nel caso specifico, in seguito al ricorso del legale rappresentante della società - condannato nei primi due gradi di giudizio per il delitto di omicidio colposo a seguito della morte di un proprio dipendente, avvenuta durante il lavaggio di una cisterna -, la Suprema Corte ha confermato quanto precedentemente stabilito dai giudici di merito ritenendo infondato il ricorso. In particolare, la Cassazione rileva che l'informazione specifica del rischio di esplosioni nell'utilizzo del prodotto (un solvente) non è stata data ai lavoratori addetti al lavaggio delle cisterne né risulta essere stata effettuata alcuna specifica attività di formazione in tema di sicurezza. Nel documento aziendale di valutazione dei rischi, inoltre, il pericolo di esplosioni conseguente all'uso del solvente non era stato preso in considerazione. La Corte ricorda infine che - come si legge in sentenza - "in materia di infortuni sul lavoro, la condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso, il datore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute (Cassazione n. 21587/2007)."

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9044.asp

Infortuni sul lavoro: in caso di imprudenza la responsabilità è del lavoratore o del datore di lavoro?

Con la sentenza n. 19280 la Suprema Corte (suffragata dalle precedenti decisioni della Corte di Cassazione nn. 19494 e 22818 del 2009) analizza le responsabilità del datore di lavoro e quelle del lavoratore nei casi di infortunio sul luogo di lavoro. Contestando le motivazioni addotte nel precedente grado dal datore, che imputava buona parte delle responsabilità al comportamento poco attento e avventato dell'infortunato, la Corte giudica invece che, sebbene sia da ammettersi che un comportamento accorto, diligente, esperto e responsabile da parte del lavoratore sia in grado di evitare incidenti, una condizione di lavoro in cantiere che permetta l'adozione di comportamenti adeguati non è quasi mai favorita, prevalendo invece l'inesperienza, la fretta, a volte l'ignoranza, la stanchezza e l'inconsapevolezza del pericolo. La responsabilità datoriale si pone comunque come centrale in caso di mancata adozione delle protezioni di legge: le norme che regolano la prevenzione degli infortuni sul lavoro hanno lo scopo di tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili a sua imperizia, negligenza ed imprudenza. Si rende indispensabile quindi, con l'adozione di tale misure, il conseguente controllo della loro osservazione. Il fatto che il lavoratore osservi solo in parte tali prescrizioni non esime il datore di lavoro dalle responsabilità derivanti, tranne che nei casi in cui il dipendente adotti un comportamento abnorme, inopinabile ed esorbitante in relazione al tipo di lavoro da svolgere e alle direttive ricevute.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9018.asp

Cassazione: Commette reato di stalking chi parla male del suo ex al datore di lavoro

Il comportamento di chi, oltre a reiterate molestie telefoniche in danno dell’ex compagno, porti avanti aggressioni verbali alla presenza di testimoni e iniziative gravemente diffamatorie presso i suoi datori di lavoro per indurli a licenziarlo, integra il reato di “atti persecutori”, cd. “stalking” di cui all’art. 612-bis c.p. È questo il principio di diritto emesso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 34015 depositata il 21 settembre scorso. La vicenda ha come protagonista una donna, oggetto di continue telefonate e aggressioni verbali da parte del suo ex ragazzo, che non solo offendeva la donna in privato ma anche in pubblico, e in particolare davanti al datore di lavoro della donna con l’intento di determinarne il licenziamento della stessa. In particolare, secondo quanto si apprende dalla sentenza di legittimità, il tribunale del riesame di Napoli, in seguito all’emissione da parte del gip della misura cautelare di cui all’art. 282-ter., c.p.p, consistente nel divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla donna, per la contestazione del reato di cui all’art. 612-bis del codice penale (atti persecutori, il cd. reato di “stalking”, introdotto nel nostro ordinamento con la legge 23 aprile 2009, n. 38 ), non ravvisando il compendio indiziario in materia di “stalking”, annullava l’ordinanza cautelare emessa dal Gip. Secondo il Tribunale della libertà di Napoli, infatti, gli atti posti in essere dall’uomo (minacce di morte e diffamazione) non avevano la caratteristica della persecutorietà e non avevano l’avevano l’attitudine a generale uno stato di ansia tale da impedire alla donna la propria vita lavorativa e familiare. Su ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, (che aveva eccepito l’illogicità della motivazione della sentenza del tribunale del riesame che da un lato confermava i comportamenti ingiuriosi e minacciosi ma dall’altro negava che questi avessero una qualche attitudine all’invasività nella vita della donna) la Corte di Cassazione, accoglieva le ragioni del PG, sottolineando la illogicità della decisione del tribunale del riesame, precisando che gli atti posti in essere dall’uomo (dalla lettura del capo di imputazione provvisorio, molestie telefoniche, squilli anche nel corso della notte e ricezione di sms, oltre alle ripetute aggressioni verbali alla presenza di testimoni e delle iniziative gravemente diffamatorie assunte presso i datori di lavoro per indurli a licenziarla) avevano l’attitudine di provocare sia un grave stato di ansia che il fondato timore per la propria incolumità e cioè “condotte alternative capaci di integrare il reato in discussione”.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9015.asp

Cassazione: integra il reato di estorsione la riduzione dello stipendio sotto minaccia di cessazione del rapporto di lavoro

Risulta riconducibile alla fattispecie dell'estorsione la prospettazione, da parte dell'imprenditore, della perdita del posto di lavoro nel caso in cui i dipendenti non accettino una retribuzione inferiore a quanto indicato nella busta paga; lo stesso vale per l'imposizione di apporre la propria firma su lettere di dimissioni in bianco onde evitare le disposizioni legislative dettate in tema di preavviso al licenziamento. E’ quanto afferma la Corte di Cassazione (sentenza 31/8/2010, n. 32525 della VI Sez. penale) sottolineando, come da giurisprudenza consolidata, che in nessun caso può essere legittimata e ricondotta "alla normale dinamica di rapporti di lavoro" un'attività minatoria, in danno di lavoratori dipendenti, che approfitti delle difficoltà economiche o della situazione precaria del mercato del lavoro per ottenere il loro consenso a subire condizioni di lavoro deteriori rispetto a quelle previste dall'ordinamento giuridico, in attuazione delle garanzie che la Costituzione della Repubblica pone a tutela della libertà, della dignità e dei diritti di chi lavora. Gli Ermellini precisano inoltre che la minaccia, intesa quale elemento costitutivo del reato di estorsione, non deve necessariamente essere ricondotta alla prospettazione, a fini di coartazione, di un male irreparabile alle persone o alle cose tale da impedire alla persona offesa di operare una libera scelta; è invece sufficiente che, in considerazione delle circostanze concrete in cui la condotta viene posta in essere, questa sia comunque idonea a far sorgere il timore di subire un concreto pregiudizio.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9015.asp

Cassazione: in caso di infortunio sul lavoro va risarcita tutta la famiglia

Nel caso di gravi incidenti sul lavoro, il risarcimento spetta non solo al lavoratore ma anche all'intera famiglia. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione evidenziando che danni di questo genere determinano uno "sconvolgimento delle abitudini di vita" che incide anche in ambito familiare. La decisione è della Terza sezione civile (sentenza n.19517/2010) che ha confermato una condanna ad un risarcimento danni di complessivi 120.000 euro (per danni non patrimoniali) in favore della moglie e di due figlie di un dipendente telecom infortunato che aveva riportato una invalidità dell'80%. L'invalidità oltretutto aveva compromesso anche la sfera sessuale. E' stato così confermata la condanna al risarimento dei danni non patrimoniali che i giudici di merito avevao accodato alla moglie (60mila euro) e alle due figlie (30mila euro ciascuna). Tra le altre cose la Cassazione (che non ha riconosciuto ulteriori danni morali) ha sottolineato che "il danno alla sfera sessuale conseguita all'infortunio e' stata fonte di sconvogimento delle abitudini di vita in relazione all'esigenza di provvedere ai maturati gravi bisogni del familiare". L'invalidita' inoltre ha determinato una "corrispondente diminuzione del contributo relazione e di sostegno che a sua volta il familiare puo' offrire agli altri".

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8986.asp

Cassazione: Nella fusione di azienda è possibile la reintegraizone lavoratore ingiustamente licenziato

Con la sentenza n. 19000 del 2 settembre 2010 la Corte di Cassazione ha stabilito che anche l'azienda sia stata incorporata da un'altra azienda, il lavoratore ingiustamente licenziato può essere reintegrato. La Corte con la sentenza citata non ha infatti escluso la possibilità di reintegrazione sul posto di lavoro del lavoratore ingiustamente licenziato. In particolare la Corte, accoglinedo il ricorso proposto da una ex dipendente, ingiustamente licenziata, ha spiegato che la questine di base, per stabilire se reintegrare o meno il lavoratoe attiene alla vera natura dell'operaizone infatti se nelle more del giudizio si sopravvenuta la cessazione totale dell'attività aziendale, ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno. Tuttavia, ha spiegato la Corte "la fusione della società mediante incorporazione, di cui agli artt. 2051 e 2052 bis e ss. c.c. non determina sempre l'estinzione della società incorporata, nè crea un nuovo sogetto di diritto nell'ipotesi di fusione paritaria". In particolare, va rilevato che nella ipotesi di incorporazione di società ricore la fattispecie del trasferimento d'azienda ex art. 212 c. c. tutte le volte in cui l'intera impresa, o un ramo di essa, viene trasferita ad altro soggetto (cessionario) in presenza delle condizioni ampiamente esaminate dalla più recente giurisprudenza di legittimità".

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8930.asp

Il sindacato è parte civile anche nei procedimenti riguardanti lavoratori non iscritti

(Cassazione penale, sez. IV, sentenza 11.6.2010 n. 22558)

In data 11.2.2000 nel mentre l’operaio S.R. Dipendente della D. srl con funzioni di gruista, stata procedendo a mezzo di una autogru di proprietà della stessa D. ma noleggiato, con c.d. Nolo a caldo alla T.C. Snc, al posizionamento di una trave metallica, si verificava un incidente che aveva come conseguenza il decesso del predetto operaio; l’incidente avveniva all’interno del cantiere della predetta T.C. Snc, area di cantiere diversa da quella della D., essendo stato lo S. colà inviato insieme alla gru a seguito del predetto nolo a caldo; in particolare, come acclarato nelle sentenze di merito, la gru Gottwald AMK 106-51, alla cui conduzione e manovra vi era lo S., stava sollevando una pesante trave metallica agganciata al braccio telescopico utilizzando il solo argano principale allorchè il braccio della gru si allungava e la fune del (Ndr: testo originale non comprensibile) risalendo all’indietro, trascinava con sé il bozzello ed il relativo gancio dell’argano ausiliario del peso di circa 140 Kg; le funi, il bozzello ed il gancio superavano la testa del braccio e precipitando verso la cabina dei gruista, ne provocavano lo sfondamento colpendo alla testa il lavoratore che decedeva sul colpo. Del fatto venivano chiamati a rispondere, per quanto qui rileva, F.E. Responsabile di produzione della divisione industriale D. e da essa delegato per sovraintendere alla sicurezza dei propri cantieri, con facoltà di sub delega, e B.G. Capocantiere, sub delegato dal F. a sovraintendere alle attività svolte nel cantiere di ****; si contestava loro la colpa generica e specifica di aver consentito l’utilizzo della gru in cattivo stato di manutenzione, non rispondente alle misure di sicurezza e non assoggettata alle verifiche annuali; di averne consentito l’uso non in conformità delle istruzioni del fabbricante in particolare consentendo che la gru lavorasse con due ganci (quello principale e quello ausiliario) installati contemporaneamente, con le staffe antiscarrucolamento recise e rimosse con la fiamma ossidrica.

http://www.laprevidenza.it/news/lavoro/il-sindacato-e-parte-civile-anche-nei-procedimenti-riguardanti-lavoratori/4891

Obbligo di repechage, l'onere della prova è large

La suprema Corte si pronuncia sull'onere della prova del datore di lavoro in relazione all'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, dipendente da una multinazionale italiana.

Il dipendente di una multinazionale italiana, in servizio presso una filiale estera, viene licenziato e conviene in Italia la società italiana per essere reintegrato. La convenuta eccepisce - tra l'altro - il proprio difetto di legittimazione per aver lavorato il ricorrente per una articolazione autonoma estera, e nel merito deduce l'infondatezza della pretesa per essere il recesso assistito da giustificato motivo (valutato in relazione alle esigenze della società estera).

La Corte afferma preliminarmente la legittimazione della società italiana convenuta, ritenendo che la filiale estera, ancorché articolazione autonoma, abbia comunque agito, in relazione al rapporto di lavoro del ricorrente, per conto della società italiana.

Nel merito, la S.C. afferma che il datore di lavoro deve giustificare il recesso dimostrando l'impossibilità di assegnazione del lavoratore in altre sedi di lavoro, e che tale onere probatorio sussiste ancor più ove il lavoratore abbia allegato l'esistenza di posti disponibili, ancorché all'estero presso rappresentanze del datore di lavoro.

Sul tema, in giurisprudenza, Cass, Sez. L, Sentenza n. 9768 del 01/10/1998 ha affermato che la scelta del datore di lavoro di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato dalla sopravvenuta impossibilità della prestazione del lavoratore distaccato presso un terzo in ragione del rifiuto di quest'ultimo di ricevere la prestazione comporta l'obbligo (ed il connesso onere probatorio) del datore di lavoro del "repechage", con il quale si esprime l'obbligazione posta a carico di quest'ultimo di adibire il lavoratore licenziato in altre mansioni reperibili in azienda di analogo livello professionale; mentre nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, consistente in un comportamento inadempiente del lavoratore, il datore di lavoro ha l'obbligo della sperimentazione, a pena di nullità, della procedura ex art. 7 della legge n.300 del 1970.

Sul controllo del giudice di legittimità in ordine alle valutazioni del giudice di merito, Cass. Sez. L, Sentenza n. 1595 del 12/02/2000 ha precisato che il controllo in sede di legittimità della adeguatezza della motivazione del giudice di merito non può servire a mettere in discussione il convincimento in fatto espresso da quest'ultimo, che come tale è incensurabile, ma costituisce lo strumento attraverso il quale si può valutare solamente la legittimità della base di quel convincimento e neppure consente di valutare l'eventuale ingiustizia in fatto della sentenza; pertanto, il vizio riscontrato deve riguardare un punto decisivo, tale, cioè, da rendere possibile una diversa soluzione ove il relativo errore non fosse stato commesso (nella specie la sentenza di merito confermata dalla S.C. aveva escluso la sussistenza di un accordo di "repechage" fra lavoratore e datore di lavoro idoneo ad impedire il licenziamento del primo per giustificato motivo oggettivo).

Sul riparto degli oneri probatori tra le parti del rappporto in ordine alla sussistenza del g.m.o. ed all'impossibilità di repechage, Cass. Sez. L, Sentenza n. 6556 del 02/04/2004 ha affermato che, ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo del licenziamento, l'onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza pur gravando interamente sul datore di lavoro e non potendo essere posto a carico del lavoratore, implica comunque per quest'ultimo un onere di deduzione e allegazione, della possibilità di essere adibito ad altre mansioni, sicché ove il lavoratore ometta di prospettare nel ricorso tale possibilità, non insorge per il datore di lavoro l'onere di offrire la prova sopraindicata. Secondo Cass. Sez. L, Sentenza n. 12367 del 22/08/2003, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo, e deve inoltre dimostrare di non avere effettuato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato.

Per Cass. Sez. L, Sentenza n. 7717 del 16/05/2003, ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo del licenziamento, l'onere, incombente sul datore di lavoro, di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, concernendo un fatto negativo, va assolto mediante la dimostrazione di fatti positivi corrispondenti, quali la circostanza che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti, fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori, ovvero che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica dei lavoratori licenziati. Siffatta dimostrazione deve concernere tutte le sedi dell'attività aziendale, essendo sufficiente la limitazione alla sede cui era addetto il lavoratore licenziato solo nell'ipotesi di preliminare rifiuto del medesimo a trasferirsi altrove, non potendo tuttavia farsi riferimento al rifiuto del trasferimento presso una sede di un'altra società, sia pure facente parte dello stesso "gruppo", in quanto quest'ultimo è rilevante sotto il profilo economico e non anche sotto quello giuridico, salvo che si accerti l'esistenza di un unico rapporto di lavoro con le diverse società, qualora le relazioni all'interno di detto "gruppo" siano tali da avere dato vita ad un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici, in ragione dell'esistenza di un'unica struttura organizzativa e produttiva, dell'integrazione tra le attività esercitate dalle diverse imprese, del coordinamento tecnico, amministrativo e finanziario e dello svolgimento della prestazione di lavoro in modo indifferenziato in favore delle differenti imprese del "gruppo".
(Sentenza Cassazione civile 15/07/2010, n. 16579)

http://www.ipsoa.it/PrimoPiano/Lavoro/obbligo_di_repechage_l_onere_della_prova_egrave_large_id1001389_art.aspx

Cassazione Lavoro: tra diritto alla difesa e diritto alla privacy prevale il primo

"Nelle controversie in cui configura una contrapposizione tra due diritti, aventi ciascuno di essi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il c.d. criterio di , dovendo il giudice procedere di volta in volta ed in considerazione dello specifico "thema decidendum" alla individuazione dell'interesse da privilegiare a seguito di un'equilibrata comparazione tra diritto, in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Ne consegue che il richiamo ad opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto (suo o di un terzo) alla "privacy" - cui il legislatore assicura in ogni sede adeguati strumenti di garanzia - non può legittimare una violazione del diritto di difesa che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (articolo 24, comma 2, Cost.), non può incontrare nel suo esercizio ostacoli ed impedimenti nell'accertamento della verità materiale a fronte di gravi addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla controparte in termini di un irreparabile "vulnus" alla sua onorabilità e, talvolta anche alla perdita di altri diritti fondamentali, come quello del posto di lavoro".

La Cassazione ha elaborato questo principio di diritto nella sentenza con la quale ha confermato la pronuncia di secondo grado (e quella di primo grado) che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente per pretese molestie sessuali verso una collega, in quanto "la lettera di contestazione era assolutamente vaga e priva di importanti e necessari elementi specificativi ed identificativi, con riguardo alle modalità della condotta tenuta dal ricorrente nei confronti dell'ignota collega, della quale non si evidenziava alcuna reazione. Né veniva indicato il tempo trascorso nella stanza chiusa, dove si sarebbe verificato l'episodio, né si precisava se il dipendente avesse desistito dalle profferte nei confronti della collega, se fossero presenti altri colleghi e se fossero intervenuti terzi".

Prosegue la Cassazione: "La stessa corte territoriale ha osservato che le giustificazioni dell'appellante circa la presunta tutela della "riservatezza" della dipendente coinvolta non avrebbero potuto prevalere sul diritto di difesa del ricorrente di conoscere il nominativo della persona offesa dal comportamento attribuito al dipendente".

http://www.filodiritto.com/index.php?azione=archivionews&idnotizia=2641

Cassazione: va retribuito anche il tempo necessario per recarsi al lavoro

Anche il tempo necessario per recarsi al lavoro deve essere considerato come lavorativo e va quindi retribuito. Lo ha stabilito la sezione lavoro della Corte di Cassazione (Sentenza n. 17511/2010) chiarendo che nel caso in cui lo spostamento sia "funzionale rispetto alla prestazione" è necessario tenerne conto al fine di quantificare lo stipendio. Ciò si verifica, secondo la Corte, quando il dipendente (obbligato a presentarsi presso la sede dell'azienda) viene di volta in volta destinato in diverse località per svolgere la sua attività lavorativa. In base a questa sentenza, trattandosi di un prolungamento dell'orario normale di lavoro, il dipendente dovrà essere compensato con un aumento della retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario e di ciò si dovrà tenere conto anche in relazione al limiti di durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro imposti dall'art. 2107 del codice civile.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8862.asp

Pagata meno degli uomini, fa causa e i giudici le danno ragione

In Francia la Corte di cassazione accoglie il ricorso di una dipendente che aveva fatto causa per "discriminazione salariale"

In Francia una decisione della Corte di Cassazione ha dato ragione a una dipendente che aveva denunciato il proprio datore di lavoro per discriminazione salariale legata al genere con una comparazione dei suoi compensi con quelli dei suoi colleghi uomini, anche se questi non esercitavano le stesse mansioni.
Tra la donna e i suoi colleghi maschi, scrive la sentenza della Corte d'appello di Parigi approvata dalla Cassazione, c'è "lo stesso livello gerarchico, di classificazione, di responsabilità e di importanza riguardo il funzionamento dell'azienda". Inoltre ci sono "capacità comparabili e un carico di stress dello stesso tipo". La signora in questione è una responsabile delle risorse umane di un'azienda francese, che ha preso come termini di paragone per corroborare la sua causa gli stipendi dei colleghi uomini, alla direzione della politica commerciale e finanziaria, membri come lei del comitato di direzione.
La donna, si legge nella decisione del giudice ripresa dal quotidiano economico Les Echos, ha "un'anzianità maggiore e un livello di studi simile" a quello dei colleghi, ma era meno pagata, senza che il datore di lavoro avesse apportato "prova di elementi altri alla discriminazione che giustificassero questa disparità di trattamento".
Secondo uno studio dell'Ocse pubblicato ieri, le donne in Francia continuano ad essere pagate meno degli uomini e a ottenere promozioni con maggiore difficoltà per colpa in particolare dei timori legati alla maternità. In media il gentil sesso ha un stipendio inferiore del 19 per cento (differenza che sale al 27 per cento tra i 39 e i 49 anni); inoltre lo scarto tra i salari tra i due sessi a parità di competenze è del 10 per cento e tra i dirigenti sale al 30,8 per cento.

http://www.ilgiornale.it/esteri/pagata_meno_uomini_fa_causa_e_giudici_danno_ragione/cronaca-attualit-cassazione_discriminazione_salariale/13-08-2010/articolo-id=466973-page=0-comments=1

Telecamere con l'ok dei sindacati

Torna agli onori della cronaca l'articolo 4 dello statuto dei lavoratori sull'uso degli impianti audiovisivi all'interno dei luoghi di lavoro. Il garante per la protezione dei dati personali, con provvedimento del 10 giugno scorso, in virtù all'asserita violazione della disposizione ha infatti disposto il blocco di un apparato di videosorveglianza sui lavoratori.
L'articolo 4 dello statuto, in effetti, ammette gli impianti e le apparecchiature dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza sull'attività dei lavoratori, solo se richiesti da esigenze organizzative e produttive o dalla sicurezza del lavoro. Oltre alla presenza di queste esigenze è però necessario, perché possa essere realizzato questo tipo di controlli, che l'installazione della strumentazione per effettuarli sia preceduta da un accordo con il sindacato o, in mancanza di intesa, da un'autorizzazione della direzione provinciale del lavoro.
La questione dell'eventuale assoggettamento a questa norma si pone per qualsiasi tipo di controllo elettronico: dalla videosorveglianza ai software per la valutazione della produttività installati sui computer utilizzati dai dipendenti, a quelli che ne controllano la navigazione in internet e l'impiego della posta elettronica, al controllo biometrico (ossia mediante le impronte), a quello delle telefonate.
Ulteriore controllo è quello della localizzazione degli spostamenti del dipendente attraverso un software inserito nel suo computer portatile o mediante il (più tradizionale) monitoraggio del badge aziendale. Nonostante riguardi i controlli elettronici sui lavoratori, e cioè un campo intrinsecamente esposto a un alto tasso di innovazione tecnologica, questa disposizione continua a essere il punto di riferimento esclusivo, nella sua materia. Esclusivo, ma di interpretazione giurisprudenziale multiforme.
Di conseguenza, per le aziende, quella sui controlli elettronici è come una partita da tripla in schedina. Nelle controversie sul tema, per i datori di lavoro il pronostico è tendenzialmente favorevole in Cassazione, incerto dinanzi al giudice del merito, assolutamente negativo davanti al garante per la protezione dei dati personali. L'ulteriore problema delle aziende è che, quando si gioca davanti all'authority, la partita rischia di finire ai supplementari, di fronte al giudice penale. Il giudizio dinanzi al garante ha infatti la sua naturale conclusione in un successivo procedimento dal giudice penale, al quale il garante rimette gli atti per le valutazioni di sua competenza.

Passando dalla insoluta questione penale a quella giuslavoristica, il garante della privacy, con il citato provvedimento, su segnalazione di un ex dipendente del datore di lavoro chiamato in causa, ha disposto il blocco del trattamento dei dati effettuato mediante un apparato di videosorveglianza in un negozio, per inosservanza dei requisiti imposti dall'articolo 4 dello statuto. Nella stessa deliberazione, inoltre, il garante non ha invece preso provvedimenti nei confronti di un altro apparato di videosorveglianza installato dallo stesso datore di lavoro in un altro negozio, ma non in funzione, ritenendo che «in mancanza di un effettivo (e, allo stato, non comprovato) trattamento di dati personali, non sussistono i presupposti per l'emanazione di un provvedimento da parte di questa autorità».

http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-08-02/telecamere-sindacati-080644.shtml?uuid=AY05LNDC

CONTROLLI A DISTANZA DEI DIPENDENTI AL CONFINE TRA LECITO E ILLECITO

Lo Statuto dei Lavoratori vieta al datore di lavoro l’installazione e l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per controllare a distanza l’attività dei propri dipendenti. Ad esempio, non possono essere effettuate riprese per tenere sotto controllo il rispetto dell’orario di lavoro o l’osservanza dei doveri di diligenza e correttezza nell’esecuzione della prestazione lavorativa. Soltanto per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza – continua lo Statuto dei Lavoratori – il datore può installare e servirsi degli impianti e delle apparecchiature di controllo purché ci sia, in ogni caso, l’accordo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza di accordo, l’autorizzazione della Direzione Provinciale del Lavoro. Ad esempio, reali esigenze di sicurezza legittimano i controlli a distanza per la tutela del patrimonio aziendale (si parla, in questo caso, di controlli cosiddetti ‘difensivi’). La violazione del divieto dei controlli a distanza è sanzionata penalmente e costituisce violazione della privacy. I Giudici del Lavoro sono concordi nel ritenere che la prova acquisita in violazione delle disposizioni dello Statuto dei Lavoratori non può essere utilizzata in processo contro il lavoratore. Nel mondo informatizzato in cui tutti ormai viviamo sono sempre di più gli strumenti a disposizione del datore di lavoro potenzialmente idonei a controllare i dipendenti. Si pensi, ad esempio, ai programmi spyware che consentono il controllo della navigazione internet (a tal proposito, di recente la Cassazione Civile ha dichiarato illegittimo il licenziamento di una dipendente colta, attraverso un programma informatico, a navigare su internet per scopi personali durante l’orario di lavoro). Per evitare conseguenze che possono essere veramente pesanti, man mano che il mondo va sempre più informatizzandosi occorre porre sempre maggiore attenzione all’utilizzo di tali strumenti. A volte, infatti, è davvero sottile il confine tra ciò che è lecito e ciò che invece non lo è. Un esempio di quanto ho appena affermato è dato da una recente sentenza della Corte di Cassazione Penale (la n. 20722 del 1.06.2010), secondo la quale il divieto posto dallo Statuto dei Lavoratori è finalizzato alla tutela della riservatezza e della libertà dei lavoratori nello svolgimento e nell’adempimento della propria attività lavorativa, ma non implica il divieto di controlli ‘difensivi’ del patrimonio aziendale da azioni delittuose da chiunque provenienti, anche da lavoratori dipendenti, e nonostante i controlli vengano effettuati in violazione dello Statuto dei Lavoratori. La sentenza citata tratta il caso di una cassiera di un bar ripresa a rubare soldi da una telecamera installata all’interno del bar senza accordo con le rappresentanze sindacali né autorizzazione della Direzione Provinciale del Lavoro e, quindi, in violazione dello Statuto dei Lavoratori. Ciononostante, la Corte di Cassazione Penale ha ritenuto assolutamente utilizzabili le prove di reato acquisite mediante dette riprese filmate. Secondo la Corte Suprema Penale, infatti, la difesa del patrimonio aziendale non può essere sacrificata dalle norme dello Statuto dei Lavoratori. A prima lettura, la citata sentenza sembra davvero rivoluzionaria e, per certi aspetti, allarmante. Ma non è così. Non è così se si dà la dovuta importanza al fatto che si tratta di una sentenza della Cassazione Penale (e non Civile) che ammette l’utilizzabilità della prova (la prova del reato) nel giudizio penale (e non nel giudizio Civile-giuslavoristico). La conclusione cui è giunta la Cassazione Penale mi pare pacificamente condivisibile: del resto di fronte ad un illecito che costituisce reato sarebbe per lo meno bizzarro da parte del colpevole invocare il proprio diritto alla privacy! Diritto alla privacy che va invece difeso e tutelato in tutte quelle situazioni non penalmente rilevanti. A mio parere, quindi, la stessa prova (cassiera di un bar ripresa a rubare soldi da una telecamera installata all’interno del bar in violazione delle disposizioni dello Statuto dei Lavoratori) non potrebbe essere mai utilizzata in un giudizio civile davanti al Giudice del Lavoro a sostegno della legittimità del licenziamento della stessa lavoratrice imputata e condannata nel procedimento penale. Ed ecco così evitato il rischio di complicare un quadro normativo e giurisprudenziale già di per sé complesso.

http://www.laprevidenza.it/news/documenti/lavoro_ctrl_distanza_mmr/4777

Cassazione: differenze tra lavoro pubblico e privato nel collocamento a riposo

La Cassazione, con sentenza n. 14628/2010 ha stabilito che i tema di collocamento a riposo d'ufficio, al compimento delle età massime previste dagli ordinamenti delle amministrazioni pubbliche, è inapplicabile la regola generale del lavoro subordinato privato, secondo la quale la tipicità e tassatività delle cause d'estinzione del rapporto escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età, ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, ancorché contemplate dalla contrattazione collettiva. Diversamente, l'art. 97 Cost. stabilisce che sia prevista per il lavoro pubblico, sulla base di disposizioni di legge non derogabili dalla contrattazione collettiva, l'estinzione del rapporto al compimento di un'età massima, salvi i casi di protrazione per periodi definiti a domanda del dipendente e, eventualmente, con il consenso dell'amministrazione

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8619.asp

Il consulente del lavoro è legittimato a pretendere il compenso per attività di natura fiscale e tributaria o per attività che non svolgono altri professionisti in via esclusiva

(Cassazione civile, sez. II, Sentenza 11.6.2010 n. 14085)
N.A., titolare della ditta xx, con atto notificato il 24 febbraio 2000 proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale gli era stato intimato dal Tribunale di Chiavari il pagamento in favore di B.R., consulente del lavoro, della somma di L. 6.793.200, eccependo in primo luogo che la ingiungente rivendicava nei suoi confronti compensi per prestazioni professionali riguardanti elaborazioni della contabilità, consulenza fiscale
dichiarazioni dei redditi, richiesta di certificati presso la C.C.I.A.A., ossia per attività che esulavano dalle competenze di un consulente del lavoro, in cui invece rientrava la cura di “tutti gli adempimenti previsti da norme vigenti per l’amministrazione del personale dipendente”, nonché lo svolgimento di ogni altra funzione ad essa “affine, connessa e conseguente” (ciò ai sensi della Legge Professionale 11 gennaio 1979, n. 12, art. 2). Poiché esso opponente non aveva dipendenti, le prestazioni per le quali la B. rivendicava il compenso, oltre a non essere ricomprese tra quelle elencate nell’art. 2 della citata legge, non potevano neppure considerarsi collaterali all’amministrazione del personale. Sempre secondo l’opponente, le attività per le quali la B. pretendeva di essere compensata rientravano tra quelle che il D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, art. 1, riconosceva di competenza dei commercialisti regolarmente iscritti nel relativo albo professionale, con la conseguenza che la predetta, ai sensi dell’art. 2231 c.c., comma 1, non aveva azione nei suoi confronti per il relativo compenso. In subordine eccepiva l’eccessiva onerosità degli importi richiesti da controparte atteso che all’inizio dell’incarico aveva con la B. pattuito un compenso forfetario annuale di L. 1.200.000.

Chiedeva pertanto la revoca o l’annullamento dell’opposto decreto ed inoltre, in via riconvenzionale, che la B. venisse condannata:

a) a corrispondergli, salvo compensazione con l’eventuale credito riconosciuto alla predetta, la somma di L. 1.800.000, IVA compresa, per taluni lavori di idraulica da esso effettuati a favore della medesima, come risultanti da fattura del 22 dicembre 1997;

b) a risarcirgli i danni cagionatigli dalla mancata conclusione con la Roca Italia Spa di un contratto di assistenza tecnica per la manutenzione ed installazione di caldaie prodotte da tale società, con esclusiva nel T., mancata conclusione dovuta al fatto che la B., nell’eseguire l’incarico di iscrivere presso la C.C.I.A.A. l’impresa xx, aveva omesso di indicare nell’oggetto della stessa, nonostante esplicita richiesta, l’attività di installazione, trasformazione e manutenzione di caldaie ed impianti di riscaldamento.

La B., costituitasi in giudizio, contestava la fondatezza delle eccezioni e delle domande riconvenzionali fatte valere dall’opponente, chiedendone la reiezione;chiedeva altresì che la controparte venisse condannata a risarcirle i danni cagionatile ex art. 96 c.p.c.. Il Tribunale adito, con sentenza del 28 novembre 2000, respingeva l’opposizione ritenendo che i consulenti del lavoro potevano “esercitare attività tributaria” e, quanto all’ammontare del compenso, che conforme a legge era quello richiesto dalla creditrice perchè confermato dal Presidente dell’Ordine dei consulenti del lavoro mentre il patto forfetario relativo a tale compenso invocato dall’opponente non risultava concluso, ma solo proposto dal predetto;dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale non risultando essa dipendere né dal titolo dedotto in giudizio né da quello che apparteneva alla causa come mezzo di eccezione;respingeva la domanda riconvenzionale per i danni perchè l’iscrizione della xx presso la C.C.I.A.A. Era stata posta in essere sulla base delle indicazioni di un modulo sottoscritto dal titolare della ditta opponente;condannava il N. a corrispondere alla B. la somma di L. 500.000 a titolo di danni ex art. 96 c.p.c., oltre alle spese del giudizio. Proposto gravame dal N. e costituitasi in giudizio la B. che resisteva all’impugnazione chiedendo la conferma della gravata decisione con vittoria delle maggiori spese del grado e condanna di controparte per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., la Corte d’appello di Genova, con sentenza del 20 ottobre 2004, in parziale riforma della pronunzia di prime cure accoglieva l’opposizione proposta dal N. avverso il decreto ingiuntivo, revocandolo e respingeva la relativa domanda proposta dalla B.; escludeva la responsabilità del N. ex art. 96 c.p.c., e compensava tra le parti le spese del doppio grado...

fonte laprevidenza.it