Premessa - Quando ci si accinge a parlare delle partecipazioni tra società, (tralasciando tutte le questioni relative alle partecipazioni incrociate tra società di capitali) solitamente ci si chiede se una società di capitali possa assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile di una società di persone o, viceversa, se una società personale possa partecipare al capitale di una società di capitali.
Dunque raramente ci si pone un diverso interrogativo: precisamente, se una società di persone possa assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile di altra società personale.
La dottrina ha spesso affrontato tale questione incidentalmente[1] mentre la giurisprudenza vi si è imbattuta con scarsa frequenza: il problema quindi rimane aperto, anche perché le risposte offerte sono, oggi come ieri, contraddittorie.
In passato non sono mancati Autori[2] che hanno ritenuto preferibile rispondere negativamente all’interrogativo che qui ci si pone, essenzialmente per tre ragioni: costoro infatti hanno motivato il loro diniego ribadendo, innanzitutto, che il contratto di società di persone è caratterizzato dal c.d. intuitus personae; in secondo luogo, che le società personali sono prive di perfetta autonomia patrimoniale; infine, che una diversa soluzione darebbe la stura ad una intollerabile situazione di confusione e fraintendimento in cui si troverebbero soci e creditori, che dovrebbero destreggiarsi tra operazioni e rapporti obbligatori imputabili alla società partecipante ovvero alla partecipata.
Passiamo dunque in rassegna queste tre argomentazioni.
La natura del raporto societario
La natura di negozio intuitu personae del contratto di società di persone è stata ribadita anche recentemente, in quanto “questo carattere appare riflesso nella regola legale dell’amministrazione disgiuntiva (art. 2257 c.c.), per cui l’operato di un socio può importare la responsabilità degli altri soci. È l’aspetto fiduciario che spiega la regola della normale intrasferibilità delle quote, salvo i casi espressamente previsti”[3]. L’intuitus personae rappresenterebbe così un connotato strutturale di tale contratto così come, del resto, di numerosi contratti civilistici.
D’altra parte è noto che con tale espressione si suole indicare che la persona del contraente rileva sotto il profilo delle sue attitudini e qualità personali. Ecco, quindi, che il conferimento di un certo incarico, ovvero di un certa commessa, ad un soggetto piuttosto che ad un altro rileverebbe indiscutibilmente, legittimando così il primo contraente a chiedere l’annullamento del negozio in caso, ad esempio, di error in persona.
Gli esempi appena fatti prendono in esame la disciplina in materia di mandato ed appalto: tuttavia, ad un più approfondito esame, le cose sembrano mutare. D’altra parte, gli artt. 1717, 1656 e 1674 c.c., confermano quanto è stato precisato da autorevole dottrina[4], e cioè che è “tuttavia possibile che le parti deroghino a tale aspetto del tipo, dando vita a contratti non personalizzati”. Vero che essa prosegue precisando che la “importanza della personalità della prestazione si ravvisa soprattutto nella intrasmissibilità del rapporto, anche per effetto di una successione mortis causa, salvo diversa disposizione di legge”; ma tale ultima affermazione non contraddice quanto detto sopra, e cioè che niente esclude la possibilità che le parti convenzionalmente deroghino all’intuitus personae.
Conferma di ciò sarebbe rappresentato anche dall’art. 2284 c.c.: questa norma viene spesso richiamata proprio per ribadire l’infungibilità delle attitudini e delle qualità personali del socio la cui quota, dopo la morte, va liquidata.
Tuttavia, a ben vedere, la norma non dice questo. Essa prevede piuttosto l’obbligo dei soci superstiti di liquidare la quota del defunto “a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”: la norma vuole quindi soltanto dire che gli eredi non possono pretendere di prendere il posto del defunto né, tanto meno, essere obbligati ad entrare in società (rispondendo in tal modo illimitatamente e solidalmente di tutte le obbligazioni sociali), senza aver avuto né il tempo né la possibilità di esprimere la propria opinione a riguardo.
Tale interpretazione risulta corroborata da dottrina e giurisprudenza[5], che riconoscono la piena legittimità della clausola contrattuale che prevede l’obbligo per i soci superstiti di proseguire l’attività con gli eredi del socio defunto ovvero di quella che ammette il trasferimento mortis causa della quota agli eredi del defunto, purché tale effetto sia subordinato alla loro accettazione.
Dunque la infungibilità, la rilevanza delle qualità ed attitudini personali del socio (in breve, l’intuitus personae) non sono un vero e proprio connotato essenziale ed irrinunciabile del contratto di società di persone.
Non sembra del resto che questa ultima considerazione possa ritenersi corretta nemmeno argomentandola, come accennato all’inizio, ex art. 2257. Non fosse altro perché la disciplina dell’amministrazione è data tanto dall’art. 2257 quanto dall’art. 2258: nulla vieta quindi ai soci che sono poco… “fiduciosi” gli uni degli altri, di imporre che qualsiasi atto debba richiedere, ad esempio, la firma abbinata o congiunta di tutti (od alcuni) soci per essere compiuto.
Tutto ciò spiega perché autorevole dottrina non ha mancato di precisare, decenni or sono, che il c.d. intuitus personae “non è un elemento essenziale ma semmai solo un effetto naturale del contratto”[6], mentre la giurisprudenza negli stessi anni[7] già ammetteva, proprio sulla base delle argomentazioni sopra svolte, la piena legittimità di un patto avente ad oggetto la libera trasferibilità, vuoi inter vivos vuoi mortis causa, della partecipazione sociale.
Pertanto, dalla possibilità di liberamente trasferire la propria quota non può non discendere la possibile variazione della compagine sociale, con l’ulteriore conseguenza che sarà altrettanto legittima l’ipotesi in cui, uscito un socio persona fisica, la sua quota sia acquistata non solo da altra persona fisica ma anche da un ente. Ecco così il legittimarsi della “partecipazione, ad una società di persone, di un ente collettivo in quanto tale, e ciò pur con la possibile variabilità delle persone fisiche che di tale ente fanno parte”[8].
L'intuitus personae nel contratto di società è stato richiamato argomentando anche dall'art. 2252 c.c., che prescrive il consenso unanime di tutti i soci per qualsiasi modifica contrattuale.
Tuttavia, anche questa argomentazione non convince perché la portata di tale regola è rimessa ai soci: la legge anche stavolta ammette che le parti deroghino a tale disposizione prevedendo che le modifiche avvengano a maggioranza anziché all’unanimità.
Ecco perché la dottrina che più recentemente è tornata sul tema ha ribadito che nel contratto di società l'intuitus personae rappresenta un “caso particolare”[9]: tale affermazione valga, in maniera definitiva, per ammettere il libero trasferimento della partecipazione sociale, sia per atto tra vivi che a causa di morte.
Anzi, proprio la possibilità di modifica del contratto a semplice maggioranza ha indotto Alcuni a sostenere che la libera trasferibilità delle quote, deve portare a persino a dubitare che il rapporto sociale sia un contratto intuitu personae[10].
Concludendo, anche volendo continuare a definire il contratto di società quale negozio intuitu personae, ogni qual volta si ammetta la libera trasferibilità delle quote, tale caratteristica non può non considerarsi fortemente ridimensionata (se non addirittura esclusa); giammai, comunque, questa caratteristica del contratto può rappresentare argomentazione per impedire ad una società di persone di partecipare al capitale di altra società personale.
Autonomia patrimoniale
La seconda delle tre argomentazioni sopra elencate insiste invece sulla carenza della perfetta autonomia patrimoniale che, caratterizzando tanto la società in nome collettivo che l’accomandita semplice, li renderebbe enti incapaci di acquistare una partecipazione sociale.
Ora, come possa essere questa una valida argomentazione, sinceramente mi sfugge: d’altra parte, è fuor di dubbio che le società di persone, pur non essendo persone giuridiche sono comunque enti dotati di una propria (sebbene imperfetta) autonomia patrimoniale, che si traduce pur sempre in soggettività giuridica: essi rimangono pur sempre dei centri di imputazione giuridica distinti dai soci.
Se così non fosse, non si potrebbe neppure ammettere che una società di capitali possa assumere la qualità di socio di una società di persone (o vice versa): questione, quest’ultima, che appare oggi almeno in via di principio risolta affermativamente, perché la riforma delle società di capitali ha aggiunto un secondo comma all’art. 2361, ai sensi del quale “L’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.
Pertanto, e concludendo, affermare che la mancanza della personalità giuridica impedisca ad una società di persone di partecipare al capitale sociale di una società omologa non è corretto. D’altra parte, una società di persone ben può far parte di un’associazione non riconosciuta o di comitato: forse che in questo caso il requisito della mancanza della personalità giuridica diventerebbe d’un tratto irrilevante solo perché non si è in presenza di enti a scopo di lucro?
Partecipazioni incrociate tra società di persone
Passiamo quindi alla terza argomentazione: sarebbero illegittime le partecipazioni incrociate tra società di persone perché verrebbero gravemente lesi i diritti dei creditori mentre i soci stessi confonderebbero la gestione della partecipante con quella della partecipata.
Analizziamo prima la posizione dei creditori. Secondo gli Autori che non ammettono questo genere di partecipazioni la società partecipante, dovendo esercitare l’impresa commerciale per attuare il proprio oggetto sociale, dovrebbe a tal fine assumere obbligazioni solamente per sé e non per altri, come risulterebbe essere la società partecipata.
Questa affermazione viene argomentata richiamando l’art. 2291, comma 1, c.c.: “Nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali”: ciò significherebbe che i soci dovrebbero rispondere soltanto dei propri debiti, cioè quelli assunti dalla propria società, e non di quelli altrui, quali sarebbero quelli della società partecipata.
Quindi, se si ammettesse che una società di persone diventi socio di una società in nome collettivo, i soci della prima si troverebbero a dover rispondere dei debiti assunti da qualcun altro, venendosi così a creare confusione tra debiti propri ed altrui, con conseguente grave difficoltà per i creditori della società partecipante: questi ultimi, infatti, vorrebbero aggredire il patrimonio della partecipante che sarebbe però al contempo tenuto a garantire, ai sensi degli artt. 2291 e 2304 c.c., i debiti assunti dalla società partecipata.
Non solo. Anche per quanto riguarda l’adozione delle decisioni necessarie per l’esercizio dell’impresa, i soci della partecipante dovrebbero occuparsi anche dell’amministrazione della partecipata, ex artt. 2257 e 2258, con “inevitabile” confusione e difficoltà.
Queste argomentazioni non convincono, perché la lettura data all’art. 2291 cit., sembra riduttiva, mentre la “inevitabile confusione” in cui si troverebbero i soci appare una valutazione personale e niente più.
D’altra parte, se la dottrina[11] ammette che una società di persone possa prestare fideiussione omnibus a favore di un proprio socio, non si vede per quale motivo tale possibilità debba ritenersi limitata all’ipotesi in cui il fideiuvato sia una persona fisica: ben potrebbe darsi, infatti, che la società partecipata presti tale forma di fideiussione a favore di un proprio socio che sia una società commerciale.
Il punto è che l’art. 2291 cit., non parla affatto di obbligazioni contratte dalla società per sé ma, più semplicemente, di obbligazioni sociali, tra le quali indubbiamente vi rientrano anche quelle derivanti da fideiussioni prestate dalla società e per le quali il socio sarebbe chiamato a rispondere. Nulla esclude che tale conclusione possa quindi ritenersi valida anche per le obbligazioni di cui la partecipante fosse tenuta a rispondere come socio illimitatamente responsabile di altra società.
Pertanto la responsabilità dei soci della partecipante, per le operazioni decise dalla società partecipata, non costituisce una fattispecie connotata da caratteri di illiceità o anormalità: laddove infatti una società di persone partecipasse al capitale di altra società di persone, la prima assumerebbe la responsabilità, ex art. 2291 c.c., delle obbligazioni della seconda, ed il socio della partecipante risponderebbe in ultima analisi illimitatamente anche delle obbligazioni della partecipata.
Tali obbligazioni, in effetti, altro non sarebbero se non debiti derivanti da operazioni rientranti nell’ambito dell’esercizio dell’impresa della partecipante, che manterrà la partecipazione al capitale sociale della partecipata fino a quando la considererà un mezzo utile per l’attuazione del proprio oggetto sociale mentre il concorso che, di fatto, si determinerebbe tra i creditori della partecipante e della partecipata non è illegittimo, perché non urta contro alcuna norma o principio inderogabile dell’ordinamento: al contrario, esso rappresenta una normale conseguenza dell’agire di un soggetto (la società partecipante) con i terzi.
Vero che aumenterebbero il numero e l’entità dei creditori, oltre al rischio a carico tanto della società partecipante che, in ultima analisi, dei suoi soci ma l’esercizio dell’impresa è, o no, attività di per sé rischiosa?
Conclusione
A tutto quanto detto è possibile aggiungere un’ultima considerazione.
Se anche si volesse proibire ad una società personale di diventare socio illimitatamente responsabile di altra società personale onde evitare le difficoltà suddette in materia di amministrazione e gestione, ciò vorrebbe allora dire che nulla dovrebbe vietare ad una tale società di diventare socio limitatamente responsabile di altra società personale, id est socio accomandante in un’accomandita semplice.
Orbene, in questo caso, qualora questo socio accomandante-società di persone dovesse violare i propri obblighi di legge, forse non dovrebbero successivamente trovare applicazione gli artt. 2314; 2320, comma 1, secondo periodo e 2323, comma 2, con conseguente responsabilità illimitata e solidale per le obbligazioni sociali?
Come coniugare allora, in questi casi, l’esigenza di tutela dei creditori sociali e dei soci della partecipante con il chiaro dettato delle norme che prevedono che il socio accomandante, ingeritosi nella gestione, deve rispondere delle obbligazioni come se fosse accomandatario?
Anche sulla base di quest’ultima considerazione si deve pertanto concludere che non vi sono limiti all’ammissibilità delle partecipazioni tra società personali.
Nel nostro sistema, quindi, non si ravvisano disposizioni che rendano illegittimo, per una società di persone, acquisire una partecipazione, tanto in una società di capitali, quanto in un’altra società personale.
[1] Cfr., in generale: AULETTA, La morte del socio nelle società di persone, in Annali dell’Università di Catania, 1950; PUGLIATTI, Il rapporto giuridico personale, in Diritto civile: metodo, teoria pratica, Milano, 1951; GHIDINI, Società personali, Padova, 1973; FERRARA-CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 2006, 236 ss.
Cfr., in particolare: OPPO, Sulla partecipazione di società a società personali, in Riv. Dir. Civ. 1976, I, 11 ss.; FORTUNATO, Partecipazione di società di persone ad altra società di persone e nomina dell’amministratore, in Riv. Not. 1990, 77 ss.; DI SABATO, Le società, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 1993, p. 1230 ss.; LAURINI, Partecipazione di società di persone in società personali, in Società, 1993, 818 ss.; Commissione Studi d’Impresa del Consiglio Nazionale del Notariato, Studio CNN n. 5676/I: la partecipazione di società di persone in società personali, 2005.
[2] DI SABATO, op. cit.; ID., Manuale delle società, Torino, 1992; GHIDINI, op. cit.
[3] PALUMBO, La società in generale e le società di persone, Milano, 2004, 55.
[4] GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, 792.
[5] Cfr. AULETTA, op. cit.; MENGHI, La morte del socio nelle società di persone, Milano, 1984; Cass. 16 dicembre 1988, n. 6849, in Giur. Comm. 1989, II, 525 ss.; IEVA, I fenomeni parasuccessori, in RESCIGNO (cura di) Successioni e Donazioni, Padova, 2009, 59 ss.
[6] SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1975, 239 ss.
[7] Cfr. Cass. n. 340/1971, in Giust. Civ. 1971, 1706 ss.
[8] Decreto Trib. Napoli, 8 gennaio 1993, con nota di LAURINI, cit.
[9] DIENER, Il contratto in generale, Milano, 2002, 84.
[10] Cfr. BONOCORE, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1997, 184 ss.
[11] DI SABATO, op. cit.; FORTUNATO, op. cit.
http://www.dirittoeprocesso.com/index.php?option=com_content&view=article&id=2274%3Asulla-possibilita-per-una-societa-di-persone-di-partecipare-al-capitale-di-altra-societa-personale-g-m-celardi&catid=37%3Acivile&Itemid=101&lang=it
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Il condono ottenuto dalle società di persone non si estende ai soci
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza 12214 del 19 maggio 2010, ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, contro la decisione della CTR della Campania, che aveva dichiarato l'inammissibilità dell'accertamento in capo al socio di una s.a.s, poichè tale società aveva ottenuto il condono fiscale.
Nella breve, ma chiara motivazione, la Suprema Corte ha infatti spiegato come : "il condono fiscale ottenuto dalla società di persone non estende automaticamente i propri effetti ai singoli soci, nei confronti dei quali l'Amministrazione finanziaria conserva il potere di procedere ad accertamento, e che devono pertanto presentare autonoma istanza per potersi avvalere del beneficio; fermi restando tutti i diritti dell'Erario nei confronti dei soci che non abbiano richiesto il condono, l'imponibile preso a base dall'Ufficio per l'ammissione della società al beneficio può essere assunto dal giudice tributario come riferimento per determinare in modo congruo il reddito dei singoli soci, in considerazione della correlazione logica, giuridica ed economica esistente tra il reddito della società e quello di partecipazione dei soci, e quindi della necessità che, nella determinazione di quest'ultimo, si tenga conto dell'imponibile accertato e definito nei confronti della società stessa".
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1906:il-condono-ottenuto-dalle-societa-di-persone-non-si-estende-ai-soci&catid=63:giurisprudenza-dr-tributario&Itemid=27
Nella breve, ma chiara motivazione, la Suprema Corte ha infatti spiegato come : "il condono fiscale ottenuto dalla società di persone non estende automaticamente i propri effetti ai singoli soci, nei confronti dei quali l'Amministrazione finanziaria conserva il potere di procedere ad accertamento, e che devono pertanto presentare autonoma istanza per potersi avvalere del beneficio; fermi restando tutti i diritti dell'Erario nei confronti dei soci che non abbiano richiesto il condono, l'imponibile preso a base dall'Ufficio per l'ammissione della società al beneficio può essere assunto dal giudice tributario come riferimento per determinare in modo congruo il reddito dei singoli soci, in considerazione della correlazione logica, giuridica ed economica esistente tra il reddito della società e quello di partecipazione dei soci, e quindi della necessità che, nella determinazione di quest'ultimo, si tenga conto dell'imponibile accertato e definito nei confronti della società stessa".
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1906:il-condono-ottenuto-dalle-societa-di-persone-non-si-estende-ai-soci&catid=63:giurisprudenza-dr-tributario&Itemid=27
Cassazione Civile: nei contratti tra imprenditori occorre valutare la specifica approvazione
Il tema delle clausole onerose nei contratti tra imprenditori (o tra consumatori) giunge sempre più spesso all'attenzione della Cassazione.
La Terza Sezione Civile con Ordinanza 20 marzo 2010, n.6802 ha stabilito, tra gli altri, il seguente principio di diritto: "L'onerosità ex art. 1341, 2 co., c.c. attiene a contratti unilateralmente predisposti da un contraente in base a moduli o formulari in vista dell'utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, e la disciplina posta dall'art. 1341 ss. c.c. è altra e diversa da quella posta dal Codice del consumo, con la quale (solamente) in tale ipotesi concorre, laddove la vessatorietà ex artt. 33 ss. d.lgs. n. 206 del 2005 può invece attenere anche al rapporto contrattuale che sia stato singolarmente ed individualmente negoziato per lo specifico affare".
Sempre la Terza Sezione è ulteriormente intervenuta sul tema.
Nel caso di specie, la società che gestisce un albergo cita in giudizio la società (Seat Pagine Gialle) con la quale nel 1999 ha stipulato un contratto avente ad oggetto la pubblicità da inserire nell'elenco telefonico, per ottenere il risarcimento dei danni causati dall'errata indicazione del prefisso telefonico dell’albergo, errore che ha ingenerato confusione nella clientela dell’albergo stesso. Tribunale e Corte d'appello rigettano le pretese della società gerente l'albergo, accogliendo le argomentazioni di Seat, che in particolare ha invocato "la clausola n. 4 delle condizioni generali, che, nell’ipotesi di errori ed omissioni, limitava il diritto risarcitorio dell’inserzionista alla ripetizione gratuita della pubblicità nella successiva edizione dell’elenco".
La Cassazione cassa la sentenza del giudice di secondo grado. Vediamo perchè.
Secondo la Cassazione: "... occorre rilevare che la Corte territoriale si è limitata genericamente ad affermare, senza ulteriori argomentazioni, che la Seat “ha sostenuto nel caso in esame che il cliente è un imprenditore, escluso come tale dalla tutela di cui agli artt. 1469 bis e seguenti c.c.” e che “questa osservazione appare senza dubbio corretta e pertanto la clausola in esame, specificamente approvata ai sensi dell’art. 1341 c.c., è da ritenere valida e efficace”".
Tuttavia, prosegue la Cassazione: "se è vero che la disciplina di cui agli artt. 1469 e seguenti c.c. (oggi trasfusa nel Codice del consumo di cui al d.lgs. n. 206/2005), in tema di clausole vessatorie, attiene ai rapporti tra imprenditore (professionista) - consumatore e che la controversia in esame riguarda il rapporto contrattuale tra due società, è anche vero che la Corte di merito non ha compiutamente valutato la portata vessatoria di detta clausola in sé e la sua specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c. (applicabile, come nel caso in esame a soggetti aventi pari forza contrattuale perché entrambi persone fisiche o enti), con specifico riferimento al 2° comma di detta norma".
Pertanto "il giudice del rinvio dovrà verificare se la prestazione in questione a carico della Seat risulta esattamente adempiuta ai sensi dell’art. 1218 c.c. (non rilevando nel tema in esame la valutazione della clausola generale di correttezza) e se detta clausola n. 4 ha portata vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c. e risulta validamente sottoscritta, dandone adeguata motivazione".
(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 13 maggio 2010, n.11594).
http://www.filodiritto.com/index.php?azione=archivionews&idnotizia=2502
La Terza Sezione Civile con Ordinanza 20 marzo 2010, n.6802 ha stabilito, tra gli altri, il seguente principio di diritto: "L'onerosità ex art. 1341, 2 co., c.c. attiene a contratti unilateralmente predisposti da un contraente in base a moduli o formulari in vista dell'utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, e la disciplina posta dall'art. 1341 ss. c.c. è altra e diversa da quella posta dal Codice del consumo, con la quale (solamente) in tale ipotesi concorre, laddove la vessatorietà ex artt. 33 ss. d.lgs. n. 206 del 2005 può invece attenere anche al rapporto contrattuale che sia stato singolarmente ed individualmente negoziato per lo specifico affare".
Sempre la Terza Sezione è ulteriormente intervenuta sul tema.
Nel caso di specie, la società che gestisce un albergo cita in giudizio la società (Seat Pagine Gialle) con la quale nel 1999 ha stipulato un contratto avente ad oggetto la pubblicità da inserire nell'elenco telefonico, per ottenere il risarcimento dei danni causati dall'errata indicazione del prefisso telefonico dell’albergo, errore che ha ingenerato confusione nella clientela dell’albergo stesso. Tribunale e Corte d'appello rigettano le pretese della società gerente l'albergo, accogliendo le argomentazioni di Seat, che in particolare ha invocato "la clausola n. 4 delle condizioni generali, che, nell’ipotesi di errori ed omissioni, limitava il diritto risarcitorio dell’inserzionista alla ripetizione gratuita della pubblicità nella successiva edizione dell’elenco".
La Cassazione cassa la sentenza del giudice di secondo grado. Vediamo perchè.
Secondo la Cassazione: "... occorre rilevare che la Corte territoriale si è limitata genericamente ad affermare, senza ulteriori argomentazioni, che la Seat “ha sostenuto nel caso in esame che il cliente è un imprenditore, escluso come tale dalla tutela di cui agli artt. 1469 bis e seguenti c.c.” e che “questa osservazione appare senza dubbio corretta e pertanto la clausola in esame, specificamente approvata ai sensi dell’art. 1341 c.c., è da ritenere valida e efficace”".
Tuttavia, prosegue la Cassazione: "se è vero che la disciplina di cui agli artt. 1469 e seguenti c.c. (oggi trasfusa nel Codice del consumo di cui al d.lgs. n. 206/2005), in tema di clausole vessatorie, attiene ai rapporti tra imprenditore (professionista) - consumatore e che la controversia in esame riguarda il rapporto contrattuale tra due società, è anche vero che la Corte di merito non ha compiutamente valutato la portata vessatoria di detta clausola in sé e la sua specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c. (applicabile, come nel caso in esame a soggetti aventi pari forza contrattuale perché entrambi persone fisiche o enti), con specifico riferimento al 2° comma di detta norma".
Pertanto "il giudice del rinvio dovrà verificare se la prestazione in questione a carico della Seat risulta esattamente adempiuta ai sensi dell’art. 1218 c.c. (non rilevando nel tema in esame la valutazione della clausola generale di correttezza) e se detta clausola n. 4 ha portata vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c. e risulta validamente sottoscritta, dandone adeguata motivazione".
(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 13 maggio 2010, n.11594).
http://www.filodiritto.com/index.php?azione=archivionews&idnotizia=2502
Cassazione: scattano le manette per imprenditore che investe in un’azienda in crisi
La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 38577/2009) ha stabilito che rischia il carcere l’imprenditore che gestisce la società in crisi continuando ad investire e coprendo i buchi con dei finanziamenti e ciò anche se la gestione avventata dura pochi mesi. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto ineccepibili “le argomentazioni in forza delle quali sono state ravvisate le altre condotte illecite, in considerazione del fatto che il (…)ben consapevole della situazione economica della società e dello stato di dissesto oramai irreversibile e che, nonostante questo, aveva continuato a gestire la società sotto un’apparenza di normalità, dissimulandone le condizioni attraverso un vorticoso giro di finanziamenti destinati a coprire temporaneamente i precedente buchi, con il solo effetto di ritardare colpevolmente una fine oramai inevitabile”.
fonte studiocataldi
fonte studiocataldi
NORMATIVA: La quantificazione dell’obbligazione contributiva del caso di piani di crisi aziendali adottati dalle cooperative di lavoro.
Circolare nr. 14 del 02/02/2009
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Innanzitutto, appare lapalissiano sostenere che, affinché una società cooperativa di lavoro possa procedere all’adozione di un piano di crisi aziendale sono necessari due elementi:
previsione della possibilità di adottare piani di crisi aziendale nel regolamento interno della società cooperativa di lavoro, regolarmente approvato e depositato presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio;
delibera, da parte dell’assemblea dei soci, di adozione del piano di crisi aziendale.
Il tutto ai sensi della lettera d), comma 1, dell’art. 6 della Legge del 3 Aprile 2001, n. 142, intitolata della “Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento al socio lavoratore” ( pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 Aprile 2001 ).
In effetti, l’articolo 6, intitolato del “Regolamento interno”, al comma 1 sancisce che “Entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le cooperative di cui all'articolo 1 definiscono un regolamento, approvato dall'assemblea, sulla tipologia dei rapporti che si intendono attuare, in forma alternativa, con i soci lavoratori. Il regolamento deve essere depositato entro trenta giorni dall'approvazione presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio…”.
Tra le varie lettere, volte a determinare i contenuti del suddetto regolamento, vi è la d), nella quale è sancito che è prevista “l'attribuzione all'assemblea della facoltà di deliberare, all'occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e siano altresí previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lettera b), dell'articolo 3; il divieto, per l'intera durata del piano, di distribuzione di eventuali utili…”.
La quantificazione dell’obbligazione contributiva del caso di piani di crisi aziendali adottati dalle cooperative di lavoro.
Premessa
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Tra le conseguenze poste a carico dei soci lavoratori, a seguito di una crisi aziendale, vi è certamente una riduzione del trattamento economico, ma non è detto che la stessa riduzione sia da considerarsi ai fini degli adempimenti contributivi, e più precipuamente degli imponibili previdenziali da considerare ai fini del calcolo e poi versamento dei contributi previdenziali dei soci lavoratori rientranti nel piano di crisi aziendale.
Aspetti previdenziali.
Per ciò che attiene il calcolo dei contributi previdenziali e la base imponibile di riferimento ( imponibile previdenziale ) corrispondente a ciascun socio lavoratore, nel caso di adozione del piano di crisi aziendale, occorre far riferimento ai seguenti principi
Doveroso rispetto della normativa vigente in materia di contribuzione previdenziale con opportuno riferimento alla Legge 3 Aprile 2001, n. 142, art. 4.
Poiché l’articolo 4, intitolato delle “Disposizioni in materia previdenziale”, al comma 1, sancisce che “Ai fini della contribuzione previdenziale ed assicurativa si fa riferimento alle normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporti di lavoro adottabili dal regolamento delle società cooperative nei limiti di quanto previsto dall'articolo 6”. Ed in effetti nell’articolo citato viene sancito, nelle varie lettere, che il regolamento interno della società cooperativa deve sempre e comunque contenere
il richiamo ai contratti collettivi nazionali di lavoro applicabili, per i soci che svolgono attività lavorativa subordinata;
le modalità di svolgimento delle attività lavorative dei soci tenendo conto dell’organizzazione aziendale e dei rispettivi profili professionali;
la disciplina di rapporti di lavoro diversi da quelli subordinati, l’espresso richiamo alle leggi di settore, se vi sono tali tipologie di rapporti lavorativi;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’assemblea dei soci, un piano di crisi aziendale salvaguardando l’occupazione dei lavoratori;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’organo assembleare, forme di apporto anche economiche in proporzione alle capacità dei soci, al fine di porre una soluzione alla crisi della società.
La retribuzione da assumere come imponibile previdenziale non può essere inferiore ai limiti sanciti dalle leggi, dai contratti collettivi, regolamenti ed accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Tale principio è sancito dal Decreto Legge 9 Ottobre 1989 n. 338, convertito con la Legge n. 389 del del 7 Dicembre 1989, avente ad oggetto la “Sicurezza Sociale ( assicurazioni obbligatorie ) Industria, Commercio, Artigianato ( Generalità ) Mezzogiorno, il quale all’art. 1, denominato “Retribuzione imponibile, accreditamento della contribuzione settimanale e limite minimo di retribuzione imponibile”, comma 1, è sancito che “ La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Inoltre al comma 2, è sancito che “Con effetto dal 1° gennaio 1989 la percentuale di cui all'art. 7, comma 1, primo periodo, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, è elevata a 40. A decorrere dal periodo di paga in corso alla data del 1° gennaio 1989, la percentuale di cui al secondo periodo del predetto comma è fissata a 9,50”.
Riferimento alla determinazione annuale del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri parametri ai fini del calcolo delle contribuzioni previdenziali e di assistenza sociale, emanati con apposita circolare dall’INPS.
Tale principio è contenuto, ad esempio per l’anno corrente, nella Circolare INPS, n. 14 del 2 Febbraio 2009, avente ad oggetto la “Determinazione per l’anno 2009 del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri valori per il calcolo di tutte le contribuzioni dovute in materia di previdenza ed assistenza sociale”, e che il Ministero del Lavoro richiama nell’istanza di interpello in questione; il punto 3, della circolare, disciplina la retribuzione imponibile dei lavoratori delle cooperative sociali, avvalorando il principio che un minimale contributivo giornaliero va sempre rispettato benché la retribuzione effettiva del lavoratore sia inferiore.
Considerazioni Finali.
In definitiva, per il caso di adozione di piani di crisi aziendali, da parte di società cooperative di lavoro, e per tutta la durata degli stessi, pur potendosi operare delle riduzioni delle retribuzioni ai lavoratori, ai fini, invece, dei calcoli contributivi si potrà tenere conto delle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori nel rispetto, però, del minimale contributivo giornaliero sancito dal Decreto Legge n. 338/89 e dalla normativa INPS.
fonte overlex.com
DIRITTO SOCIETARIO
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Innanzitutto, appare lapalissiano sostenere che, affinché una società cooperativa di lavoro possa procedere all’adozione di un piano di crisi aziendale sono necessari due elementi:
previsione della possibilità di adottare piani di crisi aziendale nel regolamento interno della società cooperativa di lavoro, regolarmente approvato e depositato presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio;
delibera, da parte dell’assemblea dei soci, di adozione del piano di crisi aziendale.
Il tutto ai sensi della lettera d), comma 1, dell’art. 6 della Legge del 3 Aprile 2001, n. 142, intitolata della “Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento al socio lavoratore” ( pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 Aprile 2001 ).
In effetti, l’articolo 6, intitolato del “Regolamento interno”, al comma 1 sancisce che “Entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le cooperative di cui all'articolo 1 definiscono un regolamento, approvato dall'assemblea, sulla tipologia dei rapporti che si intendono attuare, in forma alternativa, con i soci lavoratori. Il regolamento deve essere depositato entro trenta giorni dall'approvazione presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio…”.
Tra le varie lettere, volte a determinare i contenuti del suddetto regolamento, vi è la d), nella quale è sancito che è prevista “l'attribuzione all'assemblea della facoltà di deliberare, all'occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e siano altresí previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lettera b), dell'articolo 3; il divieto, per l'intera durata del piano, di distribuzione di eventuali utili…”.
La quantificazione dell’obbligazione contributiva del caso di piani di crisi aziendali adottati dalle cooperative di lavoro.
Premessa
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Tra le conseguenze poste a carico dei soci lavoratori, a seguito di una crisi aziendale, vi è certamente una riduzione del trattamento economico, ma non è detto che la stessa riduzione sia da considerarsi ai fini degli adempimenti contributivi, e più precipuamente degli imponibili previdenziali da considerare ai fini del calcolo e poi versamento dei contributi previdenziali dei soci lavoratori rientranti nel piano di crisi aziendale.
Aspetti previdenziali.
Per ciò che attiene il calcolo dei contributi previdenziali e la base imponibile di riferimento ( imponibile previdenziale ) corrispondente a ciascun socio lavoratore, nel caso di adozione del piano di crisi aziendale, occorre far riferimento ai seguenti principi
Doveroso rispetto della normativa vigente in materia di contribuzione previdenziale con opportuno riferimento alla Legge 3 Aprile 2001, n. 142, art. 4.
Poiché l’articolo 4, intitolato delle “Disposizioni in materia previdenziale”, al comma 1, sancisce che “Ai fini della contribuzione previdenziale ed assicurativa si fa riferimento alle normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporti di lavoro adottabili dal regolamento delle società cooperative nei limiti di quanto previsto dall'articolo 6”. Ed in effetti nell’articolo citato viene sancito, nelle varie lettere, che il regolamento interno della società cooperativa deve sempre e comunque contenere
il richiamo ai contratti collettivi nazionali di lavoro applicabili, per i soci che svolgono attività lavorativa subordinata;
le modalità di svolgimento delle attività lavorative dei soci tenendo conto dell’organizzazione aziendale e dei rispettivi profili professionali;
la disciplina di rapporti di lavoro diversi da quelli subordinati, l’espresso richiamo alle leggi di settore, se vi sono tali tipologie di rapporti lavorativi;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’assemblea dei soci, un piano di crisi aziendale salvaguardando l’occupazione dei lavoratori;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’organo assembleare, forme di apporto anche economiche in proporzione alle capacità dei soci, al fine di porre una soluzione alla crisi della società.
La retribuzione da assumere come imponibile previdenziale non può essere inferiore ai limiti sanciti dalle leggi, dai contratti collettivi, regolamenti ed accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Tale principio è sancito dal Decreto Legge 9 Ottobre 1989 n. 338, convertito con la Legge n. 389 del del 7 Dicembre 1989, avente ad oggetto la “Sicurezza Sociale ( assicurazioni obbligatorie ) Industria, Commercio, Artigianato ( Generalità ) Mezzogiorno, il quale all’art. 1, denominato “Retribuzione imponibile, accreditamento della contribuzione settimanale e limite minimo di retribuzione imponibile”, comma 1, è sancito che “ La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Inoltre al comma 2, è sancito che “Con effetto dal 1° gennaio 1989 la percentuale di cui all'art. 7, comma 1, primo periodo, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, è elevata a 40. A decorrere dal periodo di paga in corso alla data del 1° gennaio 1989, la percentuale di cui al secondo periodo del predetto comma è fissata a 9,50”.
Riferimento alla determinazione annuale del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri parametri ai fini del calcolo delle contribuzioni previdenziali e di assistenza sociale, emanati con apposita circolare dall’INPS.
Tale principio è contenuto, ad esempio per l’anno corrente, nella Circolare INPS, n. 14 del 2 Febbraio 2009, avente ad oggetto la “Determinazione per l’anno 2009 del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri valori per il calcolo di tutte le contribuzioni dovute in materia di previdenza ed assistenza sociale”, e che il Ministero del Lavoro richiama nell’istanza di interpello in questione; il punto 3, della circolare, disciplina la retribuzione imponibile dei lavoratori delle cooperative sociali, avvalorando il principio che un minimale contributivo giornaliero va sempre rispettato benché la retribuzione effettiva del lavoratore sia inferiore.
Considerazioni Finali.
In definitiva, per il caso di adozione di piani di crisi aziendali, da parte di società cooperative di lavoro, e per tutta la durata degli stessi, pur potendosi operare delle riduzioni delle retribuzioni ai lavoratori, ai fini, invece, dei calcoli contributivi si potrà tenere conto delle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori nel rispetto, però, del minimale contributivo giornaliero sancito dal Decreto Legge n. 338/89 e dalla normativa INPS.
fonte overlex.com
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Innanzitutto, appare lapalissiano sostenere che, affinché una società cooperativa di lavoro possa procedere all’adozione di un piano di crisi aziendale sono necessari due elementi:
previsione della possibilità di adottare piani di crisi aziendale nel regolamento interno della società cooperativa di lavoro, regolarmente approvato e depositato presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio;
delibera, da parte dell’assemblea dei soci, di adozione del piano di crisi aziendale.
Il tutto ai sensi della lettera d), comma 1, dell’art. 6 della Legge del 3 Aprile 2001, n. 142, intitolata della “Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento al socio lavoratore” ( pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 Aprile 2001 ).
In effetti, l’articolo 6, intitolato del “Regolamento interno”, al comma 1 sancisce che “Entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le cooperative di cui all'articolo 1 definiscono un regolamento, approvato dall'assemblea, sulla tipologia dei rapporti che si intendono attuare, in forma alternativa, con i soci lavoratori. Il regolamento deve essere depositato entro trenta giorni dall'approvazione presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio…”.
Tra le varie lettere, volte a determinare i contenuti del suddetto regolamento, vi è la d), nella quale è sancito che è prevista “l'attribuzione all'assemblea della facoltà di deliberare, all'occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e siano altresí previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lettera b), dell'articolo 3; il divieto, per l'intera durata del piano, di distribuzione di eventuali utili…”.
La quantificazione dell’obbligazione contributiva del caso di piani di crisi aziendali adottati dalle cooperative di lavoro.
Premessa
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Tra le conseguenze poste a carico dei soci lavoratori, a seguito di una crisi aziendale, vi è certamente una riduzione del trattamento economico, ma non è detto che la stessa riduzione sia da considerarsi ai fini degli adempimenti contributivi, e più precipuamente degli imponibili previdenziali da considerare ai fini del calcolo e poi versamento dei contributi previdenziali dei soci lavoratori rientranti nel piano di crisi aziendale.
Aspetti previdenziali.
Per ciò che attiene il calcolo dei contributi previdenziali e la base imponibile di riferimento ( imponibile previdenziale ) corrispondente a ciascun socio lavoratore, nel caso di adozione del piano di crisi aziendale, occorre far riferimento ai seguenti principi
Doveroso rispetto della normativa vigente in materia di contribuzione previdenziale con opportuno riferimento alla Legge 3 Aprile 2001, n. 142, art. 4.
Poiché l’articolo 4, intitolato delle “Disposizioni in materia previdenziale”, al comma 1, sancisce che “Ai fini della contribuzione previdenziale ed assicurativa si fa riferimento alle normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporti di lavoro adottabili dal regolamento delle società cooperative nei limiti di quanto previsto dall'articolo 6”. Ed in effetti nell’articolo citato viene sancito, nelle varie lettere, che il regolamento interno della società cooperativa deve sempre e comunque contenere
il richiamo ai contratti collettivi nazionali di lavoro applicabili, per i soci che svolgono attività lavorativa subordinata;
le modalità di svolgimento delle attività lavorative dei soci tenendo conto dell’organizzazione aziendale e dei rispettivi profili professionali;
la disciplina di rapporti di lavoro diversi da quelli subordinati, l’espresso richiamo alle leggi di settore, se vi sono tali tipologie di rapporti lavorativi;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’assemblea dei soci, un piano di crisi aziendale salvaguardando l’occupazione dei lavoratori;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’organo assembleare, forme di apporto anche economiche in proporzione alle capacità dei soci, al fine di porre una soluzione alla crisi della società.
La retribuzione da assumere come imponibile previdenziale non può essere inferiore ai limiti sanciti dalle leggi, dai contratti collettivi, regolamenti ed accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Tale principio è sancito dal Decreto Legge 9 Ottobre 1989 n. 338, convertito con la Legge n. 389 del del 7 Dicembre 1989, avente ad oggetto la “Sicurezza Sociale ( assicurazioni obbligatorie ) Industria, Commercio, Artigianato ( Generalità ) Mezzogiorno, il quale all’art. 1, denominato “Retribuzione imponibile, accreditamento della contribuzione settimanale e limite minimo di retribuzione imponibile”, comma 1, è sancito che “ La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Inoltre al comma 2, è sancito che “Con effetto dal 1° gennaio 1989 la percentuale di cui all'art. 7, comma 1, primo periodo, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, è elevata a 40. A decorrere dal periodo di paga in corso alla data del 1° gennaio 1989, la percentuale di cui al secondo periodo del predetto comma è fissata a 9,50”.
Riferimento alla determinazione annuale del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri parametri ai fini del calcolo delle contribuzioni previdenziali e di assistenza sociale, emanati con apposita circolare dall’INPS.
Tale principio è contenuto, ad esempio per l’anno corrente, nella Circolare INPS, n. 14 del 2 Febbraio 2009, avente ad oggetto la “Determinazione per l’anno 2009 del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri valori per il calcolo di tutte le contribuzioni dovute in materia di previdenza ed assistenza sociale”, e che il Ministero del Lavoro richiama nell’istanza di interpello in questione; il punto 3, della circolare, disciplina la retribuzione imponibile dei lavoratori delle cooperative sociali, avvalorando il principio che un minimale contributivo giornaliero va sempre rispettato benché la retribuzione effettiva del lavoratore sia inferiore.
Considerazioni Finali.
In definitiva, per il caso di adozione di piani di crisi aziendali, da parte di società cooperative di lavoro, e per tutta la durata degli stessi, pur potendosi operare delle riduzioni delle retribuzioni ai lavoratori, ai fini, invece, dei calcoli contributivi si potrà tenere conto delle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori nel rispetto, però, del minimale contributivo giornaliero sancito dal Decreto Legge n. 338/89 e dalla normativa INPS.
fonte overlex.com
DIRITTO SOCIETARIO
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Innanzitutto, appare lapalissiano sostenere che, affinché una società cooperativa di lavoro possa procedere all’adozione di un piano di crisi aziendale sono necessari due elementi:
previsione della possibilità di adottare piani di crisi aziendale nel regolamento interno della società cooperativa di lavoro, regolarmente approvato e depositato presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio;
delibera, da parte dell’assemblea dei soci, di adozione del piano di crisi aziendale.
Il tutto ai sensi della lettera d), comma 1, dell’art. 6 della Legge del 3 Aprile 2001, n. 142, intitolata della “Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento al socio lavoratore” ( pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 Aprile 2001 ).
In effetti, l’articolo 6, intitolato del “Regolamento interno”, al comma 1 sancisce che “Entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le cooperative di cui all'articolo 1 definiscono un regolamento, approvato dall'assemblea, sulla tipologia dei rapporti che si intendono attuare, in forma alternativa, con i soci lavoratori. Il regolamento deve essere depositato entro trenta giorni dall'approvazione presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio…”.
Tra le varie lettere, volte a determinare i contenuti del suddetto regolamento, vi è la d), nella quale è sancito che è prevista “l'attribuzione all'assemblea della facoltà di deliberare, all'occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e siano altresí previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lettera b), dell'articolo 3; il divieto, per l'intera durata del piano, di distribuzione di eventuali utili…”.
La quantificazione dell’obbligazione contributiva del caso di piani di crisi aziendali adottati dalle cooperative di lavoro.
Premessa
Con istanza di interpello n. 48 del 2009 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione Generale per l’Attività Ispettiva, previo parere della Direzione Generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, viene chiarito che nel caso di piano di crisi aziendale, e per tutta la durata dello stesso, adottato da una società cooperativa di lavoro, “l’obbligazione contributiva andrà quantificata sulla base di un imponibile corrispondente alle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori, nel rispetto tuttavia del minimale contributivo giornaliero di cui all’art. 1, comma 2, del medesimo D.L. n. 338/1989”.
Profili normativi.
Tra le conseguenze poste a carico dei soci lavoratori, a seguito di una crisi aziendale, vi è certamente una riduzione del trattamento economico, ma non è detto che la stessa riduzione sia da considerarsi ai fini degli adempimenti contributivi, e più precipuamente degli imponibili previdenziali da considerare ai fini del calcolo e poi versamento dei contributi previdenziali dei soci lavoratori rientranti nel piano di crisi aziendale.
Aspetti previdenziali.
Per ciò che attiene il calcolo dei contributi previdenziali e la base imponibile di riferimento ( imponibile previdenziale ) corrispondente a ciascun socio lavoratore, nel caso di adozione del piano di crisi aziendale, occorre far riferimento ai seguenti principi
Doveroso rispetto della normativa vigente in materia di contribuzione previdenziale con opportuno riferimento alla Legge 3 Aprile 2001, n. 142, art. 4.
Poiché l’articolo 4, intitolato delle “Disposizioni in materia previdenziale”, al comma 1, sancisce che “Ai fini della contribuzione previdenziale ed assicurativa si fa riferimento alle normative vigenti previste per le diverse tipologie di rapporti di lavoro adottabili dal regolamento delle società cooperative nei limiti di quanto previsto dall'articolo 6”. Ed in effetti nell’articolo citato viene sancito, nelle varie lettere, che il regolamento interno della società cooperativa deve sempre e comunque contenere
il richiamo ai contratti collettivi nazionali di lavoro applicabili, per i soci che svolgono attività lavorativa subordinata;
le modalità di svolgimento delle attività lavorative dei soci tenendo conto dell’organizzazione aziendale e dei rispettivi profili professionali;
la disciplina di rapporti di lavoro diversi da quelli subordinati, l’espresso richiamo alle leggi di settore, se vi sono tali tipologie di rapporti lavorativi;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’assemblea dei soci, un piano di crisi aziendale salvaguardando l’occupazione dei lavoratori;
la facoltà di poter deliberare, da parte dell’organo assembleare, forme di apporto anche economiche in proporzione alle capacità dei soci, al fine di porre una soluzione alla crisi della società.
La retribuzione da assumere come imponibile previdenziale non può essere inferiore ai limiti sanciti dalle leggi, dai contratti collettivi, regolamenti ed accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Tale principio è sancito dal Decreto Legge 9 Ottobre 1989 n. 338, convertito con la Legge n. 389 del del 7 Dicembre 1989, avente ad oggetto la “Sicurezza Sociale ( assicurazioni obbligatorie ) Industria, Commercio, Artigianato ( Generalità ) Mezzogiorno, il quale all’art. 1, denominato “Retribuzione imponibile, accreditamento della contribuzione settimanale e limite minimo di retribuzione imponibile”, comma 1, è sancito che “ La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Inoltre al comma 2, è sancito che “Con effetto dal 1° gennaio 1989 la percentuale di cui all'art. 7, comma 1, primo periodo, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, è elevata a 40. A decorrere dal periodo di paga in corso alla data del 1° gennaio 1989, la percentuale di cui al secondo periodo del predetto comma è fissata a 9,50”.
Riferimento alla determinazione annuale del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri parametri ai fini del calcolo delle contribuzioni previdenziali e di assistenza sociale, emanati con apposita circolare dall’INPS.
Tale principio è contenuto, ad esempio per l’anno corrente, nella Circolare INPS, n. 14 del 2 Febbraio 2009, avente ad oggetto la “Determinazione per l’anno 2009 del limite minimo di retribuzione giornaliera ed aggiornamento degli altri valori per il calcolo di tutte le contribuzioni dovute in materia di previdenza ed assistenza sociale”, e che il Ministero del Lavoro richiama nell’istanza di interpello in questione; il punto 3, della circolare, disciplina la retribuzione imponibile dei lavoratori delle cooperative sociali, avvalorando il principio che un minimale contributivo giornaliero va sempre rispettato benché la retribuzione effettiva del lavoratore sia inferiore.
Considerazioni Finali.
In definitiva, per il caso di adozione di piani di crisi aziendali, da parte di società cooperative di lavoro, e per tutta la durata degli stessi, pur potendosi operare delle riduzioni delle retribuzioni ai lavoratori, ai fini, invece, dei calcoli contributivi si potrà tenere conto delle somme effettivamente corrisposte ai lavoratori nel rispetto, però, del minimale contributivo giornaliero sancito dal Decreto Legge n. 338/89 e dalla normativa INPS.
fonte overlex.com
CASSAZIONE: Il socio paga le sanzioni per l'infedele dichiarazione della piccola azienda
All’interno delle società di persone le conseguenze di una dichiarazione dei redditi infedele pesano su tutti i soci. Infatti, paga le sanzioni chi non ha dichiarato tutto il reddito di partecipazione e non “può farsi scudo” sostenendo che la violazione fiscale è stata fatta dall’impresa.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di cassazione che, con la sentenza n. 19456 del 10 settembre 2009, e, contrariamente a quanto aveva chiesto la Procura di Piazza Cavour, ha respinto il ricorso di un contribuente.
fonte cassazione.net
Lo ha stabilito la Suprema Corte di cassazione che, con la sentenza n. 19456 del 10 settembre 2009, e, contrariamente a quanto aveva chiesto la Procura di Piazza Cavour, ha respinto il ricorso di un contribuente.
fonte cassazione.net
NORMATIVA: Il debutto del libro unico esclude familiari e soci
Lavoratori autonomi dello spettacolo, anche se soggetti a contribuzione Enpals. Lavoratori meramente occasionali e collaboratori delle associazioni sportive dilettantistiche, che hanno i requisiti per l'inquadramento dei compensi fra i redditi di natura "diversa". Sono solo alcuni degli «esclusi», soggetti per i quali non vige l'obbligo di registrazione dei dati nel Libro unico del lavoro. Libro unico che entrerà a regime con il periodo di paga di gennaio, in sostituzione dei libri che il datore di lavoro avrebbe dovuto tenere ai sensi della normativa precedente.
Nel Libro sono iscritti tutti i lavoratori impiegati in azienda, con le relative erogazioni in danaro o in natura, corrisposte o gestite dal datore di lavoro. In altri termini il Libro, che va aggiornato entro il giorno 16 del mese successivo a quello di riferimento, è lo strumento di consultazione e verifica di tutto ciò che, inerente ai rapporti di lavoro, avviene in azienda.
I soggetti coinvolti
Nel Libro vanno annotati i dati relativi a:
- lavoratori subordinati, di qualsiasi livello e/o categoria. Rientrano in questa voce anche i lavoratori utilizzati con contratto di somministrazione o in distacco. Quanto ai dati da riportare, vanno indicati esclusivamente nome, cognome, codice fiscale, qualifica, livello di inquadramento contrattuale e agenzia di somministrazione o azienda distaccante. Secondo il Vademecum del 5 dicembre, elaborato dal Ministero, chi utilizza queste forme di lavoro subordinato deve provvedere alla registrazione dei mesi di inizio e di fine dell'impiego. In ogni caso, l'omessa registrazione da parte dell'utilizzatore può essere considerata violazione meramente formale, in quanto non incide sui profili retributivi, contributivi o fiscali del rapporto di lavoro. Il Vademecum precisa che i dati dei lavoratori in somministrazione o distacco devono essere indicati solo con l'effettiva istituzione del Libro unico del lavoro e, quindi, da gennaio 2009;
- collaboratori coordinati e continuativi, con o senza modalità a progetto. Rientrano in questa categoria anche gli amministratori, i consiglieri e i sindaci, salvo che svolgano l'incarico nell'ambito di un'attività professionale, o che l'incarico sia del tutto gratuito. Per questi soggetti non dovranno essere indicati tutti quei dati che sono tipici del lavoro subordinato: non vi saranno i dati delle presenze o delle assenze, anche se il Ministero ritiene che di queste ultime debba essere data notizia nella sezione retributiva del Lul, quando l'assenza origini il diritto a una prestazione da parte dell'Inps o dell'Inail;
- associati in partecipazione con apporto lavorativo, anche se in forma mista capitale e lavoro.
Non devono essere più indicati i dati relativi a coniuge, figli anche naturali o adottivi, altri parenti, affini, affiliati e affidati del datore di lavoro che prestano attività non subordinata in azienda. L'obbligo cade anche per i dati dei soci delle società di ogni tipo, anche di fatto, che prestino opera manuale o sovraintendano al lavoro altrui. Da questo punto di vista, l'Inail ha fornito istruzioni sulle modalità della denuncia nominativa di soci, collaboratori e coadiuvanti – artigiani e non – da parte del datore di lavoro.
Gli altri esclusi
Sono esclusi dalle registrazioni sul Libro unico del lavoro i tirocinanti e gli stagisti, anche se nei loro confronti vanno applicate le disposizioni dell'articolo 50 del Tuir in quanto percettori di redditi assimilati a quello di lavoro subordinato. Non vanno nemmeno indicati gli agenti e rappresentanti che svolgono l'attività in forma di impresa; gli amministratori, sindaci e componenti di collegi e commissioni, i cui compensi rientrino nei redditi di natura professionale; gli associati in partecipazione, che forniscano l'attività in forma imprenditoriale o quale parte della propria attività di impresa o lavoro autonomo.
L'opportunità
Il datore di lavoro può anche affidare a soggetti diversi la tenuta del libro unico in base, per esempio, alle categorie di lavoratori, a condizione che di tale scelta sia data notizia alla competente Direzione provinciale del lavoro, con l'indicazione dei vari soggetti incaricati e dei contenuti di ciascuna sezione.
fonte Il Quotidiano Ipsoa
Nel Libro sono iscritti tutti i lavoratori impiegati in azienda, con le relative erogazioni in danaro o in natura, corrisposte o gestite dal datore di lavoro. In altri termini il Libro, che va aggiornato entro il giorno 16 del mese successivo a quello di riferimento, è lo strumento di consultazione e verifica di tutto ciò che, inerente ai rapporti di lavoro, avviene in azienda.
I soggetti coinvolti
Nel Libro vanno annotati i dati relativi a:
- lavoratori subordinati, di qualsiasi livello e/o categoria. Rientrano in questa voce anche i lavoratori utilizzati con contratto di somministrazione o in distacco. Quanto ai dati da riportare, vanno indicati esclusivamente nome, cognome, codice fiscale, qualifica, livello di inquadramento contrattuale e agenzia di somministrazione o azienda distaccante. Secondo il Vademecum del 5 dicembre, elaborato dal Ministero, chi utilizza queste forme di lavoro subordinato deve provvedere alla registrazione dei mesi di inizio e di fine dell'impiego. In ogni caso, l'omessa registrazione da parte dell'utilizzatore può essere considerata violazione meramente formale, in quanto non incide sui profili retributivi, contributivi o fiscali del rapporto di lavoro. Il Vademecum precisa che i dati dei lavoratori in somministrazione o distacco devono essere indicati solo con l'effettiva istituzione del Libro unico del lavoro e, quindi, da gennaio 2009;
- collaboratori coordinati e continuativi, con o senza modalità a progetto. Rientrano in questa categoria anche gli amministratori, i consiglieri e i sindaci, salvo che svolgano l'incarico nell'ambito di un'attività professionale, o che l'incarico sia del tutto gratuito. Per questi soggetti non dovranno essere indicati tutti quei dati che sono tipici del lavoro subordinato: non vi saranno i dati delle presenze o delle assenze, anche se il Ministero ritiene che di queste ultime debba essere data notizia nella sezione retributiva del Lul, quando l'assenza origini il diritto a una prestazione da parte dell'Inps o dell'Inail;
- associati in partecipazione con apporto lavorativo, anche se in forma mista capitale e lavoro.
Non devono essere più indicati i dati relativi a coniuge, figli anche naturali o adottivi, altri parenti, affini, affiliati e affidati del datore di lavoro che prestano attività non subordinata in azienda. L'obbligo cade anche per i dati dei soci delle società di ogni tipo, anche di fatto, che prestino opera manuale o sovraintendano al lavoro altrui. Da questo punto di vista, l'Inail ha fornito istruzioni sulle modalità della denuncia nominativa di soci, collaboratori e coadiuvanti – artigiani e non – da parte del datore di lavoro.
Gli altri esclusi
Sono esclusi dalle registrazioni sul Libro unico del lavoro i tirocinanti e gli stagisti, anche se nei loro confronti vanno applicate le disposizioni dell'articolo 50 del Tuir in quanto percettori di redditi assimilati a quello di lavoro subordinato. Non vanno nemmeno indicati gli agenti e rappresentanti che svolgono l'attività in forma di impresa; gli amministratori, sindaci e componenti di collegi e commissioni, i cui compensi rientrino nei redditi di natura professionale; gli associati in partecipazione, che forniscano l'attività in forma imprenditoriale o quale parte della propria attività di impresa o lavoro autonomo.
L'opportunità
Il datore di lavoro può anche affidare a soggetti diversi la tenuta del libro unico in base, per esempio, alle categorie di lavoratori, a condizione che di tale scelta sia data notizia alla competente Direzione provinciale del lavoro, con l'indicazione dei vari soggetti incaricati e dei contenuti di ciascuna sezione.
fonte Il Quotidiano Ipsoa
CASSAZIONE: Perde il posto senza preavviso chi fa concorrenza sleale all’azienda
Corte di cassazione che, con la sentenza n. 18169 del 10 agosto 2009
L’azienda può licenziare in tronco il dipendente che gli fa concorrenza sleale. Non è neppure necessario aver incluso questa violazione nel codice disciplinare appeso alle pareti dell’ufficio.
La linea dura arriva dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 18169 del 10 agosto 2009, ha confermato il licenziamento di un dipendente di una nota azienda italiana che aveva svelato i segreti di alcune confezioni per alimenti a un concorrente.
fonte cassazionenet
L’azienda può licenziare in tronco il dipendente che gli fa concorrenza sleale. Non è neppure necessario aver incluso questa violazione nel codice disciplinare appeso alle pareti dell’ufficio.
La linea dura arriva dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 18169 del 10 agosto 2009, ha confermato il licenziamento di un dipendente di una nota azienda italiana che aveva svelato i segreti di alcune confezioni per alimenti a un concorrente.
fonte cassazionenet
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