È nullo l'accordo con il quale l'avvocato ed il cliente pattuiscono l'onorario spettante al professionista in deroga ai minimi tariffari. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza citata in epigrafe, depositata lo scorso 28 settembre e qui leggibile nei documenti correlati.
Nell'anno 1994 uno studio legale associato stipula una convenzione con due Società per azioni per l'espletamento di attività stragiudiziale e giudiziale concernente il recupero dei crediti contenziosi vantati dalle società nei confronti di propri clienti inadempienti. Interrottosi il rapporto tra le società ed il legale, quest'ultimo ricorre al giudice del lavoro di Napoli lamentando di aver ricevuto, in base alla convenzione, compensi inferiori ai minimi tariffari, inderogabili.
Al Tribunale di Napoli lo studio legale chiede che si dichiari la nullità ex articolo 24 della legge 13.6.1942, n. 794, modificata dalla legge 19.12.1949 n. 957, recepito dall'articolo 4 delle vigenti tariffe forensi, delle convenzioni intercorse tra le parti per la determinazione dei compensi forfettari relativi agli incarichi professionali espletati, chiedendo la condanna delle società al pagamento delle somme dovute. Il giudice napoletano accoglie in parte le richieste dello studio legale. Avverso la sentenza propongono appello lo studio legale e appello incidentale le società. I giudici di secondo grado accolgono in parte l'appello principale e rigettano quello incidentale. Tra le altre cose, la corte napoletana aveva osservato che l'accordo-convenzione, intervenuto tra le parti, doveva ritenersi nullo perché in violazione del divieto sancito dall'art. 24 l. n. 794 del 1942, essendo l'ammontare dei compensi, consensualmente predeterminato, inferiore ai minimi tariffari, e che non era applicabile la riduzione al di sotto dei minimi, consentita dall'art. 4 della stessa legge "quando la causa risulti di facile trattazione", solo nei confronti della parte soccombente e non anche nei confronti del cliente, mancando il parere del Consiglio dell'Ordine in tal senso.
Nel ricorso per cassazione le due società sostengono, tra le altre cose, che erroneamente il giudice di appello avrebbe ritenuto la sopravvivenza dell'art. 24 della l. n. 794/1942, poiché l'abrogazione ad opera della disciplina dettata dell'articolo unico della legge n. 1051/57, ex art. 15 delle preleggi, avrebbe riguardato soltanto gli artt. da 1 a 23. Viceversa, detto articolo unico avrebbe delegificato il procedimento di approvazione delle tariffe, rendendo i regolamenti tariffari inidonei a derogare efficacemente all'art. 2233 c.c., fonte principale per la determinazione del compenso spettante ai liberi professionisti. Ma, anche a voler ritenere, sotto l'indicato profilo, ancora vigente l'art. 24 citato, il confronto dell'assetto normativo nazionale con il quadro europeo avrebbe dovuto condurre alla conclusione di incompatibilità del divieto con il Trattato, dato che la liceità di una tariffa non comporterebbe di per sé la liceità della ben diversa disposizione che fissi l'inderogabilità della sua misura minima.
Preliminarmente il collegio romano osserva che, con riferimento alla professione di avvocato, la Corte di Cassazione, con orientamento pressoché costante, ha ritenuto, ora esplicitamente, ora per implicito, che la legge n. 794 del 1942, se pur deve ritenersi abrogata nei suoi artt. da 1 a 23, ai sensi del citato articolo 15, - essendo stata la materia interamente regolamentata per effetto della legge 3 agosto 1957, n. 1051, che ha attribuito al Consiglio nazionale forense la competenza di stabilire, con le modalità ivi previste, i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti per le prestazioni giudiziali in materia civile - ha lasciato in vita l'art. 24. Tale articolo - è sottolineato nella sentenza romana - dopo la significativa dicitura, "Inderogabilità convenzionali degli onorari e dei diritti", statuisce che "Gli onorari e i diritti stabiliti per le prestazioni dei procuratori e gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati sono inderogabili".
Sulla base di tale disposizione - affermano gli ermellini - la giurisprudenza di legittimità ha sancito la nullità dell'accordo con il quale l'avvocato ed il cliente pattuiscono l'onorario spettante al professionista in deroga ai minimi della tariffa forense. In tal modo si è inteso superare la gerarchia di carattere preferenziale, fissata dall'art. 2233 c.c., tra i vari criteri previsti per la determinazione del compenso dovuto per le attività intellettuali, laddove si stabilisce che "il compenso, che non è convenuto tra le parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice". La vigenza nel nostro ordinamento di una normativa che vieti di derogare convenzionalmente agli onorari minimi determinati da una tariffa forense trova, del resto, riscontro nelle pronunce della Corte di giustizia, che, in tema di tariffe professionali degli avvocati, ha affermato, che la normativa del trattato CEE non osta all'adozione, da parte di uno Stato membro, di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale sia dettata nell'ambito di un procedimento come quello previsto dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, come modificato. La conformità al principio comunitario della libera concorrenza di quelle norme del diritto interno, in virtù delle quali è imposta l'inderogabilità dei minimi di tariffa forense, costituisce orientamento confermato nell'anno 2006 da una sentenza della Corte di giustizia, con la quale si è stabilito che una limitazione al principio di libera prestazione dei servizi professionali può essere consentita allorché "ragioni imperative di interesse pubblico" la giustifichino; ragioni che con riferimento all'inderogabilità dei minimi della tariffa degli avvocati vengono individuate nell'esigenza di garantire la qualità della prestazione professionale a tutela degli utenti consumatori e la buona amministrazione della giustizia. Sussistendo questi obiettivi, l'obbligatorietà dei minimi può essere giustificata, dunque, allorché sussista il rischio che, per le caratteristiche del mercato, la concorrenza al ribasso sull'offerta economica tra gli operatori possa pregiudicare la qualità della prestazione. A proposito dei servizi legali, la Corte individua come fattore di rischio il "numero estremamente elevato" di professionisti iscritti ed in attività e riconosce al giudice nazionale il compito di determinare se la restrizione della libera prestazione creata dal divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari per i servizi legali, previsto dalla legislazione italiana, risponde a ragioni imperative di interesse pubblico ed e strettamente idoneo a garantire da un lato che vi sia corrispondenza tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni fornite dagli avvocati, dall'altro che la determinazione di tali onorari minimi costituisca un provvedimento adeguato alla tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia.
Pur non essendo una garanzia della qualità dei servizi - osserva il Supremo Collegio -, non si può di certo escludere - ed anzi deve affermarsi - che nel contesto italiano, caratterizzato da un'elevata presenza di avvocati, le tariffe che fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduce nell'offerta di prestazioni "al ribasso", tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio.
Nella sentenza romana, tuttavia, si evidenzia che l'art. 2, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006, convertito in legge n. 248 del 2006, ha abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime per le attività professionali e intellettuali "dalla data di entrata in vigore" della legge stessa; ne consegue che quelle disposizioni conservano piena efficacia in relazione a fatti - come quelli in oggetto - verificatisi prima. Tra i motivi del ricorso per cassazione è stato anche evidenziato che il Giudice d'appello ha ritenuto l'invalidità della rinuncia ai minimi tariffari operata dalla parte ricorrente, a fronte di una continuità di incarichi da parte delle società. Sul punto gli ermellini osservano che il principio dell'inderogabilità dei minimi tariffari sugli onorari di avvocato e procuratore non trova applicazione nel caso di rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, quando quest'ultima non risulti posta in essere strumentalmente per violare la norma imperativa sui minimi di tariffa. La prestazione d'opera del difensore può, infatti, pure essere gratuita - in tutto o in parte - per ragioni varie, oltre che di amicizia e parentela, anche di semplice convenienza. Sotto questo riflesso la retribuzione costituisce un diritto patrimoniale disponibile e la convenienza relativa può concretarsi, sul piano sostanziale, anche in un accordo transattivo, in quanto tale, pienamente lecito, rientrando esso nella libera autonomia dispositiva delle parti contraenti, alle quali è soltanto inibito di infrangere il divieto legale sancito dal citato art. 24, e cioè quello di predeterminare consensualmente l'ammontare dei compensi professionali in misura inferiore ai minimi tariffari.
Orbene - è detto infine nelle motivazioni della sentenza romana - la Corte partenopea ha osservato che per potersi ritenere intervenuta una rinuncia occorreva, pur sempre, che vi fosse piena consapevolezza da parte del rinunciante dello specifico oggetto della rinuncia medesima, "condizione questa che, nel caso di specie, non può certamente essere ravvisabile nelle lettere dell'avv.to con le quali lo stesso si limitava a dare atto della definizione della pratica in base al forfait illegittimamente concordato". Per la corte partenopea, quindi, nel caso specifico la rinuncia al principio di inderogabilità delle tariffe non aveva fondamento mancando la necessaria consapevolezza del rinunciante.
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Avvocati: nei procedimenti disciplinari davanti a consigli territoriali dell'ordine non valgono le regole del "giusto processo"
Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 17 settembre 2010, n. 19702
IN FATTO
Il Consiglio nazionale forense, con decisione adottata il 26 febbraio 2009, ha confermato la sanzione disciplinare della sospensione di un anno dall'esercizio della professione irrogata all'avvocato Luciano F. dal C.O.A. di Venezia, ritenendolo responsabile della violazione del r.d.l. n. 1578 del 1933, art. 38 e degli artt. 7 e 9 (20 e 37) del codice deontologico forense - per aver comunicato a terzi, quale difensore di fiducia di Ettore F. dinanzi al tribunale penale di Trento, i precedenti penali riguardanti il proprio cliente, così ponendo in essere atti contrari all'interesse del proprio assistito - e della violazione dell'obbligo di segretezza in ordine ai procedimenti penali medesimi, dei quali era venuto a conoscenza in ragione del mandato ricevuto.
Per la cassazione di tale decisione ricorre dinanzi a queste sezioni unite Luciano F. sulla base di 9 motivi di censura (erroneamente enumerati come 8 in ricorso).
Resiste con controricorso il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Venezia.
Le parti hanno entrambe depositato memorie illustrative.
IN DIRITTO
Va in limine rilevata e dichiarata la inammissibilità della produzione documentale depositata dalla difesa del F., non attinente a profili di nullità della sentenza impugnata, ovvero di ammissibilità del ricorso e/o del controricorso.
Il ricorso è infondato.
Vanno in ordine logico esaminati preliminarmente i motivi VIII (erroneamente indicato come settimo) e IX (erroneamente presentato come ottavo), afferenti, rispettivamente, ad una pretesa incompetenza del Consiglio dell'ordine di Venezia ad emettere la decisione poi confermata dal Consiglio nazionale, e ad una supposta contrarietà a Costituzione del procedimento disciplinare forense (nella specie, per violazione dell'art. 111).
Entrambe le doglianze risultano palesemente infondate.
Quanto alla pretesa incompetenza del C.d.O. lagunare - conseguenza, a detta del ricorrente, dell'applicazione del c.d. "principio di prevenzione" di cui al r.d.l. n. 1578 del 1933, art. 38, in forza del quale la competenza a decidere sull'esposto di Ettore F. (atto dal quale trasse linfa l'odierno procedimento disciplinare) sarebbe stata del C.d.O. di Roma, custode dell'albo cui il F. risultava iscritto, onde quel consesso, avendo già aperto il procedimento disciplinare, non avrebbe potuto rimettere gli atti al consiglio veneziano, competente per territorio -, osserva il collegio (pur nel prescindere dai patenti profili di inammissibilità della doglianza, attesane la evidente intempestività) che emerge ex actis (cui questa Corte ha diretto accesso, essendo denunziato un vizio in procedendo) l'esistenza non già di un procedimento disciplinare pendente dinanzi al consiglio romano, ma la mera trasmissione, da parte di quest'ultimo, dell'esposto F. all'organo disciplinare veneziano che, con Delib. 24 luglio 2006, ha aperto (per la prima volta, e del tutto legittimamente) il procedimento medesimo.
Quanto alla pretesa incostituzionalità del procedimento disciplinare forense per pretesa violazione dell'art. 111 Cost., è sufficiente osservare che i procedimenti (e i conseguenti giudizi) instaurati presso i consigli territoriali degli ordini hanno natura amministrativa (onde la evidente non conferenza del richiamo alla norma della Carta fondamentale, essendo il principio di terzietà irredimibilmente dettato con riferimento all'attività di giurisdizione e non di amministrazione), mentre l'organo fornito di potestà giurisdizionale, e cioè il Consiglio nazionale forense, non ha competenza alcuna a dare impulso al procedimento disciplinare (onde la palese infondatezza, per altro verso, dell'ulteriore richiamo al principio di terzietà operato dal ricorrente).
I rimanenti motivi, che rappresentano a questa Corte, sotto vari profili, doglianze di merito (travisamento dei fatti, errata valutazione dei medesimi, contraddittorietà della decisione sotto plurimi aspetti valutativi) sono nel loro complesso inammissibili e comunque infondati.
Sicuramente inammissibili risultano le censure di travisamento dei fatti di causa, eventualmente oggetto di altra, diversa impugnazione.
Complessivamente infondate appaiono, ancora, le doglianze di erroneità e contraddittorietà della decisione, tutte inevitabilmente destinate ad infrangersi sul corretto, articolato, condivisibile impianto motivazionale adottato dal giudice del merito.
E ciò è a dirsi:
- con riferimento alla pretesa "contraddizione temporale" della decisione impugnata (primo motivo di ricorso), poiché la qualità di difensore dell'odierno incolpato non era ancora cessata all'atto del suo accesso allo schedario informatico da cui ebbe ad attingere le notizie relative ai precedenti penali del suo cliente (non senza considerare che, pur se ipoteticamente sollevato da ogni incarico, le notizie apprese in veste di difensore non avrebbero mai potuto costituire oggetto di legittima divulgazione senza che ciò costituisse un vulnus ad elementari norme deontologiche);
- con riferimento alla richiesta di rivalutazione delle prove e dei fatti "nella loro oggettività" (secondo, terzo e quarto motivo), richiesta che, giusta cristallizzati principi di diritto ripetutamente predicati da questo giudice, non può in alcun modo e sotto alcun profilo trovare ingresso in sede di legittimità, essendo ius receptum presso questa Corte regolatrice il principio secondo cui l'art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica - delle valutazioni compiute dal giudice di cui si impugna la pronuncia (nella specie, il C.N.F.), al quale soltanto, va ripetuto, spetta l'individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito processo di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di merito non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a porsi dinanzi al giudice di legittimità;
- con riferimento alla richiesta di rivalutazione della gravità del fatto sotto il profilo dell'entità e rilevanza delle notizie illegittimamente propalate dal ricorrente (motivo quinto), valendo per essa le medesime considerazioni svolte poc'anzi, non ravvisandosi alcuna contraddittorietà ed alcun vizio logico giuridico nell'iter motivazionale seguito dal consiglio dell'ordine per giungere alla decisione oggi impugnata;
- con riferimento, ancora, alla pretesa, mancata valutazione dello scopo perseguito con la divulgazione delle notizie riguardanti il F. (motivo sesto), attesane la assoluta ultroneità ed irrilevanza ai fini della censurabilità e sanzionabilità del comportamento illecito del tutto correttamente ascritto al F.;
- con riferimento, infine, alla pretesa violazione degli artt. 129 e 533 c.p.p. (motivo settimo, erroneamente indicato come sesto), motivo di cui risulta patente la inammissibilità, attesa, da un canto, la assoluta disomogeneità sistemica tra i due ordinamenti, civile e penale, dall'altro, la totale impredicabilità di qualsivoglia margine di "dubbio" in ordine al comportamento ascritto all'incolpato odierno ricorrente.
Il ricorso è pertanto rigettato.
La disciplina delle spese (che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate) segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione.
Read more: http://www.eius.it/giurisprudenza/2010/035.asp#ixzz11ekNkMyY
Sezioni unite civili
Sentenza 17 settembre 2010, n. 19702
IN FATTO
Il Consiglio nazionale forense, con decisione adottata il 26 febbraio 2009, ha confermato la sanzione disciplinare della sospensione di un anno dall'esercizio della professione irrogata all'avvocato Luciano F. dal C.O.A. di Venezia, ritenendolo responsabile della violazione del r.d.l. n. 1578 del 1933, art. 38 e degli artt. 7 e 9 (20 e 37) del codice deontologico forense - per aver comunicato a terzi, quale difensore di fiducia di Ettore F. dinanzi al tribunale penale di Trento, i precedenti penali riguardanti il proprio cliente, così ponendo in essere atti contrari all'interesse del proprio assistito - e della violazione dell'obbligo di segretezza in ordine ai procedimenti penali medesimi, dei quali era venuto a conoscenza in ragione del mandato ricevuto.
Per la cassazione di tale decisione ricorre dinanzi a queste sezioni unite Luciano F. sulla base di 9 motivi di censura (erroneamente enumerati come 8 in ricorso).
Resiste con controricorso il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Venezia.
Le parti hanno entrambe depositato memorie illustrative.
IN DIRITTO
Va in limine rilevata e dichiarata la inammissibilità della produzione documentale depositata dalla difesa del F., non attinente a profili di nullità della sentenza impugnata, ovvero di ammissibilità del ricorso e/o del controricorso.
Il ricorso è infondato.
Vanno in ordine logico esaminati preliminarmente i motivi VIII (erroneamente indicato come settimo) e IX (erroneamente presentato come ottavo), afferenti, rispettivamente, ad una pretesa incompetenza del Consiglio dell'ordine di Venezia ad emettere la decisione poi confermata dal Consiglio nazionale, e ad una supposta contrarietà a Costituzione del procedimento disciplinare forense (nella specie, per violazione dell'art. 111).
Entrambe le doglianze risultano palesemente infondate.
Quanto alla pretesa incompetenza del C.d.O. lagunare - conseguenza, a detta del ricorrente, dell'applicazione del c.d. "principio di prevenzione" di cui al r.d.l. n. 1578 del 1933, art. 38, in forza del quale la competenza a decidere sull'esposto di Ettore F. (atto dal quale trasse linfa l'odierno procedimento disciplinare) sarebbe stata del C.d.O. di Roma, custode dell'albo cui il F. risultava iscritto, onde quel consesso, avendo già aperto il procedimento disciplinare, non avrebbe potuto rimettere gli atti al consiglio veneziano, competente per territorio -, osserva il collegio (pur nel prescindere dai patenti profili di inammissibilità della doglianza, attesane la evidente intempestività) che emerge ex actis (cui questa Corte ha diretto accesso, essendo denunziato un vizio in procedendo) l'esistenza non già di un procedimento disciplinare pendente dinanzi al consiglio romano, ma la mera trasmissione, da parte di quest'ultimo, dell'esposto F. all'organo disciplinare veneziano che, con Delib. 24 luglio 2006, ha aperto (per la prima volta, e del tutto legittimamente) il procedimento medesimo.
Quanto alla pretesa incostituzionalità del procedimento disciplinare forense per pretesa violazione dell'art. 111 Cost., è sufficiente osservare che i procedimenti (e i conseguenti giudizi) instaurati presso i consigli territoriali degli ordini hanno natura amministrativa (onde la evidente non conferenza del richiamo alla norma della Carta fondamentale, essendo il principio di terzietà irredimibilmente dettato con riferimento all'attività di giurisdizione e non di amministrazione), mentre l'organo fornito di potestà giurisdizionale, e cioè il Consiglio nazionale forense, non ha competenza alcuna a dare impulso al procedimento disciplinare (onde la palese infondatezza, per altro verso, dell'ulteriore richiamo al principio di terzietà operato dal ricorrente).
I rimanenti motivi, che rappresentano a questa Corte, sotto vari profili, doglianze di merito (travisamento dei fatti, errata valutazione dei medesimi, contraddittorietà della decisione sotto plurimi aspetti valutativi) sono nel loro complesso inammissibili e comunque infondati.
Sicuramente inammissibili risultano le censure di travisamento dei fatti di causa, eventualmente oggetto di altra, diversa impugnazione.
Complessivamente infondate appaiono, ancora, le doglianze di erroneità e contraddittorietà della decisione, tutte inevitabilmente destinate ad infrangersi sul corretto, articolato, condivisibile impianto motivazionale adottato dal giudice del merito.
E ciò è a dirsi:
- con riferimento alla pretesa "contraddizione temporale" della decisione impugnata (primo motivo di ricorso), poiché la qualità di difensore dell'odierno incolpato non era ancora cessata all'atto del suo accesso allo schedario informatico da cui ebbe ad attingere le notizie relative ai precedenti penali del suo cliente (non senza considerare che, pur se ipoteticamente sollevato da ogni incarico, le notizie apprese in veste di difensore non avrebbero mai potuto costituire oggetto di legittima divulgazione senza che ciò costituisse un vulnus ad elementari norme deontologiche);
- con riferimento alla richiesta di rivalutazione delle prove e dei fatti "nella loro oggettività" (secondo, terzo e quarto motivo), richiesta che, giusta cristallizzati principi di diritto ripetutamente predicati da questo giudice, non può in alcun modo e sotto alcun profilo trovare ingresso in sede di legittimità, essendo ius receptum presso questa Corte regolatrice il principio secondo cui l'art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica - delle valutazioni compiute dal giudice di cui si impugna la pronuncia (nella specie, il C.N.F.), al quale soltanto, va ripetuto, spetta l'individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito processo di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di merito non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a porsi dinanzi al giudice di legittimità;
- con riferimento alla richiesta di rivalutazione della gravità del fatto sotto il profilo dell'entità e rilevanza delle notizie illegittimamente propalate dal ricorrente (motivo quinto), valendo per essa le medesime considerazioni svolte poc'anzi, non ravvisandosi alcuna contraddittorietà ed alcun vizio logico giuridico nell'iter motivazionale seguito dal consiglio dell'ordine per giungere alla decisione oggi impugnata;
- con riferimento, ancora, alla pretesa, mancata valutazione dello scopo perseguito con la divulgazione delle notizie riguardanti il F. (motivo sesto), attesane la assoluta ultroneità ed irrilevanza ai fini della censurabilità e sanzionabilità del comportamento illecito del tutto correttamente ascritto al F.;
- con riferimento, infine, alla pretesa violazione degli artt. 129 e 533 c.p.p. (motivo settimo, erroneamente indicato come sesto), motivo di cui risulta patente la inammissibilità, attesa, da un canto, la assoluta disomogeneità sistemica tra i due ordinamenti, civile e penale, dall'altro, la totale impredicabilità di qualsivoglia margine di "dubbio" in ordine al comportamento ascritto all'incolpato odierno ricorrente.
Il ricorso è pertanto rigettato.
La disciplina delle spese (che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate) segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione.
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La polemica sulle specializzazioni non giova all'avvocatura
"L'attacco di Aiga alla norma transitoria, che consente agli Avvocati iscritti all'albo da più di 20 anni di dichiarare una specializzazione conseguita, appare strumentale al sabotaggio del regolamento coraggiosamente adottato dal Consiglio nazionale forense". È quanto dichiara l'Unione Camere Penali Italiane in merito alla polemica relativa all'approvazione del regolamento sulla specializzazione forense. "La norma transitoria - dicono i penalisti - è un male inevitabile per qualunque riforma che voglia funzionare a regime, la scelta dei venti anni ed il limite ad una sola specializzazione è un compromesso ragionevole. Non si può, se non strumentalmente, condurre prima battaglie per rendere meno rigoroso l'accesso agli albi di specialità e per annacquare la specializzazione e poi portare attacchi massimalisti e velleitari alla norma transitoria. Se si vuole difendere l'avvocato generalista e dequalificato, l'accesso facile e la formazione poco gravosa, lo si dica apertamente". L'Ucpi, prosegue la nota, "si opporrà duramente in tutte le sedi per denunciare il tentativo gattopardesco di cambiare tutto per non cambiare nulla. Non si conferiscano poteri di rappresentanza a sindacati più o meno esistenti che operano di conserva con l'Anm, non si rappresenti il Cnf come un manipolo di decisionisti antidemocratici: tutte le associazioni sono state consultate intorno ad un tavolo comune, naturalmente non possono prevalere opinioni incompatibili con le espressioni di maggioranza". I penalisti concludono che "questa falsa rappresentazione del Cnf, al pari di quella altrettanto falsa di un'avvocatura divisa, non giova alle battaglie dell'avvocatura e la indebolisce nei confronti della politica".
Unione Camere Penali
http://mondoprofessionisti.comingonweb.it/articolo_s-5-4818-La__polemica_sulle_specializzazioni_non_giova_all%26%23039%3Bavvocatura_.html
Unione Camere Penali
http://mondoprofessionisti.comingonweb.it/articolo_s-5-4818-La__polemica_sulle_specializzazioni_non_giova_all%26%23039%3Bavvocatura_.html
L'AIGA boccia il regolamento del CNF sulle specializzazioni
Sono molto sorpreso nell’apprendere che il CNF, approvando il Regolamento sulle specializzazioni forensi, abbia introdotto un regime transitorio, consentendo la specializzazione “ope legis” degli avvocati più anziani. Esonerando dalla frequenza del corso di formazione gli avvocati con oltre 20 anni di iscrizione all’albo ed imponendola solo agli iscritti più giovani, si garantisce ai primi un enorme vantaggio competitivo perché si gravano di obblighi e relativi oneri, economici e non solo, unicamente i secondi, ossia coloro che hanno redditi più bassi ed oltretutto in costante calo. L’AIGA si è sempre battuta per l’obbligatorietà della formazione ed è da sempre favorevole alle specializzazioni, ma non può consentire che all’interno del ceto forense, la cui componente giovane costituisce più del 60% degli iscritti, si attuino scelte regolamentari gerontocratiche, così perpetuando un’abitudine che sta condannando il nostro Paese ad un inesorabile arretramento economico-sociale. Avevamo anche suggerito di prevedere specializzazioni più moderne, quali il diritto ambientale, che si caratterizzano per la loro multidisciplinarietà ma il CNF ha optato per specializzazioni molto tradizionali determinando, forse involontariamente, una disparità di trattamento tra civilisti, i quali potranno essere specializzati in una determinata materia, e i penalisti amministrativisti e tributaristi, i quali potranno spendere una specializzazione “generalista” in diritto penale, amministrativo o tributario. L’Associazione Italiana Giovani Avvocati, quindi nel ribadire la piena contrarietà ad una disciplina che ostacola la crescita lavorativa dei giovani, chiede di essere immediatamente sentita dal CNF sul Regolamento approvato ieri affinché se ne adegui il contenuto alle reali esigenze dell’intera categoria.
di Giuseppe Sileci (Presidente Aiga)
http://mondoprofessionisti.comingonweb.it/articoli_s-5-4798-1-L%26amp%3B%23039%3BAIGA__boccia_il_regolamento_del_CNF_sulle_specializzazioni.html
di Giuseppe Sileci (Presidente Aiga)
http://mondoprofessionisti.comingonweb.it/articoli_s-5-4798-1-L%26amp%3B%23039%3BAIGA__boccia_il_regolamento_del_CNF_sulle_specializzazioni.html
Cassazione: non si può dare del dottore a chi non lo è veramente
La Cassazione dice no all'abitudine di dare del "dottore" a chi non lo è veramente. Una consuetudine diffusa che, secondo gli Ermellini, può offendere la categoria dei professionisti. L'invito a non abusare dei titoli riservati a determinate categorie arriva dalla terza sezione Civile della Corte con la sentenza n.20338/2010. D'ora in avanti dunque occorre fare attenzione a non dare del dottore a qualcuno se non lo e' effettivamente e poco importa che l'utilizzo del titolo sia fatto senza "senza offendere l'onore o la reputazione" della categoria tirata in ballo. Per i Supremi giudici il discorso vale per tutte le categorie: architetti, commercialisti, giornalisti e via dicendo. Secondo gli Ermellini l'uso del titolo a spoposito puo' ledere il "diritto all'identita' personale" visto che "ogni persona ha diritto ad essere rappresentata, nella sua vita di relazione, con la vera identita' come e' conosciuta nella realta' sociale, generale o particolare e quindi ha interesse a non vedere alterato, travisato, offuscato, contrestato il proprio patrimonio culturale, politico, sociale, religioso, culturale, ideologico, professionale, che si estrinseca nell'ambiente sociale perche' il correlativo diritto - ragguagliano gli 'ermellini' - garantisce la personalita' individuale riconosciuta dall'art. 2 della Costituzione".
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9055.asp
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Nulle le convenzioni con il cliente che applicano le tariffe avvocati sotto il minimo
Prima della riforma Bersani erano nulle le convenzioni con gli avvocati che applicavano le tariffe sotto il minimo sancito dalla legge anche per l'attività stragiudiziale "routinaria".
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 20269 di oggi, ha respinto il ricorso di due aziende che avevano pagato a uno studio professionale un onorario inferiore ai minimi tariffari in virtù di una convenzione stipulata prima della riforma del 2006.
Per questo la Corte d'Appello di Napoli, si istanza dello studio professionale, aveva condannato le società a versare la differenza. Condividendo la tesi della Corte partenopea la sezione lavoro della Corte di cassazione ha ribadito una serie di principi secondo cui "in materia di onorari e diritti di avvocato e procuratore, la disposizione dell'art. 24 della legge n. 794 del 1942 - che sancisce il principio dell'inderogabilità delle relative tariffe minime, con testuale riferimento alle prestazioni giudiziali - va interpretata nel senso dell'estensione di detto principio anche alle "prestazioni stragiudiziali", alla stregua sia della "ratio legis" (collegata ad esigenze di tutela del decoro della professione forense che si prospettano con identico rilievo nei riguardi di entrambi i tipi di prestazione), sia del criterio di adeguamento al precetto costituzionale di uguaglianza, sia, infine, di ragioni sistematiche volte a tutelare il lavoro e il lavoratore anche nelle prestazioni d'opera intellettuale, con analoghe prescrizioni di inderogabilità. La suddetta inderogabilità - cui, quando ne ricorrano i presupposti, si collega automaticamente il doveroso riconoscimento del rimborso forfettario delle spese generali di studio, introdotto dall'art.15 della tariffa professionale approvata con D.M. 22 giugno 1982 - può soffrire eccezioni in considerazione della natura semplice o ripetitiva di alcuni affari, poiché la cosiddetta standardizzazione della pratiche, cosa come il carattere "routinario" delle medesime possono, se mai, incidere sulla determinazione dei compensi tra il minimo e il massimo delle tariffe, ma non anche giustificarne la totale disapplicazione". cassazione.net
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2411:nulle-le-convenzioni-con-il-cliente-che-applicano-le-tariffe-avvocati-sotto-il-minimo&catid=92:angolo-del-professionista&Itemid=100
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 20269 di oggi, ha respinto il ricorso di due aziende che avevano pagato a uno studio professionale un onorario inferiore ai minimi tariffari in virtù di una convenzione stipulata prima della riforma del 2006.
Per questo la Corte d'Appello di Napoli, si istanza dello studio professionale, aveva condannato le società a versare la differenza. Condividendo la tesi della Corte partenopea la sezione lavoro della Corte di cassazione ha ribadito una serie di principi secondo cui "in materia di onorari e diritti di avvocato e procuratore, la disposizione dell'art. 24 della legge n. 794 del 1942 - che sancisce il principio dell'inderogabilità delle relative tariffe minime, con testuale riferimento alle prestazioni giudiziali - va interpretata nel senso dell'estensione di detto principio anche alle "prestazioni stragiudiziali", alla stregua sia della "ratio legis" (collegata ad esigenze di tutela del decoro della professione forense che si prospettano con identico rilievo nei riguardi di entrambi i tipi di prestazione), sia del criterio di adeguamento al precetto costituzionale di uguaglianza, sia, infine, di ragioni sistematiche volte a tutelare il lavoro e il lavoratore anche nelle prestazioni d'opera intellettuale, con analoghe prescrizioni di inderogabilità. La suddetta inderogabilità - cui, quando ne ricorrano i presupposti, si collega automaticamente il doveroso riconoscimento del rimborso forfettario delle spese generali di studio, introdotto dall'art.15 della tariffa professionale approvata con D.M. 22 giugno 1982 - può soffrire eccezioni in considerazione della natura semplice o ripetitiva di alcuni affari, poiché la cosiddetta standardizzazione della pratiche, cosa come il carattere "routinario" delle medesime possono, se mai, incidere sulla determinazione dei compensi tra il minimo e il massimo delle tariffe, ma non anche giustificarne la totale disapplicazione". cassazione.net
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Non è diffamazione accusare un avvocato di comportamenti deontologicamente scorretti in un esposto all'ordine
Non risponde di diffamazione il cliente dell'avvocato che presenta un esposto all'ordine dove segnala un suo comportamento deontologicamente scorretto, anche se poi l'accusa si è rivelata falsa. E' quanto ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza 33994 depositata oggi, ha annullato la condanna inflitta dal tribunale di Napoli a una donna, rea di aver diffamato un avvocato attraverso un esposto inviato al consiglio dell'ordine degli avvocati. Nell'esposto la signora riportava che il suo legale, benché avesse ricevuto del denaro proveniente da una causa ormai conclusa, non le aveva versato nulla, senza però fare alcun riferimento a un eventuale utilizzo illegale dei soldi. L'avvocato, dal canto suo, aveva riferito al giudice di non aver ricevuto i compensi dovuti per l'attività professionale svolta. Date le evidenti divergenze tra i due, la donna si era rivolta all'ordine degli avvocati, esprimendo forti perplessità sulla correttezza della condotta del suo avvocato. Il consiglio dell'ordine ha ritenuto infondati i suo dubbi e ha archiviato il tutto. La quinta sezione penale ha respinto l'impostazione dei giudici di merito, e ha precisato che era nel pieno diritto della cliente "accertare se la divergenza fosse da ascrivere a una propria errata valutazione dei rapporti dare/avere con il professionista che l'aveva assistita o fossero da ascrivere a una errata valutazione di questi". La cassazione ha dunque concluso che l'interrogativo sulla correttezza professionale degli avvocati non può tradursi automaticamente in una reazione punitiva dello Stato, va quindi riconosciuto "l'esercizio di un diritto , anche nel caso della condotta di chi indirizzi un esposto contenente espressioni offensive a autorità disciplinare, in quanto ricorre la generale causa di giustificazione ex art. 51 c.p., quale esercizio di un diritto di critica costituzionalmente tutelato dall'art.21 della Carta Costituzionale che è da ritenere prevalente rispetto al bene della dignità personale".
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2388:non-e-diffamazione-accusare-un-avvocato&catid=92:angolo-del-professionista&Itemid=100
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CASSAZIONE: Avvocati Dovere di diligenza professionale
l'avvocato officiato ha promosso un giudizio ordinario, invece di ricorrere al procedimento monitorio che avrebbe garantito un sollecito soddisfacimento del credito - linea difensiva sbagliata - lìavvocato deve risarcire i danni al cliente Corte di Cassazione Civile sentenza del 26/7/2010 n. 17506
Svolgimento del processo -
Motivi della decisione
E' stata depositata la seguente relazione:
1 - Il fatto che ha originato la controversia è il seguente: per ottenere il pagamento dei compensi professionali di architetto vantati nei confronti di terzi, l'avvocato officiato ha promosso un giudizio ordinario, invece di ricorrere al procedimento monitorio che avrebbe garantito un sollecito soddisfacimento del credito.
Con sentenza depositata in data 22 settembre 2009 la Corte d'Appello dell'Aquila ha condannato il legale ( S.I.) a risarcire il danno subito dal cliente ( N.E.) per violazione del dovere di diligenza professionale nella sua difesa nella controversia giudiziaria. Alla Corte di Cassazione è stata devoluta la seguente questione di diritto: se possa costituire fonte di responsabilità professionale, dando luogo al risarcimento del conseguente danno, la scelta processuale del legale.
2 - Il relatore propone la trattazione del ricorso in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c..
3. - Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1176 e 2236 c.c., e, in particolare, definisce aberrante il principio posto alla base della sentenza impugnata, secondo cui l'adozione dell'atto di citazione piuttosto che del possibile ricorso per decreto ingiuntivo, quale mezzo per il recupero di un credito, configuri responsabilità professionale del difensore.
Il secondo motivo lamenta violazione o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., e omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare assumendo che la Corte territoriale ha trascurato di esaminare gli elementi di fatto posti a sostegno della difesa.
Le due censure che, possono essere trattate congiuntamente presentando profili comuni, sono manifestamente infondate.
Il ricorso non prospetta argomentazioni che possano indurre la Corte a modificare il proprio orientamento come espresso, tra le altre, da Cass. n. 6967 del 2006.
La sentenza impugnata non si è discostata dai principi ivi enunciati avendo ravvisato, con apprezzamento di fatto congruamente e razionalmente motivato, quindi incensurabile, il danno arrecato al rappresentato nella circostanza che, fatto ricorso al procedimento monitorio giustificato dall'abbondante documentazione a disposizione, sarebbe stato agevole ottenere la provvisoria esecuzione ove le controparti avessero proposto opposizione, quindi il soddisfacimento del credito senza attendere i tempi lunghi del procedimento ordinario.
4.- La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti;
Il ricorrente ha presentato memoria ed ha chiesto d'essere ascoltato in camera di consiglio;
Le argomentazioni addotte dal ricorrente con la memoria non offrono spunti per soluzioni diverse; qui giova sottolineare che la sentenza impugnata, con apprezzamento di merito non censurabile, ha evidenziato il diverso risultato - per lui utile - che il cliente avrebbe conseguito ove il professionista avesse scelto il procedimento monitorio;
5.- Ritenuto:
che, a seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella Camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione;
che il ricorso deve perciò essere rigettato essendo manifestamente infondato; le spese seguono la soccombenza;
visti gli artt. 380 bis e 385 c.p.c..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.600,00, di cui Euro 1.400,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.
http://www.foroeuropeo.it/sen/cas/10/17506.htm
Svolgimento del processo -
Motivi della decisione
E' stata depositata la seguente relazione:
1 - Il fatto che ha originato la controversia è il seguente: per ottenere il pagamento dei compensi professionali di architetto vantati nei confronti di terzi, l'avvocato officiato ha promosso un giudizio ordinario, invece di ricorrere al procedimento monitorio che avrebbe garantito un sollecito soddisfacimento del credito.
Con sentenza depositata in data 22 settembre 2009 la Corte d'Appello dell'Aquila ha condannato il legale ( S.I.) a risarcire il danno subito dal cliente ( N.E.) per violazione del dovere di diligenza professionale nella sua difesa nella controversia giudiziaria. Alla Corte di Cassazione è stata devoluta la seguente questione di diritto: se possa costituire fonte di responsabilità professionale, dando luogo al risarcimento del conseguente danno, la scelta processuale del legale.
2 - Il relatore propone la trattazione del ricorso in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c..
3. - Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1176 e 2236 c.c., e, in particolare, definisce aberrante il principio posto alla base della sentenza impugnata, secondo cui l'adozione dell'atto di citazione piuttosto che del possibile ricorso per decreto ingiuntivo, quale mezzo per il recupero di un credito, configuri responsabilità professionale del difensore.
Il secondo motivo lamenta violazione o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., e omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare assumendo che la Corte territoriale ha trascurato di esaminare gli elementi di fatto posti a sostegno della difesa.
Le due censure che, possono essere trattate congiuntamente presentando profili comuni, sono manifestamente infondate.
Il ricorso non prospetta argomentazioni che possano indurre la Corte a modificare il proprio orientamento come espresso, tra le altre, da Cass. n. 6967 del 2006.
La sentenza impugnata non si è discostata dai principi ivi enunciati avendo ravvisato, con apprezzamento di fatto congruamente e razionalmente motivato, quindi incensurabile, il danno arrecato al rappresentato nella circostanza che, fatto ricorso al procedimento monitorio giustificato dall'abbondante documentazione a disposizione, sarebbe stato agevole ottenere la provvisoria esecuzione ove le controparti avessero proposto opposizione, quindi il soddisfacimento del credito senza attendere i tempi lunghi del procedimento ordinario.
4.- La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti;
Il ricorrente ha presentato memoria ed ha chiesto d'essere ascoltato in camera di consiglio;
Le argomentazioni addotte dal ricorrente con la memoria non offrono spunti per soluzioni diverse; qui giova sottolineare che la sentenza impugnata, con apprezzamento di merito non censurabile, ha evidenziato il diverso risultato - per lui utile - che il cliente avrebbe conseguito ove il professionista avesse scelto il procedimento monitorio;
5.- Ritenuto:
che, a seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella Camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione;
che il ricorso deve perciò essere rigettato essendo manifestamente infondato; le spese seguono la soccombenza;
visti gli artt. 380 bis e 385 c.p.c..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.600,00, di cui Euro 1.400,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.
http://www.foroeuropeo.it/sen/cas/10/17506.htm
CASSAZIONE: TROPPE AGGRESSIONI TRA POLITICI IN TV
E' una "consuetudine amara" quella delle aggressioni e ritorsioni politiche", in particolare quando sfociano in 'risse' televisive. Lo rileva la Cassazione, annullando con rinvio una sentenza della Corte d'appello di Roma, che aveva rigettato la richiesta di risarcimento danni avanzata dal leader dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro, nei confronti di Vittorio Sgarbi e la RTI spa. Al centro della vicenda, la trasmissione 'Sgarbi quotidiani', e, soprattutto, sei puntate andate in onda nell'estate del 1994, nelle quali Sgarbi avrebbe "offeso l'onore e la reputazione" di Di Pietro, che aveva dunque presentato un'istanza di risarcimento in tribunale. Se in primo grado il leader dell'Idv aveva ottenuto dal tribunale di Roma un risarcimento pari a 50 milioni di vecchie lire, in appello, i giudici della Capitale avevano invece rigettato le domande di Di Pietro, ritenendo le dichiarazioni di Sgarbi coperte dall'immunita' parlamentare ai sensi dell'articolo 68 della Costituzione. L'ex magistrato di Mani Pulite aveva quindi presentato ricorso alla Suprema Corte e gli 'ermellini' della terza sezione civile hanno ritenuto parzialmente fondate le sue doglianze e rimesso il caso alla Corte d'appello di Roma. Nella sentenza n.16382, i giudici di piazza Cavour rilevano che "l'illiceita' del fatto deriva dalla lesione del diritto inviolabile della dignita' della persona, che trova la sua fonte etica e giuridica nell'articolo 2 e nello stesso articolo 3 della Costituzione, ed ora anche nell'articolo 1 della Carta di Nizza, come valore giuridico europeo, che appartiene alla tradizione costituzionale comune agli stati membri ed appare principio comune di diritto". Alla luce di cio', conclude la Cassazione, "la verifica della lesione del diritto o la sua esclusione", se si vuole "porre fine ad una consuetudine amara di aggressioni e ritorsioni politiche" deve avvenire "nel rispetto di quella tolleranza e civilta' giuridica che le nostre tradizioni comuni devono evidenziare come regole di una comunita' coesa da un fascio di valori giuridici ed etici non rinunciabili"
http://www.agi.it/politica/notizie/201007131802-pol-rt10288-cassazione_troppe_aggressioni_tra_politici_in_tv
http://www.agi.it/politica/notizie/201007131802-pol-rt10288-cassazione_troppe_aggressioni_tra_politici_in_tv
Sanzionato l'avvocato che assiste in momenti successivi soggetti portatori di interessi in conflitto
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che con la sentenza 14617 del 17 giugno 2010 ha respinto il ricorso presentato da un avvocato contro il provvedimento disciplinare con il quale... era stato censurato per mancato rispetto degli obblighi di lealtà e correttezza, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Dopo aver rinunciato al mandato conferitogli nell’interesse di un Consorzio, l’avvocato aveva inviato una diffida al consorzio stesso
nella qualità di difensore del Comune di Rocca Priora, in una causa per l’affidamento in appalto di alcuni servizi legati alla distribuzione idrica nel territorio comunale. La Corte ha ritenuto che dato il breve lasso di tempo (quaranta giorni) tra rinuncia e diffida, il professionista fosse incorso in un conflitto d’interessi e per tale ragione la sanzione irrogata appariva ragionevole, non competendo in tal caso al giudice sindacare sulle scelte del Consiglio, dovendo applicarsi il principio di diritto per cui “ nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare, definite dalla legge mediante una clausola generale (mancanze nell'esercizio della professione o comunque fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale) è rimessa alla valutazione dell'Ordine professionale ed il controllo di legittimità sull'applicazione di tali valutazioni non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nell'enunciazione di ipotesi di illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza”.
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2003:sanzionato-lavvocato-che-assiste-in-momenti-successivi-soggetti-portatori-di-interessi-in-conflitto&catid=92:angolo-del-professionista&Itemid=100
nella qualità di difensore del Comune di Rocca Priora, in una causa per l’affidamento in appalto di alcuni servizi legati alla distribuzione idrica nel territorio comunale. La Corte ha ritenuto che dato il breve lasso di tempo (quaranta giorni) tra rinuncia e diffida, il professionista fosse incorso in un conflitto d’interessi e per tale ragione la sanzione irrogata appariva ragionevole, non competendo in tal caso al giudice sindacare sulle scelte del Consiglio, dovendo applicarsi il principio di diritto per cui “ nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare, definite dalla legge mediante una clausola generale (mancanze nell'esercizio della professione o comunque fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale) è rimessa alla valutazione dell'Ordine professionale ed il controllo di legittimità sull'applicazione di tali valutazioni non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nell'enunciazione di ipotesi di illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza”.
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2003:sanzionato-lavvocato-che-assiste-in-momenti-successivi-soggetti-portatori-di-interessi-in-conflitto&catid=92:angolo-del-professionista&Itemid=100
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