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Pagata meno degli uomini, fa causa e i giudici le danno ragione

In Francia la Corte di cassazione accoglie il ricorso di una dipendente che aveva fatto causa per "discriminazione salariale"

In Francia una decisione della Corte di Cassazione ha dato ragione a una dipendente che aveva denunciato il proprio datore di lavoro per discriminazione salariale legata al genere con una comparazione dei suoi compensi con quelli dei suoi colleghi uomini, anche se questi non esercitavano le stesse mansioni.
Tra la donna e i suoi colleghi maschi, scrive la sentenza della Corte d'appello di Parigi approvata dalla Cassazione, c'è "lo stesso livello gerarchico, di classificazione, di responsabilità e di importanza riguardo il funzionamento dell'azienda". Inoltre ci sono "capacità comparabili e un carico di stress dello stesso tipo". La signora in questione è una responsabile delle risorse umane di un'azienda francese, che ha preso come termini di paragone per corroborare la sua causa gli stipendi dei colleghi uomini, alla direzione della politica commerciale e finanziaria, membri come lei del comitato di direzione.
La donna, si legge nella decisione del giudice ripresa dal quotidiano economico Les Echos, ha "un'anzianità maggiore e un livello di studi simile" a quello dei colleghi, ma era meno pagata, senza che il datore di lavoro avesse apportato "prova di elementi altri alla discriminazione che giustificassero questa disparità di trattamento".
Secondo uno studio dell'Ocse pubblicato ieri, le donne in Francia continuano ad essere pagate meno degli uomini e a ottenere promozioni con maggiore difficoltà per colpa in particolare dei timori legati alla maternità. In media il gentil sesso ha un stipendio inferiore del 19 per cento (differenza che sale al 27 per cento tra i 39 e i 49 anni); inoltre lo scarto tra i salari tra i due sessi a parità di competenze è del 10 per cento e tra i dirigenti sale al 30,8 per cento.

http://www.ilgiornale.it/esteri/pagata_meno_uomini_fa_causa_e_giudici_danno_ragione/cronaca-attualit-cassazione_discriminazione_salariale/13-08-2010/articolo-id=466973-page=0-comments=1

Germania: divieto di pubblicazione di procedimenti giudiziari

Brevissima esposizione della normativa prevista dal codice penale tedesco

A

È punito con la pena detentiva fino ad un anno o con la pena pecuniaria chiunque:
1) nonostante la sussistenza di un divieto - sancito per legge - rende pubblico quanto avvenuto in un’udienza tenutasi a porte chiuse oppure pubblica un documento redatto da una pubblica autorità o che comunque fa parte degli atti processuali;
2) contrariamente all’obbligo di segretezza, disposto dall’autorità giudiziaria in ossequio ad una norma di legge, rende pubblico fatti appresi in occasione di un’udienza tenutasi a porte chiuse ovvero un documento, redatto da una pubblica autorità o che comunque è entrato a far parte degli atti di un processo;
3) pubblica integralmente il capo di imputazione o altri documenti redatti da una pubblica autorità o che comunque fanno parte degli atti di un procedimento penale, di un procedimento per decreto penale o di un procedimento disciplinare oppure ne pubblica testualmente una parte rilevante per estratto, prima della pubblica udienza oppure prima della conclusione del procedimento (cioè prima del passaggio in giudicato della sentenza).


B

Con questi divieti il legislatore si è prefisso l’obiettivo di tutelare l’amministrazione della giustizia in genere. Inoltre, con le fattispecie sub 1) e 2), si prosegue anche lo scopo di tutelare la sicurezza dello Stato e gli interessi alla segretezza dello stesso, mentre con quella sub 3) si vuole tutelare l’indagato/imputato dai danni che potrebbero derivare da una pubblicazione anzitempo del contenuto di atti processuali. Un altro fine della norma de qua è quello di non pregiudicare la "Unvoreingenommenheit" dei testi e/o dei giudici popolari eventualmente chiamati a far parte del collegio giudicante e a prevenire, in tal modo, possibili ricusazioni.


C

Il disposto sub 1) si riferisce a giornalisti della carta stampata, della radio e della televisione. Per pubblicazione si intende la diffusione della notizia - non ancora nota all’opinione pubblica - ad una cerchia indeterminata di persone. Oggetto del reato possono essere il capo di imputazione, la sentenza (non ancora passata in giudicato), i verbali di interrogatorio nonché i verbali di udienza. Il reato sub 1) è reato di pericolo.


D

Possono commettere il reato sub 2) tutte le persone presenti all’udienza tenutasi a porte chiuse. Viola l’obbligo di segretezza chi informa una terza persona in ordine a fatti di cui essa non era ancora conoscenza e che l’autore del reato ha appreso direttamente in occasione di un’udienza svoltasi a porte chiuse. L’obbligo di segretezza può riguardare non soltanto l’interesse alla sicurezza dello Stato, ma anche l’interesse ad evitare la diffusione di segreti industriali, di produzione o di invenzioni. Non integrano il reato de quo pubblicazioni indispensabili per fini investigativi, fatte da organi di polizia o giudiziari e quelle necessarie al fine di individuare testimoni importanti.


E

Oggetto del reato sub 3) sono documenti relativi ad uno dei procedimenti sopra indicati. I documenti devono essere rilevanti, cioè di notevole importanza per il procedimento o per le parti processuali; secondo una tesi minoritaria, sarebbero rilevanti quelli atti a provocare una discussione pubblica in ordine alla possibile conclusione del procedimento. Autore del reato può essere anche l’imputato stesso. Il reato sussiste anche se l’imputato ha dato il suo consenso alla pubblicazione.

Qualora vengano pubblicate soltanto parti rilevanti dei documenti sopra specificati, ai fini della sussistenza del reato è necessario che la pubblicazione abbia ad oggetto parti nel loro tenore letterale. La pubblicazione di riassunti non integra la fattispecie sub 3).

Anche per la sussistenza del reato de quo è richiesto il dolo, perlomeno eventuale.


F

La normativa ora esposta - alquanto rigida - è stata oggetto di notevole critica non soltanto da parte di giornalisti. Vi sono state proposte di legge - che si sono richiamate ai principi sanciti nell’art.5 del Grundgesetz (= Cost. federale)**, cioè al diritto all’informazione nella sua duplice accezione di diritto di informare e diritto di essere informati - di cui una intesa addirittura alla abrogazione totale di una normativa del genere, eccessivamente restrittiva per i media nell’adempimento del loro diritto-dovere all’informazione e poco gradita alla opinione pubblica per i vincoli imposti agli operatori di radio e TV nonché a quelli della carta stampata. Questa proposta, presentata più volte e anche da partiti politici diversi, non ha tuttavia trovato - finora - una maggioranza in sede parlamentare, avendo il legislatore ritenuto che si debba accordare la prevalenza agli interessi menzionati nella parte introduttiva del presente articolo.

http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=1946

Parigi, una legge per dimenticare

Perché attraverso la rete non vengano accumulati indebitamente dati relativi ai cittadini. L'indirizzo IP diverrebbe un'informazione personale sensibile
Roma - La Francia si appresta a votare una proposta di legge a garanzia della privacy e in particolare al cosiddetto diritto all'oblio su Internet.

I principali punti affrontati riguardano gli indirizzi IP e i cookie: i primi, secondo l'articolo 2 della proposta, andrebbero considerati dati personali, per i secondi si chiede che i netoyen siano sempre informati allorché tali dati vengono raccolti o immagazzinati. C'è da chiedersi se la specificazione circa la natura personale e tutelata dell'indirizzo IP possa avere conseguenze più o meno dirette sulla applicazione della dottrina Sarkozy, che colpevolizza un indirizzo IP che si macchi di violazione del diritto d'autore, indipendentemente da quanti individui rappresenti in rete.

Nella proposta di legge, inoltre, si esprimono una serie di regole e disposizioni affinché le persone possano chiedere e sapere come eliminare i dati raccolti da società o altri soggetti. All'art. 6, in particolare, vengono stilate una serie di regole per garantire trasparenza nel trattamento delle informazioni personali.
Si chiede, in pratica, che siano pubblici il responsabile per il trattamento dei dati raccolti, le disposizioni a cui sono sottoposti e i diritti che si hanno. Chiarendo in questo modo semplicemente normative già in vigore in materia di privacy e normativa relativa alla Rete.

Se approvata, verrebbe inoltre imposto alle imprese di notificare al CNIL (Commission nationale de l'informatique et des libertés) eventuali falle riscontrate nel loro sistema di sicurezza, i cui poteri sanzionativi sono aumentati, incrementando il suo ruolo di vigile in Rete.

Oltre a parlare di privacy o diritto all'oblio, tuttavia, la proposta chiede che verso i giovani siano predisposte politiche educative che mettano in luce l'esistenza, la portata e il significato del diritto d'autore e sensibilizzino a un utilizzo responsabile della Rete, sia per quanto riguarda le alternative legali al download illegale, sia per i contenuti pornografici o in altro modo censurabili.

fonte http://punto-informatico.it/2840606/PI/News/parigi-una-legge-dimenticare.aspx

Microsoft non potra' piu' vendere Word

Incredibile notizie da oltreoceano. Microsoft ha violato un brevetto altrui nel proprio famoso programma di editing di testo.
La vicenda risale al lontano 2007, quando la I4i Inc. ha fatto causa contro il gigante di Redmond per segnalare che Microsoft utilizzava un proprio brevetto, risalente al 1998 (n. 5,787,449), riguardante un metodo per leggere file Xml. Il Giudice ha condannato Microsoft, altresi', al pagamento di 290 milioni di dollari alla controparte, oltre interessi e spese legali
fonte studiocelentano

DIRITTO COMPARATO: USA - Stalking via internet, Google non poteva rivelare il nome del blogger "aggressore"

La decisione in epigrafe è stata emanata a seguito dell'azione giudiziaria proposta da una nota modella canadese, L. C., che si è vista diffamare anonimamente su un blog della piattaforma di Google, Blogger, con epiteti molto grevi e pesanti nonché con l'attribuzione di una condotta sessualmente promiscua.
La donna ha ottenuto dal giudice newyorkese di conoscere il nome di chi l'attaccava così duramente e infondatamente a livello personale.
Il giudice, accogliendo le sue richieste, ha affermato che nello specifico contesto del blog, gli epiteti volgari utilizzati nei confronti della modella non trovavano una giustificazione ragionevole e si potevano considerare insulti lesivi della sua onorabilità.Il giudice ha rifiutato l'argomentazione in difesa dell' “Anonymous Blogger” il quale sosteneva che il blog, grazie ai commenti, è diventato un moderno forum quotidiano per comunicare opinioni personali, incluse quelle insultanti.
Il riferimento alla libertà di espressione è chiaro, ciò nonostante il giudice fa riferimento a precedenti giurisprudenziali che in materia affermano il contrario.
Sostiene il giudice newyorkese: “Poichè Internet offre un mezzo di comunicazione virtuale, illimitato, economico ed immediato utilizzato da decine, se non centinaia di milioni di persone, i pericoli non possono essere ignorati. La protezione del diritto di comunicare anonimamente deve essere bilanciata con la necessità di assicurare che quelle persone che abusano delle potenzialità offerte da questo mezzo rispondano delle loro trasgressioni. Coloro che soffrono di danni conseguenti alle comunicazioni offensive dovrebbero trovare rimedi appropriati per prevenire i malfattori dal profittare dello scudo offerto dal Primo Emendamento”.
Google ha obbedito all'ordine del giudice di New York rivelando pubblicamente il nome della blogger che aveva intrapreso l'attività di cyberstalking: la studentessa di moda, R. P.
Costei, ormai non più anonima, ha deciso di reagire depositando una richiesta di risarcimento dei danni per 15 milioni di dollari contro Google, per aver violato la fiducia che ella nutriva sulla protezione della sua privacy da parte del provider.
La questione si è già posta in passato e i giudici si sono divisi sul riconoscimento della responsabilità dell'autore di affermazioni ingiuriose.
Questa decisione si inserisce in tale dibattito con una nota innovativa, ovvero la reazione della parte condannata.
Seppure sia condivisibile l'argomentazione giurisprudenziale che censura le applicazioni pretestuose del Primo Emendamento, tuttavia il problema si pone in merito alle modalità di rivelazione del nome della blogger anonima: avrebbe dovuto essere reso completamente pubblico o rivelato esclusivamente all'attrice? Esiste un interesse della collettività degli utenti di Internet alla conoscenza dell'identità della cyberstalker?
La risposta, fattuale più che giuridica, sembrerebbe essere negativa.
Va comunque ricordato che l'anonimato in Internet è un concetto alquanto relativo, essendo ogni utente identificato dal numero di Internet Protocol, ciò comporta che non si è mai veramente anonimi in Internet.
In questo ambito ci si può porre una ulteriore domanda che riguarda la natura stessa della Rete relativamente alla fondatezza giuridica dell'ordine, nonostante le condivisibili argomentazioni espresse dal giudice della Corte Suprema di New York.
Negli Stati Uniti la materia è regolata dalla Sect. 230 del Communication Decency Act del 1996 , però mai nominato nella decisione in commento.
Esso garantisce ai blogger l'immunità per le opinioni da loro espresse in Rete in nome di due principi: da un lato il libero scambio di informazioni e idee in Internet, dall'altro l'incoraggiamento degli Internet Providers alla autoregolamentazione contro la diffusione di materiale offensivo per mezzo dei loro servizi.
Ne conseguirebbe quindi che la richiesta della modella L. C. non avrebbe dovuto trovare soddisfazione e quindi il blogger colpevole di cyberstalking avrebbe mantenuto il suo anonimato.
Una siffatta soluzione non può più considerarsi soddisfacente.
Da quando il Communication Decency Act è stato promulgato sono trascorsi più di 10 anni, molte cose sono cambiate in Rete, a partire dalla sua esplosiva diffusione.
Sembrerebbe quindi giunto il momento di compilare un bilancio in merito all'efficienza di questo principio, soprattutto in merito alla garanzia della privacy nei confronti di chi compie azioni di persecuzioni diffamatorie come quella descritta nella decisione in esame.
Tuttavia vi è un altro importante elemento da tenere in considerazione, cioè la responsabilità del provider e la possibile equiparazione di questa a quella editoriale.
Le conseguenze di un mutamento di disciplina rischierebbero di stravolgere Internet decimando i piccoli provider poiché solo i grandi colossi avrebbero gli strumenti finanziari e legali per far fronte a questo tipo di rischi.
Inevitabilmente ciò comporterebbe la riduzione dello spazio di libertà e di scambio di informazioni che la Rete ha finora garantito.
In conclusione, il dibattito su questo tema è aperto e coinvolge tutti i fruitori della Rete, nella difficile ricerca di un possibile equilibrio tra tutela della libertà di espressione e protezione della onorabilità delle persone, vista la potenza divulgativa delle informazioni, tanto vere quanto false, di Internet.
fonte: Il Quotidiano Giuridico
(Supreme Court of the State of New York County of New York - Sentenza 17/08/2009 - )