Cassazione penale , sez. VI, sentenza 23.09.2010 n° 34336
Non può essere sollevato dall’obbligo del mantenimento il genitore non affidatario che contrae un mutuo per l’acquisto di una casa pur godendo di uno stipendio modesto, in quando ciò fa presumere redditi in nero.
Così i giudici della Suprema Corte hanno deciso con la pronuncia 23 settembre 2010, n. 34336 con cui la Corte ha, appunto, confermato la condanna penale nei confronti di un uomo accusato di non aver provveduto al mantenimento della ex e dei figli.
L’uomo aveva basato la propria difesa puntando sul fatto che l’acquisto di un immobile non indica necessariamente una fonte di reddito in nero, sottolineando, altresì, che pur non versando regolarmente l’assegno di mantenimento come stabilito nella separazione, aveva sempre versato alla moglie del denaro in contanti.
Le giustificazioni addotte dall’uomo non avevano, però, convinto i giudici, che, infatti l’avevano condannato sia in primo che in secondo grado.
La questione, quindi, si spostava dinanzi l’attenzione della Corte di Cassazione, dove, però, il risultato non cambiava; in quanto i giudici della sesta sezione penale, confermando le decisioni dei colleghi, sottolineavano, altresì, che “la capacità economica dell’obbligato che, all’epoca dei fatti, svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva inoltre contratto un mutuo per l’acquisto di un immobile, circostanza questa sintomatica di tale capacità, poteva verosimilmente provenire anche da altre fonti di reddito in nero”.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 9 aprile - 23 settembre 2010, n. 34336
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1 - Il Tribunale di Firenze, con sentenza 23/5/2007, dichiarava B.A. colpevole del reato di cui all'art. 570 c.p., comma 1 - 2, n. 2 - per essere venuto meno ai suoi obblighi di assistenza morale verso i figli minori F. e A. e per avere fatto mancare a costoro e alla moglie separata, S.A., i mezzi di sussistenza dal **** - e lo condannava alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 900,00 di multa, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
2 - A seguito di gravame dell'imputato, la Corte d'Appello di Firenze, con sentenza 23/6/2009, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, concedeva all'imputato i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione.
Riteneva il Giudice distrettuale che la prova a carico dell'imputato era integrata dalle precise e attendibili testimonianze della S. e dei suoi parenti (S.E., S. P. e R.S.), non smentite da quelle a discarico:
nel lungo periodo oggetto di contestazione, il B. non aveva assicurato alla moglie separata e ai figli minori a questa affidati i mezzi economici necessari per fronteggiare le primarie esigenze di vita, essendosi limitato solo a sporadici versamenti di somme modeste di denaro, tanto che la moglie aveva dovuto fare ricorso all'aiuto dei propri genitori; non erano emersi elementi per dubitare della capacità reddituale dell'obbligato, che, pur godendo formalmente di uno stipendio mensile d'importo contenuto, certamente aveva potuto fare affidamento su altre fonti di reddito in nero, tanto da avere contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l'imputato, deducendo la violazione della legge penale, con riferimento all'art. 570 c.p., la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione sotto più aspetti: a) non erano state trattate le tematiche relative allo stato di bisogno degli aventi diritto e alla capacità di adempiere dell'obbligato; b) contraddittoriamente, per un verso, si era affermato che l'imputato certamente aveva versato periodicamente, in adempimento del proprio obbligo, denaro contante alla moglie e, per altro verso, si era allegata attendibilità al racconto di costei; c) si era ritenuto, in modo del tutto congetturale, che l'imputato disponeva, al di là del modesto stipendio, anche di altre fonti di reddito; d) in ogni caso, anche a volere ritenere il mancato versamento dell'assegno mensile nella misura fissata in sede di separazione dei coniugi, ciò non integrava automaticamente il reato di cui all'art. 570 c.p., ma un mero inadempimento civile.
4 - La difesa della parte civile ha depositato in data 7/4/2010 memoria con la quale ha sollecitato l'inammissibilità o il rigetto del ricorso.
5 – il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.
La sentenza impugnata, che si integra con quella di primo grado, fa buon governo della legge penale, riposa su un apparato argomentativo che da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene e resiste alle censure mossele.
Preliminarmente, devesi rilevare che il ricorrente non censura la sentenza di merito nella parte in cui gli addebita la violazione degli obblighi di assistenza familiare anche sotto il profilo del totale disinteresse per la salute e per l'educazione dei figli, con i quali non aveva avuto alcun rapporto significativo per lunghi periodi di tempo, durante i quali si era reso irreperibile.
Le doglianze del ricorrente hanno ad oggetto soltanto l'addebito di avere fatto mancare alla moglie separata e ai figli minori i necessari mezzi di sussistenza.
Tale ipotesi di reato, prevista dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2 pacificamene si realizza solo nel caso in cui sussistano, da una parte, lo stato di bisogno degli aventi diritto a un adeguato contributo economico per soddisfare le primarie esigenze di vita e, dall'altra, la concreta capacità economica dell'obbligato a versare tale contributo. Quanto al primo presupposto, la Corte territoriale ne accerta implicitamente la sussistenza, evidenziando in punto di fatto, sulla base delle emergenze istruttorie acquisite, che S.A. era stata costretta a fare ricorso all'aiuto economico dei propri genitori, per fronteggiare le primarie esigenze di vita del nucleo familiare affidato alla sua responsabilità, al di là della considerazione che lo stato di bisogno dei figli minori, in quanto privi di capacità lavorativa o di una qualche rendita di posizione, non è oggettivamente contestabile. L'intervento surrogatorio di terzi non esclude lo stato di bisogno degli aventi diritto ai mezzi di sussistenza e, quindi, la configurabilità del reato in esame, a nulla rilevando l'eventuale convincimento contrario del soggetto inadempiente di non essere tenuto, in tale situazione, all'assolvimento del suo primario dovere, traducendosi lo stesso convincimento in errore sulla legge penale, non determinato da ignoranza scusabile (art. 5 c.p.) di una norma, che corrisponde - tra l'altro - ad un'esigenza morale universalmente avvertita.
Anche il secondo presupposto è ritenuto sussistente dalla Corte di merito, che, con motivazione immune da vizi logici, sottolinea la capacità economica dell'obbligato, che - all'epoca dei fatti - svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva, inoltre, contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile, circostanza quest'ultima sintomatica di tale capacita, riveniente verosimilmente anche da altre fonti di reddito in nero.
Il percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata, nella sua lucida articolazione, non evidenzia, come si sostiene in ricorso, passaggi di manifesta illogicità: i giudici di merito sostanzialmente, pur dando atto che l'imputato aveva effettuato alcuni versamenti di denaro in favore della moglie, peraltro da costei mai contestati, ritengono tali versamenti assolutamente inidonei, per la loro sporadicità e per la loro modesta entità, ad assicurare agli aventi diritto i mezzi di sussistenza, conclusione questa che da ragione, altresì, della infondatezza della tesi, pure prospettata dal ricorrente, del mero inadempimento di natura civile.
6 - Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione in favore della parte civile, S.A., delle spese sostenute in questo grado e liquidate nella misura in dispositivo indicata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a rifondere alla parte civile S.A. le spese del grado, che liquida in Euro 2.500,00 oltre spese generali, iva e cpa.
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Trasferimento di residenza di un coniuge nell’ipotesi di affido condiviso
È pacifico nella giurisprudenza di merito e di legittimità l’orientamento in base al quale il genitore affidatario (o collocatario) della prole non può arbitrariamente trasferire la propria residenza senza l’accordo dell’altro genitore o l’autorizzazione del Giudice, il quale, previamente, dovrà valutare l’eventuale pregiudizio che ne discenda per il minore.
La scelta della residenza del minore deve essere assunta di comune accordo dai genitori: in caso di disaccordo, ciascun genitore dovrà rivolgersi al Giudice per ottenere un nuovo assetto delle modalità dell’affidamento, in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 155, terzo comma, e 155-quater, secondo comma, c.c.
Il genitore che, al contrario, senza autorizzazione da parte del Giudice né avendo ottenuto il previo consenso dell’altro genitore, trasferisca la residenza del figlio minore in un’altra regione viola i principi basilari dell’affido condiviso - che impone ai genitori di assumere congiuntamente le decisioni fondamentali relative alla prole minorenne - dimostrando un comportamento irresponsabile e incompatibile con il ruolo di collocatario della prole.
Da tale contegno deriva una grave inadempienza sanzionabile da parte del Giudice ex art. 709-ter c.p.c. anche con la possibile inversione dell’affidamento e/o collocamento della prole.
Difatti, nell’ambito dei criteri di scelta da parte del Giudice del genitore collocatario della prole, un posto fondamentale deve essere attribuito alla capacità del genitore di mettere da parte le rivendicazioni nei confronti dell’altro e di conservarne l’immagine positiva agli occhi del minore, garantendo a quest’ultimo un rapporto equilibrato e continuativo con l’altra figura genitoriale e con l’altro ramo parentale.
«E’ notorio che dovere primario di un buon genitore affidatario e/o collocatario è quello di non allontanare il figlio dall’altra figura genitoriale: quali che siano state le ragioni del fallimento del matrimonio, ogni genitore responsabile, consapevole dell’insostituibile importanza della presenza dell’altro genitore nella vita del figlio, deve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l’immagine positiva agli occhi e nel cuore del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni del coniuge con la prole minorenne. L’attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato non a parole, ma in termini concreti» - Tribunale di Bari, sezione I, decreto 10 marzo 2009.
Nello stesso senso si richiama veda Cass. 10 ottobre 2008, n. 24907, inedita, in motiv., secondo cui: «tra i requisiti di idoneità genitoriale richiesti ad un genitore affidatario sia decisamente rilevante la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive di un figlio, che si individuano, in prima istanza, nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento, nella sua mente, della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sul coniuge».
fonte Giuristi & Diritto
La scelta della residenza del minore deve essere assunta di comune accordo dai genitori: in caso di disaccordo, ciascun genitore dovrà rivolgersi al Giudice per ottenere un nuovo assetto delle modalità dell’affidamento, in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 155, terzo comma, e 155-quater, secondo comma, c.c.
Il genitore che, al contrario, senza autorizzazione da parte del Giudice né avendo ottenuto il previo consenso dell’altro genitore, trasferisca la residenza del figlio minore in un’altra regione viola i principi basilari dell’affido condiviso - che impone ai genitori di assumere congiuntamente le decisioni fondamentali relative alla prole minorenne - dimostrando un comportamento irresponsabile e incompatibile con il ruolo di collocatario della prole.
Da tale contegno deriva una grave inadempienza sanzionabile da parte del Giudice ex art. 709-ter c.p.c. anche con la possibile inversione dell’affidamento e/o collocamento della prole.
Difatti, nell’ambito dei criteri di scelta da parte del Giudice del genitore collocatario della prole, un posto fondamentale deve essere attribuito alla capacità del genitore di mettere da parte le rivendicazioni nei confronti dell’altro e di conservarne l’immagine positiva agli occhi del minore, garantendo a quest’ultimo un rapporto equilibrato e continuativo con l’altra figura genitoriale e con l’altro ramo parentale.
«E’ notorio che dovere primario di un buon genitore affidatario e/o collocatario è quello di non allontanare il figlio dall’altra figura genitoriale: quali che siano state le ragioni del fallimento del matrimonio, ogni genitore responsabile, consapevole dell’insostituibile importanza della presenza dell’altro genitore nella vita del figlio, deve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l’immagine positiva agli occhi e nel cuore del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni del coniuge con la prole minorenne. L’attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato non a parole, ma in termini concreti» - Tribunale di Bari, sezione I, decreto 10 marzo 2009.
Nello stesso senso si richiama veda Cass. 10 ottobre 2008, n. 24907, inedita, in motiv., secondo cui: «tra i requisiti di idoneità genitoriale richiesti ad un genitore affidatario sia decisamente rilevante la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive di un figlio, che si individuano, in prima istanza, nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento, nella sua mente, della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sul coniuge».
fonte Giuristi & Diritto
Cassazione: multa a mama e papa' se fanno mancare l'affetto
Il disinteresse morale per i figli va sanzionato al pari del mancato pagamento degli alimenti. Lo stabilisce una sentenza della Corte di Cassazione secondo cui chi fa mancare l'affetto alla prole commette il reato previsto e punito dall'art. 570 c.p. che punisce la violazione degli obblighi di assistenza familiare. La decisione è della Sesta sezione penale della Corte che ha convalidato una condanna al pagamento di una multa di cento euro e a 20 giorni di reclusione, nei confronti di un padre separato che aveva tenuto "una condotta contraria alla morale delle famiglie" disinteressandosi di loro. L'uomo, già condannato dai giudici di merito si era difeso sostenendo che illegittimamente i magistrati avevano deciso di sanzionare il "semplice disinteresse di esclusiva natura sociale o morale verso il nucleo di origine", ritenendo invece insussistente l'omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza (di cui era accusato) poiche' "nel breve periodo della contestazione la madre affidataria delle bambine aveva provveduto con i proventi del proprio lavoro ai bisogni primari". La Corte ha respinto il ricorso facendo notare che "la contestazione mossa all'imputato e' stata articolata in rapporto alla duplice tipizzazione delle condotte criminose sanzionate dall'art. 570 c.p." in maniera del tutto legittima vista "l'attuazione di una condotta contraria alla morale e all'ordine della famiglia" consistita nel fare mancare l'affetto necessario alle figlie, "sia omissiva degli oneri contributivi finanziari determinati dal giudice civile".
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9109.asp
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9109.asp
Cassazione: multa al genitore che fa mancare l'affetto ai figli
Multa al genitore che fa mancare l'affetto ai figli. Lo sancisce la Cassazione secondo la quale il "disinteresse morale" manifestato dal genitore separato nei confronti della prole va sanzionato in base all'art. 570 c.p. che punisce la violazione degli obblighi di assistenza familiare. In questo modo, la Sesta sezione penale ha convalidato una multa di cento euro, oltre a 20 giorni di reclusione, nei confronti di un papa' residente in provincia di Genova, R.R., accusato di avere fatto mancare gli alimenti alle due figlie minorenni, cosi' come stabilito dal giudice civile in sede di separazione e di avere tenuto "una condotta contraria alla morale delle famiglie, disinteressandosi affettivamente" dei figli.
R. R. era gia' stato condannato con sentenza irrevocabile dal Tribunale di Acqui Terme a 500 euro di multa e a due mesi di liberta' controllata. Inutilmente l'uomo ha tentato di alleggerire la propria posizione, sostenendo che illegittimamente i giudici hanno ritenuto di sanzionare il "semplice disinteresse di esclusiva natura sociale o morale verso il nucleo di origine", ritenendo invece insussistente l'omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza poiche' "nel breve periodo della contestazione la madre affidataria delle bambine aveva provveduto con i proventi del proprio lavoro ai bisogni primari".
Piazza Cavour ha respinto la tesi difensiva e ha rilevato che "la contestazione mossa all'imputato e' stata articolata in rapporto alla duplice tipizzazione delle condotte criminose sanzionate dall'art. 570 c.p." in maniera del tutto legittima vista "l'attuazione di una condotta contraria alla morale e all'ordine della famiglia" consistita nel fare mancare l'affetto necessario alle figlie, "sia omissiva degli oneri contributivi finanziari determinati dal giudice civile".
http://www.libero-news.it/regioneespanso.jsp?id=506760
R. R. era gia' stato condannato con sentenza irrevocabile dal Tribunale di Acqui Terme a 500 euro di multa e a due mesi di liberta' controllata. Inutilmente l'uomo ha tentato di alleggerire la propria posizione, sostenendo che illegittimamente i giudici hanno ritenuto di sanzionare il "semplice disinteresse di esclusiva natura sociale o morale verso il nucleo di origine", ritenendo invece insussistente l'omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza poiche' "nel breve periodo della contestazione la madre affidataria delle bambine aveva provveduto con i proventi del proprio lavoro ai bisogni primari".
Piazza Cavour ha respinto la tesi difensiva e ha rilevato che "la contestazione mossa all'imputato e' stata articolata in rapporto alla duplice tipizzazione delle condotte criminose sanzionate dall'art. 570 c.p." in maniera del tutto legittima vista "l'attuazione di una condotta contraria alla morale e all'ordine della famiglia" consistita nel fare mancare l'affetto necessario alle figlie, "sia omissiva degli oneri contributivi finanziari determinati dal giudice civile".
http://www.libero-news.it/regioneespanso.jsp?id=506760
Cassazione: carcere a chi indottrina i figli al furto
Giro di vite della Cassazione contro chi educa i figli al furto. Secondo Piazza Cavour inaccettabile che un genitore tratti i figli "alla stregua di cose", "indottrinanandoli" per commettere furti nelle abitazioni. Così la Corte ha confermato un provvedimento di custodia cautelare nei confronti di un rom che aveva venduto la figlia per 200 mila euro ad un altro nucleo rom indottrinandola su come compiere furti nelle abitazioni. Per difendersi dall'accusa di riduzione in schiavitu' il l'uomo di è difeso spiegando che i soldi ricevuti non erano frutto di una "compravendita" della ragazza ma una semplice "dote". La Corte (Quinta sezione penale) respingendo il ricorso ha fatto notare che già il Tribunale "con ragionamento immune da manifesta illogicita', ha spiegato che la minore era utilizzata dai genitori e principalmente dal padre per commettere furti in abitazione, tanto e' vero che la ragazza venne arrestata proprio in occasione di uno di tali furti". Nella sentenza si legge che "dalle intercettazioni si appuro' che il ricorrente e la moglie si premuravano di indottrinare la ragazza, affinche' non dicesse ad altri di essere stata venduta e non raccontasse alla polizia la sua vicenda nel caso fosse stata arrestata in occasione di un furto". In sostanza "la ragazza era stata ridotta in stato di schiavitu' dal padre, che aveva abusato dell'autorita' genitoriale, perche' si trovava in stato di soggezione e veniva costretta a rubare per portare a casa giornalmente e obbligatoriamente la refurtiva".
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9098.asp
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Cassazione: mantenimento per il figlio maggiorenne purché dimostri di essere privo dei mezzi di sussistenza
Lo precisa la sentenza 16612/10, emessa dalla prima sezione civile della Cassazione che conferma un orientamento ormai uniforme e consolidato in tema di obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli, anche maggiorenni, senza alcuna distinzione tra figli, legittimi e naturali.
Tuttavia, il figlio che raggiunge la maggiore età, deve comunque dimostrare di essere privo incolpevolmente dei mezzi di sussistenza.
Di conseguenza, recita la sentenza, "quando agisce per il riconoscimento del diritto al mantenimento, il figlio maggiorenne deve allegare una condizione legittimante, cui riferire l'onere del genitore di provarne l'inesistenza".
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Lecce, nel ribadire che P.B. è figlia naturale di V.C., ha tuttavia rigettato, in riforma della decisione di primo grado, la domanda proposta dalla stessa P.B. per il riconoscimento di un assegno di mantenimento a carico del padre.
Hanno ritenuto i giudici del merito:
a) l'acquiescenza prestata da V.C. rispetto al capo della sentenza di primo grado dichiarativo della sua paternità naturale non gli precludeva l'impugnazione del capo relativo al riconoscimento alla figlia di un assegno di mantenimento;
b) pur essendo certamente tenuti i genitori al mantenimento anche dei figli maggiorenni incolpevolmente privi di un proprio reddito, ciò nondimeno nel caso in esame l'attrice trentaquattrenne non aveva neppure allegato di trovarsi in una situazione di difetto di indipendenza economica, mentre risultava al contrario un suo rapporto di lavoro come segretaria nello studio di un commercialista.
Contro questa sentenza ricorre ora per cassazione P.B. e propone due motivi d'impugnazione, cui resiste con controricorso V.C., che ha depositato anche memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell'art. 329 c.p.c., sostenendo che l'acquiescenza prestata al capo della decisione relativo alla dichiarazione giudiziale della paternità precludeva l'impugnazione anche del capo relativo al riconoscimento dell'assegno di mantenimento, in quanto l'obbligo di mantenimento dei figli è imposto dalla legge ai genitori.
Il motivo è manifestamente infondato.
Come hanno chiarito già i giudici del merito, infatti, l'acquiescenza sulla dichiarazione giudiziale della paternità non preclude l'impugnazione relativa al riconoscimento alla figlia di un assegno di mantenimento, perchè, come la stessa ricorrente ammette, non necessariamente chi sia dichiarato genitore è tenuto anche al mantenimento del figlio maggiorenne. Sicchè l'impugnazione della decisione di riconoscimento dell'assegno di mantenimento non è incompatibile con l'acquiescenza alla decisione di dichiarazione giudiziale della paternità. 2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., artt. 147 e 148 c.c., art. 155 c.c., comma 4, L. n. 898 del 1970, art. 6, vizi di motivazione della decisione impugnata.
Sostiene innanzitutto che l'appello di V.C. era comunque inammissibile: sia perchè proponeva eccezioni nuove, con riferimento alla dedotta maggiore età e indipendenza economica dell'attrice; sia perchè proponeva nuove richieste istruttorie, relative anche a prove documentali, certamente già proponibili in primo grado.
Aggiunge poi che, essendo l'obbligo di mantenimento consequenziale all'accertamento della paternità, incombe al genitore eccepire e dimostrare l'indipendenza economica del figlio maggiorenne.
Il motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa corte, in realtà, la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell'art. 277 c.c., e, quindi, a norma dell'art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex artt. 147 e 148 c.c. (Cass., sez. 1°, 16 luglio 2005, n. 15100).
D'altro canto, come la ricorrente ricorda, l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell'art. 148 c.c., non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finchè il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione (Cass., sez. 1°, 3 aprile 2002, n. 4765, Cass., sez. 1°, 24 novembre 2004, n. 22214, Cass., sez. 1°, 11 luglio 2006, n. 15756).
Fatto costitutivo del diritto del figlio al mantenimento da parte dei genitori non è tuttavia il solo rapporto di filiazione, ma anche la mancanza di indipendenza economica. Infatti l'art. 147 c.c., impone ai genitori "l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli". E l'elemento della capacità è certamente riferibile anche alla situazione economica del figlio.
La mancanza di indipendenza economica, benchè possa di regola presumersi, con la conseguenza che incomba sul genitore l'obbligo di provare l'autonomia economica del figlio, non è dunque una fattispecie impeditiva del diritto del figlio al mantenimento, ma è elemento della fattispecie costitutiva di tale diritto.
Deve essere pertanto allegata da chi postuli il diritto al mantenimento.
E se questa allegazione può essere ritenuta implicita nella domanda del figlio minorenne, deve invece essere esplicitata nella domanda del figlio maggiorenne.
Ne consegue che, quando agisce per il riconoscimento del diritto al mantenimento, il figlio maggiorenne deve allegare una condizione legittimante, cui riferire l'onere del genitore di provarne l'inesistenza.
Correttamente pertanto nel caso in esame i giudici d'appello hanno rilevato la mancata allegazione di un fatto costitutivo del diritto dedotto in giudizio dall'attrice; e ne hanno a ragione rigettato la domanda.
Non vi fu infatti ammissione di una nuova eccezione di V. C., ma fu solo rilevata la mancata allegazione di un elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio dall'attrice; nè risultò determinante ai fini della decisione la documentazione relativa all'impiego di P.B..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del resistente, liquidandole in complessivi Euro 1.200,00 di cui Euro 1.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.
http://www.avvocatoandreani.it/news-giuridiche/notizia.php?cassazione-mantenimento-per-il-figlio-maggiorenne-purche-dimostri-di-essere-privo-dei-mezzi-di-sussistenza
Tuttavia, il figlio che raggiunge la maggiore età, deve comunque dimostrare di essere privo incolpevolmente dei mezzi di sussistenza.
Di conseguenza, recita la sentenza, "quando agisce per il riconoscimento del diritto al mantenimento, il figlio maggiorenne deve allegare una condizione legittimante, cui riferire l'onere del genitore di provarne l'inesistenza".
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Lecce, nel ribadire che P.B. è figlia naturale di V.C., ha tuttavia rigettato, in riforma della decisione di primo grado, la domanda proposta dalla stessa P.B. per il riconoscimento di un assegno di mantenimento a carico del padre.
Hanno ritenuto i giudici del merito:
a) l'acquiescenza prestata da V.C. rispetto al capo della sentenza di primo grado dichiarativo della sua paternità naturale non gli precludeva l'impugnazione del capo relativo al riconoscimento alla figlia di un assegno di mantenimento;
b) pur essendo certamente tenuti i genitori al mantenimento anche dei figli maggiorenni incolpevolmente privi di un proprio reddito, ciò nondimeno nel caso in esame l'attrice trentaquattrenne non aveva neppure allegato di trovarsi in una situazione di difetto di indipendenza economica, mentre risultava al contrario un suo rapporto di lavoro come segretaria nello studio di un commercialista.
Contro questa sentenza ricorre ora per cassazione P.B. e propone due motivi d'impugnazione, cui resiste con controricorso V.C., che ha depositato anche memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell'art. 329 c.p.c., sostenendo che l'acquiescenza prestata al capo della decisione relativo alla dichiarazione giudiziale della paternità precludeva l'impugnazione anche del capo relativo al riconoscimento dell'assegno di mantenimento, in quanto l'obbligo di mantenimento dei figli è imposto dalla legge ai genitori.
Il motivo è manifestamente infondato.
Come hanno chiarito già i giudici del merito, infatti, l'acquiescenza sulla dichiarazione giudiziale della paternità non preclude l'impugnazione relativa al riconoscimento alla figlia di un assegno di mantenimento, perchè, come la stessa ricorrente ammette, non necessariamente chi sia dichiarato genitore è tenuto anche al mantenimento del figlio maggiorenne. Sicchè l'impugnazione della decisione di riconoscimento dell'assegno di mantenimento non è incompatibile con l'acquiescenza alla decisione di dichiarazione giudiziale della paternità. 2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., artt. 147 e 148 c.c., art. 155 c.c., comma 4, L. n. 898 del 1970, art. 6, vizi di motivazione della decisione impugnata.
Sostiene innanzitutto che l'appello di V.C. era comunque inammissibile: sia perchè proponeva eccezioni nuove, con riferimento alla dedotta maggiore età e indipendenza economica dell'attrice; sia perchè proponeva nuove richieste istruttorie, relative anche a prove documentali, certamente già proponibili in primo grado.
Aggiunge poi che, essendo l'obbligo di mantenimento consequenziale all'accertamento della paternità, incombe al genitore eccepire e dimostrare l'indipendenza economica del figlio maggiorenne.
Il motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa corte, in realtà, la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell'art. 277 c.c., e, quindi, a norma dell'art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex artt. 147 e 148 c.c. (Cass., sez. 1°, 16 luglio 2005, n. 15100).
D'altro canto, come la ricorrente ricorda, l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell'art. 148 c.c., non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finchè il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione (Cass., sez. 1°, 3 aprile 2002, n. 4765, Cass., sez. 1°, 24 novembre 2004, n. 22214, Cass., sez. 1°, 11 luglio 2006, n. 15756).
Fatto costitutivo del diritto del figlio al mantenimento da parte dei genitori non è tuttavia il solo rapporto di filiazione, ma anche la mancanza di indipendenza economica. Infatti l'art. 147 c.c., impone ai genitori "l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli". E l'elemento della capacità è certamente riferibile anche alla situazione economica del figlio.
La mancanza di indipendenza economica, benchè possa di regola presumersi, con la conseguenza che incomba sul genitore l'obbligo di provare l'autonomia economica del figlio, non è dunque una fattispecie impeditiva del diritto del figlio al mantenimento, ma è elemento della fattispecie costitutiva di tale diritto.
Deve essere pertanto allegata da chi postuli il diritto al mantenimento.
E se questa allegazione può essere ritenuta implicita nella domanda del figlio minorenne, deve invece essere esplicitata nella domanda del figlio maggiorenne.
Ne consegue che, quando agisce per il riconoscimento del diritto al mantenimento, il figlio maggiorenne deve allegare una condizione legittimante, cui riferire l'onere del genitore di provarne l'inesistenza.
Correttamente pertanto nel caso in esame i giudici d'appello hanno rilevato la mancata allegazione di un fatto costitutivo del diritto dedotto in giudizio dall'attrice; e ne hanno a ragione rigettato la domanda.
Non vi fu infatti ammissione di una nuova eccezione di V. C., ma fu solo rilevata la mancata allegazione di un elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio dall'attrice; nè risultò determinante ai fini della decisione la documentazione relativa all'impiego di P.B..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del resistente, liquidandole in complessivi Euro 1.200,00 di cui Euro 1.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.
http://www.avvocatoandreani.it/news-giuridiche/notizia.php?cassazione-mantenimento-per-il-figlio-maggiorenne-purche-dimostri-di-essere-privo-dei-mezzi-di-sussistenza
Acquisto di beni personali con l'ok dell'altro coniuge
Quando tra i coniugi vige il regime della comunione legale può essere necessario – per escludere che un bene immobile (o mobile registrato) ricada nella comunione – che all'atto di acquisto partecipi non solo il coniuge acquirente, ma anche l'altro coniuge, e cioè colui che non diverrà (com)proprietario del bene. Le norme prevedono espressamente che questo meccanismo possa operare in tre ipotesi: quando venga acquistato un bene strettamente personale, quando si tratti di un bene che serve all'esercizio della professione di uno dei coniugi e quando il bene sia acquistato con il prezzo di beni personali precedentemente alienati o con il loro scambio (in questo caso si ha la cosiddetta «surrogazione reale»).
Solitamente si afferma che la partecipazione all'atto di acquisto del coniuge non acquirente – che partecipa non certo in veste di «parte contrattuale», ma al solo fine di verificare la sussistenza dei presupposti che la legge richiede per la surrogazione, trova una precisa giustificazione soprattutto nell'esigenza di assicurargli una sorta di controllo sui beni di maggiore rilevanza economica che non entrino a far parte della comunione legale.
Proprio a questo proposito si è espressa la Corte di cassazione a sezioni unite, con la sentenza n. 22755 del 2009, per vagliare la possibilità – per il coniuge non acquirente – di impugnare o, comunque, di "ritrattare" in un secondo momento la dichiarazione con la quale, prendendo parte all'atto di acquisto dell'altro coniuge, abbia fatto sì che il bene venisse acquisito in via esclusiva al patrimonio di quest'ultimo.
Per risolvere la questione i giudici di legittimità hanno anzitutto chiarito che la funzione dell'intervento adesivo del coniuge non acquirente è certamente condizione necessaria per provocare l'effetto dell'esclusione del bene acquistato dall'altro coniuge dalla comunione legale, ma non può considerarsi condizione sufficiente per determinare il medesimo effetto.
Ciò comporta che se il bene non è effettivamente personale, l'intervento adesivo del coniuge non acquirente non è sufficiente a determinare l'effetto di esclusione del bene dalla comunione legale. In altre parole, l'articolo 179 del Codice civile stabilisce tassativamente che i beni che possono essere esclusi dalla comunione con questo meccanismo sono solo quelli strettamente personali, quelli destinati all'esercizio della professione e quelli oggetto della cosiddetta surrogazione reale; per questa ragione, se il bene oggetto del l'acquisto non è effettivamente un bene personale, l'intervento adesivo del coniuge non acquirente non può sortire l'effetto di escluderlo dalla comunione legale.
Ciò chiarito, la Suprema corte ha sottolineato che l'intervento adesivo del coniuge non acquirente all'atto di acquisto può assumere alternativamente o natura di dichiarazione ricognitiva a contenuto sostanzialmente confessorio (quando si attesti, in modo più o meno sincero e affidabile, un fatto predicabile di verità o falsità) o natura di manifestazione di intenti, quando si esprima un'intenzione riferita al futuro.
Ecco, allora, che – secondo la Corte di cassazione – bisogna distinguere il caso in cui il coniuge non acquirente attesta un fatto (come, ad esempio, quando riconosca che il corrispettivo dell'acquisto del coniuge acquirente viene pagato con denaro che deriva dalla precedente vendita di un bene personale) dal caso in cui il coniuge esprime più semplicemente una condivisione di intenti (come nell'ipotesi in cui concordi nel destinare l'immobile oggetto dell'atto di acquisto all'esercizio della professione dell'altro coniuge).
http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-04/acquisto-beni-personali-altro-080552.shtml?uuid=AYA9jXWC
Solitamente si afferma che la partecipazione all'atto di acquisto del coniuge non acquirente – che partecipa non certo in veste di «parte contrattuale», ma al solo fine di verificare la sussistenza dei presupposti che la legge richiede per la surrogazione, trova una precisa giustificazione soprattutto nell'esigenza di assicurargli una sorta di controllo sui beni di maggiore rilevanza economica che non entrino a far parte della comunione legale.
Proprio a questo proposito si è espressa la Corte di cassazione a sezioni unite, con la sentenza n. 22755 del 2009, per vagliare la possibilità – per il coniuge non acquirente – di impugnare o, comunque, di "ritrattare" in un secondo momento la dichiarazione con la quale, prendendo parte all'atto di acquisto dell'altro coniuge, abbia fatto sì che il bene venisse acquisito in via esclusiva al patrimonio di quest'ultimo.
Per risolvere la questione i giudici di legittimità hanno anzitutto chiarito che la funzione dell'intervento adesivo del coniuge non acquirente è certamente condizione necessaria per provocare l'effetto dell'esclusione del bene acquistato dall'altro coniuge dalla comunione legale, ma non può considerarsi condizione sufficiente per determinare il medesimo effetto.
Ciò comporta che se il bene non è effettivamente personale, l'intervento adesivo del coniuge non acquirente non è sufficiente a determinare l'effetto di esclusione del bene dalla comunione legale. In altre parole, l'articolo 179 del Codice civile stabilisce tassativamente che i beni che possono essere esclusi dalla comunione con questo meccanismo sono solo quelli strettamente personali, quelli destinati all'esercizio della professione e quelli oggetto della cosiddetta surrogazione reale; per questa ragione, se il bene oggetto del l'acquisto non è effettivamente un bene personale, l'intervento adesivo del coniuge non acquirente non può sortire l'effetto di escluderlo dalla comunione legale.
Ciò chiarito, la Suprema corte ha sottolineato che l'intervento adesivo del coniuge non acquirente all'atto di acquisto può assumere alternativamente o natura di dichiarazione ricognitiva a contenuto sostanzialmente confessorio (quando si attesti, in modo più o meno sincero e affidabile, un fatto predicabile di verità o falsità) o natura di manifestazione di intenti, quando si esprima un'intenzione riferita al futuro.
Ecco, allora, che – secondo la Corte di cassazione – bisogna distinguere il caso in cui il coniuge non acquirente attesta un fatto (come, ad esempio, quando riconosca che il corrispettivo dell'acquisto del coniuge acquirente viene pagato con denaro che deriva dalla precedente vendita di un bene personale) dal caso in cui il coniuge esprime più semplicemente una condivisione di intenti (come nell'ipotesi in cui concordi nel destinare l'immobile oggetto dell'atto di acquisto all'esercizio della professione dell'altro coniuge).
http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-04/acquisto-beni-personali-altro-080552.shtml?uuid=AYA9jXWC
Cassazione: la mancata comparizione dei coniugi all'udienza presidenziale non comporta la nullità della sentenza di divorzio.
Lo ricorda la prima sezione civile della Cassazione con l'ordinanza n. 17336 del 23/07/2010.
Svolgimento del processo e motivi della decisione.
La relazione depositata ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c. è del seguente tenore:
Con sentenza del 10 gennaio 7 marzo 2007 la Corte di Appello di Roma, pronunciando sull'appello proposto da G.D.B. A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma in data 20 luglio 2005 con la quale, nella contumacia della medesima, era stata dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio da questa contratto con S.P., rigettava l'impugnazione, condannando l'appellante al pagamento delle spese del grado.
Riteneva la Corte di Appello che correttamente il primo giudice avesse pronunciato il divorzio pur in assenza all'udienza presidenziale di entrambe le parti, e quindi senza aver esperito il tentativo di conciliazione, tenuto conto da un lato che il tentativo di conciliazione non costituisce premessa indefettibile per l'ulteriore corso del procedimento e dall'altro lato che la presenza in detta sede del difensore del ricorrente, il quale aveva dedotto l'impedimento per malattia del suo assistito senza peraltro avanzare richiesta di fissazione di altra udienza presidenziale, giustificava la rimessione delle parti dinanzi all'istruttore.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la G.D.B. denunciando con unico motivo violazione e falsa applicazione di legge, omissione, contraddittorietà ed insufficienza della motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione alla L. n. 898 del 1970, artt. 1, 2 e 4, come modificata dalla L. n. 74 del 1987, art. 113 c.p.c., comma 1, art. 115 c.p.c., comma 1, artt. 157, 159 e 161 c.p.c.).
La ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver considerato che il presidente del tribunale aveva mancato di valutare la sussistenza di quei gravi e comprovati motivi che ai sensi del comma 7 del richiamato art. 4 giustificano la mancata comparizione personale dei coniugi e rileva che finalità della comparizione personale non è solo di dare ingresso al tentativo di conciliazione, ma anche di verificare la persistenza della volontà di almeno uno dei coniugi di ottenere lo scioglimento del vincolo.
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Vero che la mancata comparizione personale sia del ricorrente che del resistente davanti al presidente in sede di divorzio, in assenza di gravi e comprovati motivi che vanno specificamente accertati, non essendo sufficienti generiche allegazioni del difensore il quale si limiti a dichiarare che il cliente è malato, senza indicare la natura della malattia nè precisare se sia temporanea o permanente e soprattutto senza fornire alcuna prova effettiva dello stato dedotto, comporta la nullità assoluta ed insanabile della sentenza che abbia ugualmente pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio per violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 2 e 4 come modificati dalla L. n. 74 del 1987.
Costituisce giurisprudenza del tutto consolidata che il tentativo di conciliazione nelle cause di divorzio, pur configurandosi come un atto necessario ai fini dell'indagine sulla irreversibilità della crisi coniugale, non costituisce un presupposto indefettibile del giudizio, onde la mancata comparizione di una delle parti non comporta la fissazione necessaria di una nuova udienza presidenziale, che per contro può essere omessa quando, con incensurabile apprezzamento discrezionale, non se ne ravvisi la necessità o l'opportunità (v. per tutte Cass. 2005 n. 23070; 2001 n. 11059).
Nè sembra da escludere l'applicabilità del richiamato principio nell'ipotesi, che si configura nella specie, in cui alla udienza presidenziale omettano di comparire entrambi i coniugi, tenuto conto che il richiamato dell'art. 4, comma 7, nella formulazione all'epoca vigente, non prevede diversamente dalla disposizione riformata dalla L. n. 80 del 2005 un onere di conferma collegato alla comparizione del ricorrente, con la comminatoria di inefficacia della domanda.
Ritiene pertanto che sussistano le condizioni per la decisione in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c." Il Collegio condivide le conclusioni della relazione e le argomentazioni sulle quali si fondano.
Ed invero l'assunto della G.D.B., ribadito in sede di memoria illustrativa, secondo il quale la mancata partecipazione personale di entrambi i coniugi, nella insussistenza di gravi e comprovati motivi, all'udienza presidenziale comporterebbe l'improcedibilità del ricorso proposto dal S. è privo di ogni supporto normativo, tenuto conto che la presenza in detta udienza del difensore del ricorrente, il quale si limitò a dedurre l'impedimento del suo assistito senza richiedere la fissazione di una nuova udienza presidenziale, esprimeva la volontà del medesimo di proseguire nel giudizio di divorzio. Alla fattispecie in esame era pertanto pienamente applicabile la disciplina dettata dalla L. n. 898 del 1970, art. 4, commi 7 e 8, nel testo all'epoca vigente, secondo la quale se i coniugi si conciliano o, comunque, se il coniuge istante dichiara di non voler proseguire nella domanda, il presidente fa redigere processo verbale della conciliazione o della dichiarazione di rinuncia all'azione, mentre se il coniuge convenuto non compare o se la conciliazione non riesce, il presidente da, anche di ufficio, i provvedimenti temporanei e urgenti ritenuti opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti dinanzi a questo.
Appare evidente che nella previsione del richiamato art. 4 la sussistenza di gravi e comprovati motivi di impedimento a comparire può valere ai fini della fissazione di una nuova udienza presidenziale per esperire il tentativo di conciliazione (v. sul punto Cass. 1987 n. 5865), e che per converso la mancanza di detti gravi e comprovati motivi non preclude il passaggio alla fase istruttoria del giudizio, dovendo tale situazione equipararsi ad un negativo esperimento del tentativo di conciliazione.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha da tempo chiarito, sempre con riferimento ai giudizi anteriori alla L. 14 maggio 2005, n. 80, che una volta instaurato regolarmente il contraddittorio la mancata comparizione di una delle parti non incide sulla procedibilità dell'azione (Cass. 1977 n. 4119) e che in particolare la comparizione di un rappresentante del coniuge istante all'udienza presidenziale, se pure non è idonea a consentire l'esperimento del tentativo di conciliazione, il quale richiede inderogabilmente la presenza personale di entrambi i coniugi, non comporta l'improcedibilità dell'azione, nè impone la fissazione di una nuova udienza per detto tentativo (Cass. 1978 n. 2757).
Correttamente pertanto il presidente del Tribunale, dato atto della presenza del difensore del ricorrente e ravvisata nel suo incensurabile apprezzamento l'impossibilità di un esito positivo del tentativo di conciliazione, ha applicato la regola relativa alla mancata comparizione del convenuto ed ha disposto la rimessione delle parti dinanzi all'istruttore.
Il ricorso deve in conclusione essere rigettato per manifesta infondatezza, ai sensi dell'art. 375 c.p.c., n. 5.
Le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 2000,00, di cui Euro 1800,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori come per legge. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
http://www.avvocatoandreani.it/news-giuridiche/notizia.php?cassazione-la-mancata-comparizione-dei-coniugi-all-udienza-presidenziale-non-comporta-la-nullita-della-sentenza-di-divorzio
Svolgimento del processo e motivi della decisione.
La relazione depositata ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c. è del seguente tenore:
Con sentenza del 10 gennaio 7 marzo 2007 la Corte di Appello di Roma, pronunciando sull'appello proposto da G.D.B. A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma in data 20 luglio 2005 con la quale, nella contumacia della medesima, era stata dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio da questa contratto con S.P., rigettava l'impugnazione, condannando l'appellante al pagamento delle spese del grado.
Riteneva la Corte di Appello che correttamente il primo giudice avesse pronunciato il divorzio pur in assenza all'udienza presidenziale di entrambe le parti, e quindi senza aver esperito il tentativo di conciliazione, tenuto conto da un lato che il tentativo di conciliazione non costituisce premessa indefettibile per l'ulteriore corso del procedimento e dall'altro lato che la presenza in detta sede del difensore del ricorrente, il quale aveva dedotto l'impedimento per malattia del suo assistito senza peraltro avanzare richiesta di fissazione di altra udienza presidenziale, giustificava la rimessione delle parti dinanzi all'istruttore.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la G.D.B. denunciando con unico motivo violazione e falsa applicazione di legge, omissione, contraddittorietà ed insufficienza della motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione alla L. n. 898 del 1970, artt. 1, 2 e 4, come modificata dalla L. n. 74 del 1987, art. 113 c.p.c., comma 1, art. 115 c.p.c., comma 1, artt. 157, 159 e 161 c.p.c.).
La ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver considerato che il presidente del tribunale aveva mancato di valutare la sussistenza di quei gravi e comprovati motivi che ai sensi del comma 7 del richiamato art. 4 giustificano la mancata comparizione personale dei coniugi e rileva che finalità della comparizione personale non è solo di dare ingresso al tentativo di conciliazione, ma anche di verificare la persistenza della volontà di almeno uno dei coniugi di ottenere lo scioglimento del vincolo.
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Vero che la mancata comparizione personale sia del ricorrente che del resistente davanti al presidente in sede di divorzio, in assenza di gravi e comprovati motivi che vanno specificamente accertati, non essendo sufficienti generiche allegazioni del difensore il quale si limiti a dichiarare che il cliente è malato, senza indicare la natura della malattia nè precisare se sia temporanea o permanente e soprattutto senza fornire alcuna prova effettiva dello stato dedotto, comporta la nullità assoluta ed insanabile della sentenza che abbia ugualmente pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio per violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 2 e 4 come modificati dalla L. n. 74 del 1987.
Costituisce giurisprudenza del tutto consolidata che il tentativo di conciliazione nelle cause di divorzio, pur configurandosi come un atto necessario ai fini dell'indagine sulla irreversibilità della crisi coniugale, non costituisce un presupposto indefettibile del giudizio, onde la mancata comparizione di una delle parti non comporta la fissazione necessaria di una nuova udienza presidenziale, che per contro può essere omessa quando, con incensurabile apprezzamento discrezionale, non se ne ravvisi la necessità o l'opportunità (v. per tutte Cass. 2005 n. 23070; 2001 n. 11059).
Nè sembra da escludere l'applicabilità del richiamato principio nell'ipotesi, che si configura nella specie, in cui alla udienza presidenziale omettano di comparire entrambi i coniugi, tenuto conto che il richiamato dell'art. 4, comma 7, nella formulazione all'epoca vigente, non prevede diversamente dalla disposizione riformata dalla L. n. 80 del 2005 un onere di conferma collegato alla comparizione del ricorrente, con la comminatoria di inefficacia della domanda.
Ritiene pertanto che sussistano le condizioni per la decisione in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c." Il Collegio condivide le conclusioni della relazione e le argomentazioni sulle quali si fondano.
Ed invero l'assunto della G.D.B., ribadito in sede di memoria illustrativa, secondo il quale la mancata partecipazione personale di entrambi i coniugi, nella insussistenza di gravi e comprovati motivi, all'udienza presidenziale comporterebbe l'improcedibilità del ricorso proposto dal S. è privo di ogni supporto normativo, tenuto conto che la presenza in detta udienza del difensore del ricorrente, il quale si limitò a dedurre l'impedimento del suo assistito senza richiedere la fissazione di una nuova udienza presidenziale, esprimeva la volontà del medesimo di proseguire nel giudizio di divorzio. Alla fattispecie in esame era pertanto pienamente applicabile la disciplina dettata dalla L. n. 898 del 1970, art. 4, commi 7 e 8, nel testo all'epoca vigente, secondo la quale se i coniugi si conciliano o, comunque, se il coniuge istante dichiara di non voler proseguire nella domanda, il presidente fa redigere processo verbale della conciliazione o della dichiarazione di rinuncia all'azione, mentre se il coniuge convenuto non compare o se la conciliazione non riesce, il presidente da, anche di ufficio, i provvedimenti temporanei e urgenti ritenuti opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti dinanzi a questo.
Appare evidente che nella previsione del richiamato art. 4 la sussistenza di gravi e comprovati motivi di impedimento a comparire può valere ai fini della fissazione di una nuova udienza presidenziale per esperire il tentativo di conciliazione (v. sul punto Cass. 1987 n. 5865), e che per converso la mancanza di detti gravi e comprovati motivi non preclude il passaggio alla fase istruttoria del giudizio, dovendo tale situazione equipararsi ad un negativo esperimento del tentativo di conciliazione.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha da tempo chiarito, sempre con riferimento ai giudizi anteriori alla L. 14 maggio 2005, n. 80, che una volta instaurato regolarmente il contraddittorio la mancata comparizione di una delle parti non incide sulla procedibilità dell'azione (Cass. 1977 n. 4119) e che in particolare la comparizione di un rappresentante del coniuge istante all'udienza presidenziale, se pure non è idonea a consentire l'esperimento del tentativo di conciliazione, il quale richiede inderogabilmente la presenza personale di entrambi i coniugi, non comporta l'improcedibilità dell'azione, nè impone la fissazione di una nuova udienza per detto tentativo (Cass. 1978 n. 2757).
Correttamente pertanto il presidente del Tribunale, dato atto della presenza del difensore del ricorrente e ravvisata nel suo incensurabile apprezzamento l'impossibilità di un esito positivo del tentativo di conciliazione, ha applicato la regola relativa alla mancata comparizione del convenuto ed ha disposto la rimessione delle parti dinanzi all'istruttore.
Il ricorso deve in conclusione essere rigettato per manifesta infondatezza, ai sensi dell'art. 375 c.p.c., n. 5.
Le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 2000,00, di cui Euro 1800,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori come per legge. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
http://www.avvocatoandreani.it/news-giuridiche/notizia.php?cassazione-la-mancata-comparizione-dei-coniugi-all-udienza-presidenziale-non-comporta-la-nullita-della-sentenza-di-divorzio
Cassazione: immigrato che divorzia non perde il diritto al permesso di soggiorno se matrimonio è durato tre anni
Se le nozze sono durate almeno tre anni l'extracomunitario che divorzia non perde il diritto al rinnovo del permsso di soggiorno. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sentenza n.19893/2010), affermando che l'immigrato in tal caso ha diritto a restare nel territorio Italiano. L'unica condizione è che il matrimonio "sia durato almeno tre anni, di cui almeno uno nel territorio nazionale prima dell'inizio del procedimento di divorzio o di annullamento". Il caso esmainato dalla Corte è relativo ad una signora dell'Ecuador sposata con un italiano nel 99 e poi separata nel 2006. La questura aveva erroneamente ritenuto che la fine del matrionio facesse venire meno il diritto di rinnovo del permesso di soggiorno per l'extracomunitaria. Ne seguiva un decreto di espulsione convalidato dalla Corte d'appello di Genova nell'ottobre 2007. La donna si è quindi rivolta alla suprema Corte che le ha dato ragione bacchettando i giudici di merito per non aver applicato il decreto legislativo n. 30 del 2007 "in forza del quale - si legge in sentenza - il divorzio e l'annullamento del matrimonio con il cittadino dell'Unione non comportano la perdita del diritto di soggiorno dei familiari del cittadino dell'Unione non aventi la cittadinanza di uno stato membro, a condizione che il matrimonio sia durato almeno tre anni, di cui almeno uno nel territorio nazionale, prima dell'inizio del procedimento di divorzio o di annullamento".
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9012.asp
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9012.asp
Reato sottrarsi all’obbligo di mantenere figli. Anche se matrimonio si è celebrato all’estero e non è stato trascritto in Italia
Commette reato ai sensi dell’art. 570 codice penale, e cioè violazione degli obblighi familiari, l’uomo che si sottrae all’obbligo di mantenimento dei figli anche se il relativo matrimonio è stato celebrato all’estero e non è mai stato trascritto nei registri di stato civile del nostro paese. È questa la decisione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 32720, depositata il 7 settembre scorso emessa in seguito al ricorso di un uomo marocchino che aveva impugnato la sentenza di secondo grado che lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 570 c.p. L’imputato aveva eccepito che, essendo stato celebrato in Marocco, il matrimonio (e il conseguente provvedimento di separazione) non avrebbe avuto valore nel nostro paese. Inoltre l’uomo aggiungeva di non poter provvedere al mantenimento dei figli in quanto era in possesso di minimi mezzi di sussistenza e che aveva contratto nuovamente matrimonio in Egitto da cui erano nati altri tre figli. I giudici di legittimità della sesta sezione penale, nel confermare la pronuncia dei giudici di appello, hanno spiegato che il comportamento dell’uomo che si sottrae al mantenimento dei figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare anche se il matrimonio non è stato trascritto nei registri civili del nostro paese infatti, per la configurazione del reato appena citato non rilevano le vicende burocratiche sollevate dal ricorrente, qualora tutti i componenti del nucleo familiare abbiano la cittadinanza italiana. (come lo sono i soggetti componenti della famiglia in questione).
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8993.asp
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8993.asp
Divorzio, il tentativo di conciliazione non è indispensabile e l'assenza dei coniugi non "cancella" la sentenza
L'assenza di uno dei coniugi alla conciliazione non “cancella” la sentenza di divorzio. Il tentativo di riavvicinamento dei coniugi, infatti, non rappresenta una fase obbligatoria del processo divorzile. Lo ricorda la prima sezione civile della Cassazione con l'ordinanza 17336/10.
Il caso
E' stato respinto il ricorso della moglie contro la decisione con cui la Corte d'appello aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del suo matrimonio con l'ex marito. Entrambi i coniugi, infatti, non si erano presentati all'udienza presidenziale fissata per il tentativo di conciliazione. Alla stessa udienza, però, era intervenuto il difensore della donna senza formulare alcuna richiesta di rinvio in ragione dell'impedimento per malattia della propria assistita. Agli “ermellini” tanto è bastato per legittimare l'operato dei giudici di merito e respingere il ricorso della donna, che chiedeva la nullità della sentenza di divorzio.
Indispensabilità esclusa. Il tentativo di conciliazione - osserva il “Palazzaccio” - pur configurandosi come un atto necessario ai fini dell'indagine sull'irreversibilità della crisi coniugale, non costituisce un presupposto indefettibile del giudizio. Per cui la mancata comparizione di una delle parti non comporta la fissazione obbligatoria di una nuova udienza presidenziale, che può essere omessa quando con incensurabile apprezzamento discrezionale, non se ne ravvisi la necessità o l'opportunità.
http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/famiglia-successioni/news/articolo/lstp/323581/
Il caso
E' stato respinto il ricorso della moglie contro la decisione con cui la Corte d'appello aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del suo matrimonio con l'ex marito. Entrambi i coniugi, infatti, non si erano presentati all'udienza presidenziale fissata per il tentativo di conciliazione. Alla stessa udienza, però, era intervenuto il difensore della donna senza formulare alcuna richiesta di rinvio in ragione dell'impedimento per malattia della propria assistita. Agli “ermellini” tanto è bastato per legittimare l'operato dei giudici di merito e respingere il ricorso della donna, che chiedeva la nullità della sentenza di divorzio.
Indispensabilità esclusa. Il tentativo di conciliazione - osserva il “Palazzaccio” - pur configurandosi come un atto necessario ai fini dell'indagine sull'irreversibilità della crisi coniugale, non costituisce un presupposto indefettibile del giudizio. Per cui la mancata comparizione di una delle parti non comporta la fissazione obbligatoria di una nuova udienza presidenziale, che può essere omessa quando con incensurabile apprezzamento discrezionale, non se ne ravvisi la necessità o l'opportunità.
http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/famiglia-successioni/news/articolo/lstp/323581/
In caso di separazione l'immobile occupato di proprietà della suocera va restituito (Cassazione, Sentenza 11.8.2010 n. 18619)
P.C., premesso di essere proprietaria dell’appartamento sito in (OMISSIS), concesso in comodato al figlio R.M. affinché vi svolgesse la sua attività lavorativa, prima delle sue nozze con D.V.M. R., immobile che quest’ultima, dopo la separazione personale dal marito aveva, pur diffidata a restituirlo, continuato ad occupare senza titolo, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli, la D.V. Chiedendone la condanna al rilascio del bene in questione ed al risarcimento dei danni subiti. Con sentenza parziale del 15.02.2002, l’adito Tribunale accoglieva le domande della P. e condannava la convenuta al chiesto rilascio entro la data fissata ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 56, nonché al risarcimento dei danni, per la cui liquidazione disponeva la prosecuzione del giudizio. La D.V. Impugnava la pronuncia. Con sentenza del 1.04-14.06.2005, la Corte di appello di Napoli accoglieva soltanto il motivo del gravame della D.V. Relativo alla statuizione, pertanto annullata, di condanna generica dell’appellante al risarcimento dei danni, mentre respingeva le ulteriori censure. In particolare la Corte distrettuale riteneva.....
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE
Sentenza 11.8.2010 n. 18619
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente -
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere -
Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere -
Dott. CULTRERA Maria Rosaria - Consigliere -
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente: sentenza
sul ricorso 23203-2006 proposto da:
D.V.M.R. (c.f. (OMISSIS)), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato PIZZOLLA PROSPERO, giusta procura a margine del ricorso;
• ricorrente -
contro
P.C.;
• intimata -
avverso la sentenza n. 1838/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 14/06/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/06/2010 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE UMBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
(Il (OMISSIS)) P.C., premesso di essere proprietaria dell’appartamento sito in (OMISSIS), concesso in comodato al figlio R.M. affinché vi svolgesse la sua attività lavorativa, prima delle sue nozze con D.V.M. R., immobile che quest’ultima, dopo la separazione personale dal marito aveva, pur diffidata a restituirlo, continuato ad occupare senza titolo, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli, la D.V. Chiedendone la condanna al rilascio del bene in questione ed al risarcimento dei danni subiti.
Con sentenza parziale del 15.02.2002, l’adito Tribunale accoglieva le domande della P. e condannava la convenuta al chiesto rilascio entro la data fissata ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 56, nonché al risarcimento dei danni, per la cui liquidazione disponeva la prosecuzione del giudizio.
La D.V. Impugnava la pronuncia.
Con sentenza del 1.04-14.06.2005, la Corte di appello di Napoli accoglieva soltanto il motivo del gravame della D.V. Relativo alla statuizione, pertanto annullata, di condanna generica dell’appellante al risarcimento dei danni, mentre respingeva le ulteriori censure.
In particolare la Corte distrettuale riteneva:
• che fossero infondate le doglianze della D.V. Inerenti al proprio difetto di legittimazione passiva ed alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge comodatario, R.M., posta la natura personale dell’azione esperita dalla P. ed il relativo petitum, volto alla restituzione del bene da parte di chi in tesi ne disponeva di fatto, pur privo di alcun titolo per detenerlo;
• che la D.V. Aveva eccepito di detenere legittimamente l’immobile perchè da sempre adibito a casa familiare, come ben sapeva l’attrice, e perchè, essendole stato assegnato nel giudizio di separazione, in quanto affidataria del figlio minorenne e convivente con l’altro figlio maggiorenne, era succeduta nel rapporto di comodato al marito, unico escluso dal godimento, sicchè la comodante era tenuta a consentire la permanenza sua e degli altri componenti del nucleo familiare, non dovendosi attribuire alcuna rilevanza alla causa iniziale del comodato;
• che l’esistenza del comodato e la consegna dell’immobile al figlio da parte della P. erano pacifiche, mentre si controverteva su quale fosse stata la consentita destinazione del bene, ossia se a personale attività professionale del comodatario o a casa familiare;
• che la P. aveva negato di avere consentito di destinare l’immobile a casa coniugale e provato di avere consegnato l’immobile in comodato a figlio nella specifica prospettiva dell’utilizzazione a suoi fini personali e ciò almeno tre anni prima del matrimonio dello stesso con la D.V., ragione per cui poteva dirsi accertata la reale volontà dei contraenti con riferimento agli interessi perseguiti;
• che, invece, la D.V., deducendo una diversa ragione della detenzione consentita dal comodato aveva proposto un’eccezione in senso sostanziale, la cui fondatezza non aveva dimostrato, come era suo onere, essendosi limitata a sostenere che essa sarebbe stata mutuabile dall’incontrovertibile circostanza che l’appartamento era stato, comunque, adibito ad abitazione familiare e che tale destinazione era nota alla comodante.
Avverso questa sentenza la D.V. Ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, notificato il 26.07.2006 ed illustrato da memoria.
La P. non ha svolto attività difensiva.
Diritto
A sostegno del ricorso la D.V. Denunzia:
1. ”Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 149, 155, 1230, 1321, 1324, 1325, 1326, 1362, 1372, 1803, 1804, 1809, 1810, 2697, 2727 e 2729 c.c.: L. n. 898 del 1970, art. 6; L. n. 74 del 1987, art. 11; L. n. 392 del 1978, art. 56; artt. 112, 115 e 116 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”.
Censura l’accoglimento della domanda della P. di rilascio dell’immobile, dolendosi in sintesi che:
• sia rimasto inapplicato il principio di diritto affermato nella sentenza n. 13603 del 2004, resa dalle Sezioni Unite di questa Corte non si sia rilevato che non era stata fatta valere un’ipotesi di recesso consentito dall’art. 1809 c.c., comma 2. - l’interesse del comodatario sia stato individuato solo in quello di utilizzare l’immobile per lo svolgimento della sua attività lavorativa, quando invece andava riferito anche alle varie altre possibilità di sfruttamento;
• non sia stato valorizzato il consenso tacito della P. all’utilizzazione del bene a casa familiare con novazione dell’originario rapporto di comodato.
Il motivo non è fondato.
Privo di pregio si rivela in primo luogo il profilo della censura inerente alla mancata valorizzazione dell’interesse del comodatario in rapporto alla varie possibilità di utile fruizione offerte dal bene, dal momento che compito dei giudici di merito era quello, debitamente assolto, di interpretare e qualificare il contratto concluso dalla P. con il figlio, individuandone la portata in rapporto non all’interesse astrattamente possibile ma a quello concreto che entrambe le parti avevano inteso perseguire e soddisfare.
Ineccepibile, anche per il profilo argomentativo, si rivela poi l’accertamento, plausibilmente correlato anche ai connotati temporali della vicenda ed a riscontri documentali, in merito all’utilizzazione convenzionalmente consentita a comodatario e la conclusione che il R. aveva conseguito il diritto di servirsi dell’immobile per solo uso personale, eminentemente professionale, con esclusione di utilizzazioni diverse ed inattuali e segnatamente del diritto di adibire il bene a futura casa coniugale. Tali valutazioni si palesano pure aderenti all’inciso contenuto nella menzionata sentenza n. 13603 del 2004, resa dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui “..l’effettività della destinazione a casa familiare da parte del comodante non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, ma implica un accertamento in fatto, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare”.
Una volta escluso che il contratto di comodato concluso dalla P. con il figlio implicasse anche la destinazione a casa familiare, giustamente i giudici di merito, ritenuto nella specie inapplicabile, per difetto del suddetto presupposto, il principio di diritto, invocato dalla D.V. Ed affermato nella citata sentenza n. 13603 del 2004, hanno escluso che la comodante fosse tenuta “a consentire la continuazione del godimento dell’immobile da parte della D.V., salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2”. D’altra parte l’ulteriore prospettazione della ricorrente circa la sopravvenuta novazione, sia pure solo oggettiva, dell’originario contratto di comodato, rinveniente da consenso tacito della P. alla modifica dell’iniziale consentito uso in quello a casa familiare, si rivela nuova rispetto all’impostazione iniziale riferita al contenuto del primo accordo e non anche a sopravvenute modifiche novative, e, comunque, non decisiva, ben potendo il silenzio serbato dalla comodante a fronte del diverso uso, trovare spiegazione nella mera tolleranza dell’inadempienza del comodatario (ex artt. 1804 cod. civ.) e non necessariamente nell’inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originario rapporto obbligatorio, sostituendolo con uno nuovo.
2. ”Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1809, 1810, 2908 e 2909 c.c.; artt. 99,100, 101, 102 e 112 c.p.c.;
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”.
La ricorrente ribadisce il suo difetto di legittimazione passiva e la non integrità del contraddittorio, sostenendo che l’azione contrattuale di restituzione proposta dalla P. avrebbe dovuto svolgersi non nei suoi confronti, dal momento che non era stata titolare del rapporto, ma nei confronti o comunque in presenza anche del comodatario, una volta stabilito che il contratto di comodato era stato concluso solo con lui ed in data anteriore al matrimonio.
Il motivo non è fondato.
La D.V. Avrebbe potuto essere ritenuta priva di legittimazione passiva se l’azione svolta dalla P. fosse stata qualificata come azione d’indole contrattuale volta alla restituzione dell’immobile concesso in comodato, mentre invece la Corte di merito ha ritenuto, con irreprensibile valutazione, che l’attrice aveva proposto una diversa azione, ed in particolare un’azione recuperatoria da mancanza originaria e non sopravvenuta di titolo, da esperire nei confronti dell’utilizzatore in atto, nella specie pacificamente concentratosi nella ricorrente.
Correttamente, inoltre, la medesima Corte non ha nemmeno disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti del R., estraneo alle menzionate domande sottoposte dalla P. al suo giudizio e stante l’assenza di domande riconvenzionali della D. V. che lo coinvolgessero, posto anche che se la parte convenuta contesta, come è avvenuto nella specie, di essere titolare dal lato passivo del rapporto dedotto in giudizio e indica come tale un terzo, quest’ultimo non assume la qualità di litisconsorte necessario, ma può essere disposto il suo intervento in causa, con un provvedimento eminentemente discrezionale, ed ancora che non ricorre litisconsorzio necessario allorchè il giudice proceda, in via meramente incidentale, ad accertare una situazione giuridica che riguardi anche un terzo, dal momento che gli effetti di tale accertamento non si estendono a quest’ultimo, ma restano limitati alle parti in causa.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Non deve statuirsi sulle spese del giudizio di legittimità, in ragione del mancato svolgimento di attività difensiva da parte della P..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 30 giugno 2010.
Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2010
http://www.laprevidenza.it/news/leggi-e-normative/in-caso-di-separazione-l-immobile-occupato-di-proprieta-della-suocera/4904
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE
Sentenza 11.8.2010 n. 18619
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente -
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere -
Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere -
Dott. CULTRERA Maria Rosaria - Consigliere -
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente: sentenza
sul ricorso 23203-2006 proposto da:
D.V.M.R. (c.f. (OMISSIS)), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato PIZZOLLA PROSPERO, giusta procura a margine del ricorso;
• ricorrente -
contro
P.C.;
• intimata -
avverso la sentenza n. 1838/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 14/06/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/06/2010 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE UMBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
(Il (OMISSIS)) P.C., premesso di essere proprietaria dell’appartamento sito in (OMISSIS), concesso in comodato al figlio R.M. affinché vi svolgesse la sua attività lavorativa, prima delle sue nozze con D.V.M. R., immobile che quest’ultima, dopo la separazione personale dal marito aveva, pur diffidata a restituirlo, continuato ad occupare senza titolo, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli, la D.V. Chiedendone la condanna al rilascio del bene in questione ed al risarcimento dei danni subiti.
Con sentenza parziale del 15.02.2002, l’adito Tribunale accoglieva le domande della P. e condannava la convenuta al chiesto rilascio entro la data fissata ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 56, nonché al risarcimento dei danni, per la cui liquidazione disponeva la prosecuzione del giudizio.
La D.V. Impugnava la pronuncia.
Con sentenza del 1.04-14.06.2005, la Corte di appello di Napoli accoglieva soltanto il motivo del gravame della D.V. Relativo alla statuizione, pertanto annullata, di condanna generica dell’appellante al risarcimento dei danni, mentre respingeva le ulteriori censure.
In particolare la Corte distrettuale riteneva:
• che fossero infondate le doglianze della D.V. Inerenti al proprio difetto di legittimazione passiva ed alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge comodatario, R.M., posta la natura personale dell’azione esperita dalla P. ed il relativo petitum, volto alla restituzione del bene da parte di chi in tesi ne disponeva di fatto, pur privo di alcun titolo per detenerlo;
• che la D.V. Aveva eccepito di detenere legittimamente l’immobile perchè da sempre adibito a casa familiare, come ben sapeva l’attrice, e perchè, essendole stato assegnato nel giudizio di separazione, in quanto affidataria del figlio minorenne e convivente con l’altro figlio maggiorenne, era succeduta nel rapporto di comodato al marito, unico escluso dal godimento, sicchè la comodante era tenuta a consentire la permanenza sua e degli altri componenti del nucleo familiare, non dovendosi attribuire alcuna rilevanza alla causa iniziale del comodato;
• che l’esistenza del comodato e la consegna dell’immobile al figlio da parte della P. erano pacifiche, mentre si controverteva su quale fosse stata la consentita destinazione del bene, ossia se a personale attività professionale del comodatario o a casa familiare;
• che la P. aveva negato di avere consentito di destinare l’immobile a casa coniugale e provato di avere consegnato l’immobile in comodato a figlio nella specifica prospettiva dell’utilizzazione a suoi fini personali e ciò almeno tre anni prima del matrimonio dello stesso con la D.V., ragione per cui poteva dirsi accertata la reale volontà dei contraenti con riferimento agli interessi perseguiti;
• che, invece, la D.V., deducendo una diversa ragione della detenzione consentita dal comodato aveva proposto un’eccezione in senso sostanziale, la cui fondatezza non aveva dimostrato, come era suo onere, essendosi limitata a sostenere che essa sarebbe stata mutuabile dall’incontrovertibile circostanza che l’appartamento era stato, comunque, adibito ad abitazione familiare e che tale destinazione era nota alla comodante.
Avverso questa sentenza la D.V. Ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, notificato il 26.07.2006 ed illustrato da memoria.
La P. non ha svolto attività difensiva.
Diritto
A sostegno del ricorso la D.V. Denunzia:
1. ”Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 149, 155, 1230, 1321, 1324, 1325, 1326, 1362, 1372, 1803, 1804, 1809, 1810, 2697, 2727 e 2729 c.c.: L. n. 898 del 1970, art. 6; L. n. 74 del 1987, art. 11; L. n. 392 del 1978, art. 56; artt. 112, 115 e 116 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”.
Censura l’accoglimento della domanda della P. di rilascio dell’immobile, dolendosi in sintesi che:
• sia rimasto inapplicato il principio di diritto affermato nella sentenza n. 13603 del 2004, resa dalle Sezioni Unite di questa Corte non si sia rilevato che non era stata fatta valere un’ipotesi di recesso consentito dall’art. 1809 c.c., comma 2. - l’interesse del comodatario sia stato individuato solo in quello di utilizzare l’immobile per lo svolgimento della sua attività lavorativa, quando invece andava riferito anche alle varie altre possibilità di sfruttamento;
• non sia stato valorizzato il consenso tacito della P. all’utilizzazione del bene a casa familiare con novazione dell’originario rapporto di comodato.
Il motivo non è fondato.
Privo di pregio si rivela in primo luogo il profilo della censura inerente alla mancata valorizzazione dell’interesse del comodatario in rapporto alla varie possibilità di utile fruizione offerte dal bene, dal momento che compito dei giudici di merito era quello, debitamente assolto, di interpretare e qualificare il contratto concluso dalla P. con il figlio, individuandone la portata in rapporto non all’interesse astrattamente possibile ma a quello concreto che entrambe le parti avevano inteso perseguire e soddisfare.
Ineccepibile, anche per il profilo argomentativo, si rivela poi l’accertamento, plausibilmente correlato anche ai connotati temporali della vicenda ed a riscontri documentali, in merito all’utilizzazione convenzionalmente consentita a comodatario e la conclusione che il R. aveva conseguito il diritto di servirsi dell’immobile per solo uso personale, eminentemente professionale, con esclusione di utilizzazioni diverse ed inattuali e segnatamente del diritto di adibire il bene a futura casa coniugale. Tali valutazioni si palesano pure aderenti all’inciso contenuto nella menzionata sentenza n. 13603 del 2004, resa dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui “..l’effettività della destinazione a casa familiare da parte del comodante non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, ma implica un accertamento in fatto, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare”.
Una volta escluso che il contratto di comodato concluso dalla P. con il figlio implicasse anche la destinazione a casa familiare, giustamente i giudici di merito, ritenuto nella specie inapplicabile, per difetto del suddetto presupposto, il principio di diritto, invocato dalla D.V. Ed affermato nella citata sentenza n. 13603 del 2004, hanno escluso che la comodante fosse tenuta “a consentire la continuazione del godimento dell’immobile da parte della D.V., salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2”. D’altra parte l’ulteriore prospettazione della ricorrente circa la sopravvenuta novazione, sia pure solo oggettiva, dell’originario contratto di comodato, rinveniente da consenso tacito della P. alla modifica dell’iniziale consentito uso in quello a casa familiare, si rivela nuova rispetto all’impostazione iniziale riferita al contenuto del primo accordo e non anche a sopravvenute modifiche novative, e, comunque, non decisiva, ben potendo il silenzio serbato dalla comodante a fronte del diverso uso, trovare spiegazione nella mera tolleranza dell’inadempienza del comodatario (ex artt. 1804 cod. civ.) e non necessariamente nell’inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originario rapporto obbligatorio, sostituendolo con uno nuovo.
2. ”Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1809, 1810, 2908 e 2909 c.c.; artt. 99,100, 101, 102 e 112 c.p.c.;
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”.
La ricorrente ribadisce il suo difetto di legittimazione passiva e la non integrità del contraddittorio, sostenendo che l’azione contrattuale di restituzione proposta dalla P. avrebbe dovuto svolgersi non nei suoi confronti, dal momento che non era stata titolare del rapporto, ma nei confronti o comunque in presenza anche del comodatario, una volta stabilito che il contratto di comodato era stato concluso solo con lui ed in data anteriore al matrimonio.
Il motivo non è fondato.
La D.V. Avrebbe potuto essere ritenuta priva di legittimazione passiva se l’azione svolta dalla P. fosse stata qualificata come azione d’indole contrattuale volta alla restituzione dell’immobile concesso in comodato, mentre invece la Corte di merito ha ritenuto, con irreprensibile valutazione, che l’attrice aveva proposto una diversa azione, ed in particolare un’azione recuperatoria da mancanza originaria e non sopravvenuta di titolo, da esperire nei confronti dell’utilizzatore in atto, nella specie pacificamente concentratosi nella ricorrente.
Correttamente, inoltre, la medesima Corte non ha nemmeno disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti del R., estraneo alle menzionate domande sottoposte dalla P. al suo giudizio e stante l’assenza di domande riconvenzionali della D. V. che lo coinvolgessero, posto anche che se la parte convenuta contesta, come è avvenuto nella specie, di essere titolare dal lato passivo del rapporto dedotto in giudizio e indica come tale un terzo, quest’ultimo non assume la qualità di litisconsorte necessario, ma può essere disposto il suo intervento in causa, con un provvedimento eminentemente discrezionale, ed ancora che non ricorre litisconsorzio necessario allorchè il giudice proceda, in via meramente incidentale, ad accertare una situazione giuridica che riguardi anche un terzo, dal momento che gli effetti di tale accertamento non si estendono a quest’ultimo, ma restano limitati alle parti in causa.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Non deve statuirsi sulle spese del giudizio di legittimità, in ragione del mancato svolgimento di attività difensiva da parte della P..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 30 giugno 2010.
Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2010
http://www.laprevidenza.it/news/leggi-e-normative/in-caso-di-separazione-l-immobile-occupato-di-proprieta-della-suocera/4904
Assegno di divorzio legittimo anche senza intervento della Guardia di finanza
Assegno di divorzio valido anche senza indagini della Guardia di finanza. Infatti il giudice ha il potere di determinarlo senza l'intervento della polizia tributaria qualora abbia degli elementi validi forniti dagli ex coniugi.
Lo ha stabilito la Corte di casssazione che che, con la sentenza n. 6685/2010 ha respinto il ricorso di un uomo, impresario di pompe funebri, che aveva chiesto una riduzione del mantenimento dovuto alla ex moglie.
Gli ermellini hanno ribadito che "nel decidere sulla modifica delle condizioni divorzili, il giudice di merito, qualora si trovi nell'impossibilità di motivare la propria decisione per mancanza di elementi utili di valutazione, deve disporre indagini patrimoniali attraverso la Polizia Tributaria ai sensi del richiamato art. 5 comma 9 della Legge 898/70 nel testo novellato dall'art. 10 della Legge n.74 del 1987. Tuttavia qualora sia possibile da parte del giudice, con un apprezzamento di merito incensurabile sede di legittimità, accertare i redditi di ciascun coniuge, sulla base di motivazioni evidenziate, correttamente può essere omesso il ricorso a tale ulteriore strumento di verifica".
fonte cassazione.net
Lo ha stabilito la Corte di casssazione che che, con la sentenza n. 6685/2010 ha respinto il ricorso di un uomo, impresario di pompe funebri, che aveva chiesto una riduzione del mantenimento dovuto alla ex moglie.
Gli ermellini hanno ribadito che "nel decidere sulla modifica delle condizioni divorzili, il giudice di merito, qualora si trovi nell'impossibilità di motivare la propria decisione per mancanza di elementi utili di valutazione, deve disporre indagini patrimoniali attraverso la Polizia Tributaria ai sensi del richiamato art. 5 comma 9 della Legge 898/70 nel testo novellato dall'art. 10 della Legge n.74 del 1987. Tuttavia qualora sia possibile da parte del giudice, con un apprezzamento di merito incensurabile sede di legittimità, accertare i redditi di ciascun coniuge, sulla base di motivazioni evidenziate, correttamente può essere omesso il ricorso a tale ulteriore strumento di verifica".
fonte cassazione.net
Condanna annullata alla ex che impediva gli incontri con il padre.
I conflitti fra i due rendono la testimonianza inattendibile Può essere annullata la condanna nei confronti del genitore affidatario che impedisce gli incontri fra il figlio e l'ex coniuge qualora l'alto grado di conflittualità fra i due renda la testimonianza della parte offesa inattendibile.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 32675 del 3 settembre 2010, ha accolto il ricorso di una donna condannata dalla Corte d'Appello di Bologna ai soli fini civili per aver impedito al figlio, in due occasioni, di incontrarsi con il padre nei giorni stabiliti dal giudice della separazione.
Il Tribunale l'aveva invece assolta ma il verdetto era stato ribaltato in secondo grado.
Ora la sesta sezione penale ha annullato con rinvio la condanna ritenendo la testimonianza dell'ex marito e di sua madre un po' confusa e soprattutto inattendibile dati i contrasti fra la coppia.
I giudici bolognesi dovranno rivalutare il caso considerando che le liti possano essere state il motivo della denuncia dell'uomo.
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2337:condanna-annullata-alla-ex-che-impediva-gli-incontri-con-il-padre&catid=53:giurisprudenza-dir-civile&Itemid=24
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 32675 del 3 settembre 2010, ha accolto il ricorso di una donna condannata dalla Corte d'Appello di Bologna ai soli fini civili per aver impedito al figlio, in due occasioni, di incontrarsi con il padre nei giorni stabiliti dal giudice della separazione.
Il Tribunale l'aveva invece assolta ma il verdetto era stato ribaltato in secondo grado.
Ora la sesta sezione penale ha annullato con rinvio la condanna ritenendo la testimonianza dell'ex marito e di sua madre un po' confusa e soprattutto inattendibile dati i contrasti fra la coppia.
I giudici bolognesi dovranno rivalutare il caso considerando che le liti possano essere state il motivo della denuncia dell'uomo.
http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2337:condanna-annullata-alla-ex-che-impediva-gli-incontri-con-il-padre&catid=53:giurisprudenza-dir-civile&Itemid=24
Mantenimento e danni al figlio che il padre non voleva riconoscere
Non solo il mantenimento, pregresso e futuro, ma anche i danni: è quanto può essere costretto a pagare un papà naturale che si è rifiutato di riconoscere il figlio ma la cui paternità è stata dichiarata giudizialmente. Insomma, può avere diritto anche al risarcimento il bambino che, dopo anni di battaglie legali condotte dalla madre, ha conquistato lo status di figlio naturale riconosciuto. Anzi, è la stessa mamma che può presentare domanda, se il figlio è ancora minore e nel suo interesse, di risarcimento danni.
Il caso
È quanto emerge dalla sentenza 16551/10 con cui la Cassazione ha respinto il ricorso di un padre, dichiarato tale giudizialmente, che lamentava la violazione degli articoli 99 e 100 Cpc in ordine alla sua condanna al pagamento di venticinque mila euro quale risarcimento del danno alla minore.
In pratica, l’uomo riteneva che non fosse legittimata ad una tale richiesta la madre della bimba. Ma la Suprema corte è stata di diverso avviso e, in maniera concisa, ha spiegato che nel caso in esame la domanda principale (dichiarazione giudiziale di paternità) era stata proposta dalla madre, nell'interesse della minore, e dunque essa ben poteva richiedere, ancora nell’interesse di questa, la condanna del genitore dichiarato al risarcimento del danno.
http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/famiglia-successioni/news/articolo/lstp/313382/
Il caso
È quanto emerge dalla sentenza 16551/10 con cui la Cassazione ha respinto il ricorso di un padre, dichiarato tale giudizialmente, che lamentava la violazione degli articoli 99 e 100 Cpc in ordine alla sua condanna al pagamento di venticinque mila euro quale risarcimento del danno alla minore.
In pratica, l’uomo riteneva che non fosse legittimata ad una tale richiesta la madre della bimba. Ma la Suprema corte è stata di diverso avviso e, in maniera concisa, ha spiegato che nel caso in esame la domanda principale (dichiarazione giudiziale di paternità) era stata proposta dalla madre, nell'interesse della minore, e dunque essa ben poteva richiedere, ancora nell’interesse di questa, la condanna del genitore dichiarato al risarcimento del danno.
http://www3.lastampa.it/i-tuoi-diritti/sezioni/famiglia-successioni/news/articolo/lstp/313382/
Cassazione: figli negati? il coniuge va risarcito per il mancato affetto
Figli negati? Il coniuge cui vengono rese difficoltose le visite va risarcito per il mancato affetto. Lo rileva la Cassazione nell'accordare tremila euro di risarcimento ad un papa' di Ravenna, A. T., la cui ex moglie aveva "pretestuosamente negato l'esercizio del diritto di visita" della figlia quattordicenne. Secondo piazza Cavour, oltre alla condanna prevista dall'art. 388 c.p. che punisce la mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice, il coniuge cui viene negato questo diritto deve avere il risarcimento del danno morale per il "rapporto difficoltoso" con la prole.
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Cassazione-figli-negati-il-coniuge-va-risarcito-per-il-mancato-affetto_900508937.html
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Cassazione-figli-negati-il-coniuge-va-risarcito-per-il-mancato-affetto_900508937.html
Non sempre l’addebito della separazione spetta al coniuge infedele.
Il coniuge che tradisce non è sempre il colpevole della separazione. Lo afferma una sentenza della Corte di Cassazione (n.16873/2010) dove si fa notare che se l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale determina l’impossibilità di proseguire la convivenza, bisogna sempre accertare se esiste effettivamente un nesso tra l’infedeltà e la crisi di coppia.
Solo dopo un esame complessivo del comportamento di entrambi i coniugi, per verificare se esisteva una crisi già in atto, si può escludere l’addebito al coniuge infedele.
Quando invece sono entrambi i coniugi a violare i doveri che discendono dal matrimonio, il fatto che uno dei due abbia tradito non giustifica l’addebito della separazione, se precedentemente esistevano i presupposti di una crisi che rendeva impossibile la convivenza.
A conferma di questo c’è il caso preso in esame dalla Corte che riguarda una ex moglie a cui i giudici di merito avevano attribuito la colpa della separazione per un unico ed isolato episodio di tradimento, senza considerare i comportamenti del marito che aveva nascosto per ben due anni alla moglie la sua incapacità di procreare.
La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. 13431/08) ribaltò la sentenza perchè ” uno dei coniugi aveva tenuto un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio rendendo impossibile la convivenza”.
Per questo forse certe omissioni, falsità o violenze psicologiche che si verificano prima del tradimento, sono le cause scatenanti della crisi coniugale.
http://www.ilnord.com/2010/08/23/non-sempre-l%E2%80%99addebito-della-separazione-spetta-al-coniuge-infedele/
Solo dopo un esame complessivo del comportamento di entrambi i coniugi, per verificare se esisteva una crisi già in atto, si può escludere l’addebito al coniuge infedele.
Quando invece sono entrambi i coniugi a violare i doveri che discendono dal matrimonio, il fatto che uno dei due abbia tradito non giustifica l’addebito della separazione, se precedentemente esistevano i presupposti di una crisi che rendeva impossibile la convivenza.
A conferma di questo c’è il caso preso in esame dalla Corte che riguarda una ex moglie a cui i giudici di merito avevano attribuito la colpa della separazione per un unico ed isolato episodio di tradimento, senza considerare i comportamenti del marito che aveva nascosto per ben due anni alla moglie la sua incapacità di procreare.
La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. 13431/08) ribaltò la sentenza perchè ” uno dei coniugi aveva tenuto un comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio rendendo impossibile la convivenza”.
Per questo forse certe omissioni, falsità o violenze psicologiche che si verificano prima del tradimento, sono le cause scatenanti della crisi coniugale.
http://www.ilnord.com/2010/08/23/non-sempre-l%E2%80%99addebito-della-separazione-spetta-al-coniuge-infedele/
L'assegnazione della casa coniugale ed il comodato di immobile
Con una recente sentenza la Corte di Cassazione, in ottemperanza ad un orientamento che sembrava superato da una peraltro altrettanto recente pronuncia delle Sezioni Unite, ha statuito che “i suoceri possono chiedere alla nuora la restituzione della casa concessa in comodato a lei e al figlio, e adibita ad abitazione familiare, anche se dopo la separazione l'immobile è stato assegnato alla donna affidataria dei figli. Ciò in quanto la fattispecie integra il cosiddetto comodato precario, caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vincolo è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che la circostanza che l'immobile sia stato adibito a uso familiare e sia stato assegnato, in sede di separazione tra coniugi, all'affidatario dei figli” (Cass. Civ. Sez. III – Sent. 7 luglio 2010 n. 15986).
Innanzitutto, per cercare di comprenderne il significato e la rilevanza, è necessario definire il contratto di comodato. Detta fattispecie è regolata dall'art. 1803 c.c.. Tale disposizione, al I comma, prescrive che il comodato è il contratto col quale una parte consegna all'altra un bene mobile o immobile, affinchè se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il II comma del medesimo articolo specifica che il comodato è un negozio essenzialmente gratuito. Il comodato è contratto reale e si perfeziona con la traditio, cioè con la consegna della cosa. Lo stesso negozio assume carattere obbligatorio, nel senso che il comodatario acquista solo ed esclusivamente un diritto personale, in quanto non vi è mai il trasferimento della proprietà del bene concesso in uso. Poi, il comodato è caratterizzato dalla unilateralità, ovvero dal fatto per cui detto negozio sia connotato in genere dalla sussistenza di una obbligazione solo a carico di una della parti, cioè del comodatario, il quale è tenuto a restituire il bene che ha in godimento. Infine, la fattispecie de qua non necessita di forma scritta nemmeno quando riguardi beni immobili. Generalmente si ritiene che il negozio suddetto trovi la sua causa nel rapporto di cortesia e fiducia esistente tra le parti o nella volontà a sopperire ad un’esigenza altrui.
Come riportato sopra, uno degli elementi essenziali del comodato ex art 1803 II comma, sembrerebbe essere la gratuità. Infatti la previsione di un corrispettivo sarebbe incompatibile con lo schema tipico del comodato, che, come ho detto, si basa sulla fiducia, sulla cortesia o su una esigenza temporanea del comodatario. Tuttavia, la natura e la causa del negozio de quo non vengono meno nel caso in cui i contraenti si accordino per imporre un onere a carico del comodatario stesso. Infatti, il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per l'apposizione a carico del comodatario di un modus, di un onere, purchè esso non sia di consistenza tale da snaturare il rapporto de quo (Ex Multis: Cass. Civ. Sent. n. 485 del 2003). In altre parole, è necessario che tale modus non si ponga come corrispettivo del godimento della cosa ed assuma così la natura di una controprestazione. Inoltre, l'elemento della gratuità o della onerosità del contratto in esame deve valutarsi avuto riguardo alla causa del contratto stesso, intesa come funzione economico-sociale che il contratto medesimo è destinato obbiettivamente ad adempiere.
Quanto all'assegnazione della casa coniugale, nell'ambito del giudizio di separazione dei coniugi, sia consensuale che contenziosa, questo è un provvedimento che il giudice può adottare per tutelare l'interesse dei figli minori a conservare l'habitat familiare, inteso come il centro degli affetti e delle consuetudini in cui si è espressa la vita della famiglia. D'altro canto, salvo casi eccezionali, in mancanza di figli minori, ben difficilmente viene adottato per soddisfare le esigenze dell'altro coniuge economicamente debole. La legge prevede poi che dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori. Tale assegnazione, poi, incide in maniera rilevante sugli assetti economici del divorzio. Il giudice dunque, nel liquidare gli assegni di mantenimento per i figli e/o per l'altro coniuge, deve tenere conto del fatto che, se l'obbligato al pagamento di tali assegni è solitamente il coniuge estromesso dalla casa coniugale, questi dovrà affrontare anche le spese per la propria sistemazione abitativa. Infine, il coniuge estromesso dall'abitazione coniugale non perde la titolarità dei suoi diritti sulla casa in seguito al provvedimento di assegnazione: rimane proprietario o comproprietario dell'immobile. Egli perde, invece, le facoltà di abitare e di disporre materialmente della casa, perché il provvedimento di assegnazione crea un diritto di godimento a favore del coniuge assegnatario.
Tornando alla pronuncia in epigrafe, questa riprende l'orientamento meno recente e più risalente per cui la disciplina dell'immobile dato in comodato è prevalente rispetto all'assegnazione della casa coniugale. Pertanto, anche se la abitazione coniugale sia stata assegnata alla moglie ed ai figli, il comodante più chiederne per iscritto, ed ottenere, la restituzione in qualsiasi momento. In tal senso, per esempio alcune pronunce di merito: “Quando l'immobile adibito a casa familiare sia concesso ai coniugi in comodato precario, il provvedimento giudiziale di assegnazione in sede di separazione coniugale ex art. 155, comma 4, c.c., determina la successione del coniuge assegnatario nel rapporto di comodato, ma non modifica i termini originari del rapporto e, in particolare, non esclude il diritto del comodante di recedere "ad nutum" dallo stesso” (Trib. Cagliari, 14/12/1999).
Inoltre, “A nulla rileva l'opposizione del provvedimento dell'assegnazione della casa coniugale al comodante dell'immobile che ne richieda la restituzione all'assegnatario posto che l'utilizzo dell'immobile è regolato dalle norme su comodato, da ritenersi prevalenti” (Trib. Palermo, 13/06/2003).
Infine, sulla medesima linea la Cassazione che aveva statuito,a d esempio “poichè l'assegnazione della casa coniugale ad un coniuge, in seguito alla separazione, non fa venir meno, in analogia a quanto dispone l'art. 6 l. 27 luglio 1978 n. 392, il contratto di comodato, l'applicazione della relativa disciplina permane e pertanto, se un genitore concede un immobile in comodato per l'abitazione della costituenda famiglia non è obbligato al rimborso delle spese, non necessarie nè urgenti, sostenute da un coniuge durante la convivenza familiare per la migliore sistemazione dell'abitazione coniugale” (Cass. civ., Sez. III, 04/03/1998, n.2407).
D'altro canto, in forza dell'orientamento opposto, l'assegnazione della casa coniugale avrebbe dovuto prevalere sul contratto di comodato. Pertanto, il comodante avrebbe potuto riottenere la casa solo in presenza di un sopravvenuto urgente ed imprevisto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c., secondo comma. Infatti, “Quando il provvedimento di assegnazione della casa familiare, in seno alla separazione personale dei coniugi, si renda opponibile e quando - in questo caso - l'alloggio fosse utilizzato dai coniugi stessi in virtù di un comodato senza predeterminazione di un termine finale, la durata dell'utilizzazione dell'immobile è governata dalla disciplina fissata nel provvedimento giudiziale di assegnazione e non da quella propria del rapporto originario di comodato” (Cass. civ., Sez. I, 10/12/1996, n.10977).
In seguito, la Cassazione a Sezioni Unite, aveva risolto il conflitto dì pronunce con una sentenza a Sezioni Unite del 2004: “Quando un terzo (nella specie: il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento - pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio - di assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull'immobile, atteso che l'ordinamento non stabilisce una "funzionalizzazione assoluta" del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Infatti, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a "concentrare" il godimento del bene in favore della persona dell'assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale. Di conseguenza, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c., secondo comma” (Cass. civ., Sez. Unite, 21/07/2004, n.13603).
http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=1963
Innanzitutto, per cercare di comprenderne il significato e la rilevanza, è necessario definire il contratto di comodato. Detta fattispecie è regolata dall'art. 1803 c.c.. Tale disposizione, al I comma, prescrive che il comodato è il contratto col quale una parte consegna all'altra un bene mobile o immobile, affinchè se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il II comma del medesimo articolo specifica che il comodato è un negozio essenzialmente gratuito. Il comodato è contratto reale e si perfeziona con la traditio, cioè con la consegna della cosa. Lo stesso negozio assume carattere obbligatorio, nel senso che il comodatario acquista solo ed esclusivamente un diritto personale, in quanto non vi è mai il trasferimento della proprietà del bene concesso in uso. Poi, il comodato è caratterizzato dalla unilateralità, ovvero dal fatto per cui detto negozio sia connotato in genere dalla sussistenza di una obbligazione solo a carico di una della parti, cioè del comodatario, il quale è tenuto a restituire il bene che ha in godimento. Infine, la fattispecie de qua non necessita di forma scritta nemmeno quando riguardi beni immobili. Generalmente si ritiene che il negozio suddetto trovi la sua causa nel rapporto di cortesia e fiducia esistente tra le parti o nella volontà a sopperire ad un’esigenza altrui.
Come riportato sopra, uno degli elementi essenziali del comodato ex art 1803 II comma, sembrerebbe essere la gratuità. Infatti la previsione di un corrispettivo sarebbe incompatibile con lo schema tipico del comodato, che, come ho detto, si basa sulla fiducia, sulla cortesia o su una esigenza temporanea del comodatario. Tuttavia, la natura e la causa del negozio de quo non vengono meno nel caso in cui i contraenti si accordino per imporre un onere a carico del comodatario stesso. Infatti, il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per l'apposizione a carico del comodatario di un modus, di un onere, purchè esso non sia di consistenza tale da snaturare il rapporto de quo (Ex Multis: Cass. Civ. Sent. n. 485 del 2003). In altre parole, è necessario che tale modus non si ponga come corrispettivo del godimento della cosa ed assuma così la natura di una controprestazione. Inoltre, l'elemento della gratuità o della onerosità del contratto in esame deve valutarsi avuto riguardo alla causa del contratto stesso, intesa come funzione economico-sociale che il contratto medesimo è destinato obbiettivamente ad adempiere.
Quanto all'assegnazione della casa coniugale, nell'ambito del giudizio di separazione dei coniugi, sia consensuale che contenziosa, questo è un provvedimento che il giudice può adottare per tutelare l'interesse dei figli minori a conservare l'habitat familiare, inteso come il centro degli affetti e delle consuetudini in cui si è espressa la vita della famiglia. D'altro canto, salvo casi eccezionali, in mancanza di figli minori, ben difficilmente viene adottato per soddisfare le esigenze dell'altro coniuge economicamente debole. La legge prevede poi che dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori. Tale assegnazione, poi, incide in maniera rilevante sugli assetti economici del divorzio. Il giudice dunque, nel liquidare gli assegni di mantenimento per i figli e/o per l'altro coniuge, deve tenere conto del fatto che, se l'obbligato al pagamento di tali assegni è solitamente il coniuge estromesso dalla casa coniugale, questi dovrà affrontare anche le spese per la propria sistemazione abitativa. Infine, il coniuge estromesso dall'abitazione coniugale non perde la titolarità dei suoi diritti sulla casa in seguito al provvedimento di assegnazione: rimane proprietario o comproprietario dell'immobile. Egli perde, invece, le facoltà di abitare e di disporre materialmente della casa, perché il provvedimento di assegnazione crea un diritto di godimento a favore del coniuge assegnatario.
Tornando alla pronuncia in epigrafe, questa riprende l'orientamento meno recente e più risalente per cui la disciplina dell'immobile dato in comodato è prevalente rispetto all'assegnazione della casa coniugale. Pertanto, anche se la abitazione coniugale sia stata assegnata alla moglie ed ai figli, il comodante più chiederne per iscritto, ed ottenere, la restituzione in qualsiasi momento. In tal senso, per esempio alcune pronunce di merito: “Quando l'immobile adibito a casa familiare sia concesso ai coniugi in comodato precario, il provvedimento giudiziale di assegnazione in sede di separazione coniugale ex art. 155, comma 4, c.c., determina la successione del coniuge assegnatario nel rapporto di comodato, ma non modifica i termini originari del rapporto e, in particolare, non esclude il diritto del comodante di recedere "ad nutum" dallo stesso” (Trib. Cagliari, 14/12/1999).
Inoltre, “A nulla rileva l'opposizione del provvedimento dell'assegnazione della casa coniugale al comodante dell'immobile che ne richieda la restituzione all'assegnatario posto che l'utilizzo dell'immobile è regolato dalle norme su comodato, da ritenersi prevalenti” (Trib. Palermo, 13/06/2003).
Infine, sulla medesima linea la Cassazione che aveva statuito,a d esempio “poichè l'assegnazione della casa coniugale ad un coniuge, in seguito alla separazione, non fa venir meno, in analogia a quanto dispone l'art. 6 l. 27 luglio 1978 n. 392, il contratto di comodato, l'applicazione della relativa disciplina permane e pertanto, se un genitore concede un immobile in comodato per l'abitazione della costituenda famiglia non è obbligato al rimborso delle spese, non necessarie nè urgenti, sostenute da un coniuge durante la convivenza familiare per la migliore sistemazione dell'abitazione coniugale” (Cass. civ., Sez. III, 04/03/1998, n.2407).
D'altro canto, in forza dell'orientamento opposto, l'assegnazione della casa coniugale avrebbe dovuto prevalere sul contratto di comodato. Pertanto, il comodante avrebbe potuto riottenere la casa solo in presenza di un sopravvenuto urgente ed imprevisto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c., secondo comma. Infatti, “Quando il provvedimento di assegnazione della casa familiare, in seno alla separazione personale dei coniugi, si renda opponibile e quando - in questo caso - l'alloggio fosse utilizzato dai coniugi stessi in virtù di un comodato senza predeterminazione di un termine finale, la durata dell'utilizzazione dell'immobile è governata dalla disciplina fissata nel provvedimento giudiziale di assegnazione e non da quella propria del rapporto originario di comodato” (Cass. civ., Sez. I, 10/12/1996, n.10977).
In seguito, la Cassazione a Sezioni Unite, aveva risolto il conflitto dì pronunce con una sentenza a Sezioni Unite del 2004: “Quando un terzo (nella specie: il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento - pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio - di assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull'immobile, atteso che l'ordinamento non stabilisce una "funzionalizzazione assoluta" del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Infatti, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a "concentrare" il godimento del bene in favore della persona dell'assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale. Di conseguenza, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c., secondo comma” (Cass. civ., Sez. Unite, 21/07/2004, n.13603).
http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=1963
Cassazione: per l'addebito della separazione non basta accertare la violazione dei doveri reciproci dei coniugi
La Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito "non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c.". La norma che tratta dei "Diritti e doveri reciproci dei coniugi" prevede tra le altre cose il dovere reciproco di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell'interesse della famiglia, di coabitazione e di contribuzione ai bisogni della famiglia. Secondo la Corte (sentenza n. 16614/2010) per motivare l'addebito è necessario accertare se tale violazione, "lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata e in conseguenza di una situazione di intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale". Il problema duque, ancora una volta, è quello di identificare cosa ha realmente deteminato la crisi coniugale, crisi che potebbe preesistere alla violazione di uno dei doveri che discendono dal matrimonio. L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi della intollerabilità della convivenza - scrive la Corte - "è istituzionalmente riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione congrua e logica".
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8885.asp
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8885.asp
SCHEDE: Dichiarazione giudiziale di paternità o maternità
Il figlio, che non sia stato riconosciuto da uno o da entrambi i genitori, può presentare un ricorso affinché il tribunale accerti con una sentenza chi sia il genitore e, di conseguenza, dichiari lo "status" di figlio naturale riconosciuto.
Il figlio può chiedere in qualunque momento della sua vita la dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) nei confronti del presunto padre e/o della presunta madre.
Se il presunto genitore è morto l’azione può essere iniziata nei confronti degli eredi.
Se il figlio muore l'azione dovrà essere iniziata dai suoi discendenti entro due anni dalla data della morte. Decorso tale termine l'azione non si può più presentare.
Se il figlio è minorenne l'azione può essere promossa nel suo interesse dalla madre (o dal padre) che lo abbia già riconosciuto.
Se nessuno dei genitori ha riconosciuto il figlio ancora minorenne l'azione può essere promossa dal tutore, previa autorizzazione del tribunale per i minorenni.
Se il figlio minorenne ha sedici anni occorre il suo consenso per promuovere o proseguire l’azione.
Per altre informazioni:
Tribunale di Genova
Normativa di riferimento:
artt. 269 e seguenti cod.civ.
Per richiedere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità si deve presentare istanza al tribunale - sezione di volontaria giurisdizione del luogo dove risiede il presunto genitore o, qualora quest'ultimo sia morto, dove risiede uno dei suoi eredi.
Nel caso in cui il figlio sia minorenne la competenza spetta al tribunale per i minorenni del luogo dove il presunto genitore risiede.
Il tribunale deve preliminarmente valutare con un'indagine sommaria (giudizio di ammissibilità) l'esistenza degli elementi affinché la domanda possa essere portata alla decisione di merito.
I recapiti dei tribunali
I recapiti dei tribunali per i minorenni
http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_1_1.wp?tab=w
Il figlio può chiedere in qualunque momento della sua vita la dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) nei confronti del presunto padre e/o della presunta madre.
Se il presunto genitore è morto l’azione può essere iniziata nei confronti degli eredi.
Se il figlio muore l'azione dovrà essere iniziata dai suoi discendenti entro due anni dalla data della morte. Decorso tale termine l'azione non si può più presentare.
Se il figlio è minorenne l'azione può essere promossa nel suo interesse dalla madre (o dal padre) che lo abbia già riconosciuto.
Se nessuno dei genitori ha riconosciuto il figlio ancora minorenne l'azione può essere promossa dal tutore, previa autorizzazione del tribunale per i minorenni.
Se il figlio minorenne ha sedici anni occorre il suo consenso per promuovere o proseguire l’azione.
Per altre informazioni:
Tribunale di Genova
Normativa di riferimento:
artt. 269 e seguenti cod.civ.
Per richiedere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità si deve presentare istanza al tribunale - sezione di volontaria giurisdizione del luogo dove risiede il presunto genitore o, qualora quest'ultimo sia morto, dove risiede uno dei suoi eredi.
Nel caso in cui il figlio sia minorenne la competenza spetta al tribunale per i minorenni del luogo dove il presunto genitore risiede.
Il tribunale deve preliminarmente valutare con un'indagine sommaria (giudizio di ammissibilità) l'esistenza degli elementi affinché la domanda possa essere portata alla decisione di merito.
I recapiti dei tribunali
I recapiti dei tribunali per i minorenni
http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_1_1.wp?tab=w
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