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Il Consiglio di Stato conferma lo stop al caro pedaggi sui raccordi autostradali dei ricorsi

Confermato lo stop agli aumenti dei pedaggi su autostrade e raccordi autostradali Anas decisi con la manovra economica, che erano scattati dal 1° luglio scorso ma erano stati bloccati dal Tar del Lazio a fine luglio. Ma solo nelle zone dove sono stati presentati i ricorsi. Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso contro la sospensiva presentata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dall'Anas. Ma ha anche chiarito che l'ordinanza con la quale il Tar del Lazio il 29 luglio scorso ha bloccato l'aumento dei pedaggi autostradali «deve essere interpretata nel senso di riferirsi non all'intero territorio nazionale, ma solo ai singoli segmenti stradali interessanti gli ambiti spaziali degli enti territoriali ricorrenti».

Il ricorso al Tar Lazio era stato presentato dalla Provincia di Roma, da quelle di Pescara e di Rieti e da alcuni comuni dell'hinterland romano. Le tratte interessavano soprattutto le zone della Capitale.

«Anche il Consiglio di stato conferma che le nostre argomentazioni erano giuste e sacrosante - ha commentato il presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti - Non solo, come poteva sembrare ovvio, dal punto di vista politico e sociale, ma anche da quello strettamente giuridico. Con la nostra forza e tenacia abbiamo vinto e dato un contributo determinante per seppellire questo odioso balzello che penalizzava in modo particolare chi vive, studia e lavora nel territorio romano».

«È evidente - ha detto il presidente del Codacons, Carlo Rienze - come ora le maggiori somme pagate ai caselli debbano essere restituite agli automobilisti, altrimenti si configurerebbero veri e propri reati a danno degli utenti». Secondo il Codacons la somma da restituire agli utenti per le maggiorazioni dei pedaggi ammonta a circa 8 milioni di euro. Per Federconsumatori e Adusbef lo stop ai pedaggi imposto dal Consiglio di Stato é «una
decisione importante, coerente con il pronunciamento del Tar, che comporterà, per le famiglie, un risparmio medio di 60 euro annui».

Si è conclusa, dunque, con tre ordinanze che hanno respinto le richiesta del Governo e dell'Anas, la discussione nel merito sulla vicenda degli aumenti sui raccordi stradali e autostradali Anas, che avevano colpito in particolare la Capitale. Già il 3 agosto il Consiglio aveva rigettato la richiesta di sospensiva delle ordinanze dei tribunali amministrativi Lazio e Piemonte avanzata dalla presidenza del Consiglio dei ministri e dall'Anas, che avevano presentato un contro-ricorso urgente contro la decisione dei Tar. Per il Tar l'aumento per essere coerente con la finalità annunciata, doveva assumere il carattere di corrispettivo per l'utilizzo di una infrastruttura e non quello di misura fiscale.

Quaranta minuti di discussione, molto articolata, in camera di consiglio ieri alla presenza degli avvocati delle parti, da un lato l'Avvocatura dello Stato, per illustrare le ragioni di Governo a Anas, dall'altro il pool di legali schierati nelle tre cause a ruolo: una contro la provincia di Roma, 40 Comuni dell'hinterland, oltre al Codacons, una contro la provincia di Pescara, la terza contro il comune di Fiano Romano.

L'Avvocatura dello Stato ha sostenuto che la norma non prevede una interconnessione necessaria, mentre per gli avvocati di province e comuni si trattava di una disposizione di natura fiscale, tanto che il Cdm è stato costretto ad approvare una norma ad hoc nel decreto legge Trasporti per la copertura dei mancati introiti di Anas.
Le ordinanze sono state comunicate alle parti oggi, visto che ieri era in programma l'esame di ben 113 cause (quelle sui pedaggi erano la 94, la 95 e la 96). «È stato premiato chi ha fatto ricorso - ha sottolineato Massimiliano Sieni, vice capo dell'Avvocatura della provincia di Roma - e il Consiglio di Stato ha ribadito che l'interesse al ricorso deve essere concreto».

Dopo la bocciatura il 3 agosto della sospensiva richiesta da Governo e Anas, sono stati cancellati gli aumenti Anas sui 26 raccordi stradali e autostradali e l'Esecutivo ha approvato una norma inserita nel decreto legge Trasporti, approvato il 4 agosto dal Cdm, che rinvia al 30 aprile 2011 l'applicazione della norma della manovra che ha dato il via al Dpcm attuativo, bocciato dai Tar Lazio e Piemonte. Gli 83 milioni di euro legati alla mancata applicazione della norma della manovra sono stati reperiti tramite ulteriori tagli lineari a tutti i ministeri.

Attenzione, però, il caro pedaggi resta. Perché in manovra era anche previsto l'aumento di un millesimo di euro a chilometro, dal 1° luglio, per le classi di pedaggio A e B e 3 millesimi di euro per le classi di pedaggio 3, 4 e 5. Aumenti che colpiscono chiunque entri in autostrada e comportano in media costi aggiuntivi del 5% con punte del 15-20 per cento. La manovra prevede anche dal 1° gennaio 2011, sempre in favore di Anas, l'aumento di 2 millesimi a chilometro per le classi di pedaggio A e B e 3 millesimi a chilometro per le classi di pedaggio 3, 4 e 5.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-09-01/consiglio-stato-conferma-stop-101100.shtml?uuid=AYTB6eLC

Al compimento del diciottesimo anno di età il minore straniero ha diritto ad ottenere il permesso di soggiorno

(Consiglio di Stato, Decisione 2 febbraio – 15 marzo 2010, n. 1478)

La sentenza impugnata ha respinto il ricorso proposto per l’annullamento del diniego di conversione del permesso di soggiorno per affidamento in permesso di soggiorno per lavoro subordinato, richiesto dal ricorrente al raggiungimento della maggiore età. Il questore di Alessandria ha respinto l’istanza richiamando la normativa in materia di minori non accompagnati, di cui al comma 1 bis dell’art. 32 d.lgs. n. 286 del 1998, che richiede il compimento di un percorso, almeno biennale, di integrazione sociale e civile presso una struttura appositamente dedicata. In realtà, il ricorrente, affidato ai sensi della legge n. 184 del 1983 dal giudice tutelare presso il Tribunale di Alessandria al fratello e alla cognata regolarmente soggiornanti in Italia, non può essere considerato minore non accompagnato: come questo Consiglio di Stato ha avvertito, l’art. 32 comma 1, d.lgs. Citato va interpretato nel senso che il permesso di soggiorno deve essere rilasciato anche quando il minore sia stato sottoposto a qualsivoglia tipo di affidamento ai sensi della l. n. 184 del 1983, non solo quello “amministrativo”, ma anche quello “giudiziario” (rispettivamente, art. 4 commi 1 e 2, l. n. 184 del 1983) e anche quello “di fatto” ai sensi dell’art. 2 della medesima legge. Invero, l’utilizzo dell’avverbio “comunque” da parte dell’art. 32 primo.....

fonte http://www.laprevidenza.it/news/famiglia-e-minori/al-compimento-del-diciottesimo-anno-di-eta-il-minore-straniero-ha-diritto/4535

Annullabilità della procedura concorsuale per eccessiva difficoltà delle prove

(Consiglio di Stato, Decisione 12.2.2010 n. 806 - Dario Immordino)
Nell’ipotesi in cui nella predispozione dei quesiti utili per selezionare i candidati che aspirino a risultare vincitori in un concorso pubblico la ditta incaricata non si limiti ad utilizzare i manuali normalmente predisposti per la tipologia concorsuale in parola, ma  utilizzi manuali specialistici, conferendo in questo modo ai questionari una tasso di difficoltà superiore al livello del concorso, l’annullamento della procedura concorsuale da parte del giudice amministrativo non costituisce esercizio di un sindacato esorbitante da quello consentito  (notoriamente limitato ai profili di irrazionalità), giacchè la valutazione dei giudici amministrativi non attiene alla violazione di un criterio di selezione ma ha ad oggetto un vizio logico-procedimentale dell'azione amministrativa di valutazione, ravvisando contrasto con una specifica previsione del bando inerente il livello della preparazione richiesta e da accertarsi mediante i questionari.

In tal senso la predisposizione di determinati questionari, utili per selezionare i candidati che aspirino a risultare vincitori in un concorso pubblico, può essere oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo, se non altro al fine di verificare se l'amministrazione abbia o meno correttamente operato nel rispetto di quanto dalla stessa stabilito nel bando di concorso. L'ammissibilità di un tale sindacato discende direttamente dall'osservanza del principio di effettività della tutela ricavabile dagli art. 24 e 113, Cost.. Da ciò consegue che deve ritenersi corretto l'intervento del giudice amministrativo che comporti la rinnovazione del procedimento di selezione qualora ciò sia volto all'attuazione delle finalità sottese alle prescrizioni del bando e finalizzato nel contempo ad evitare che le carenze della "lex specialis" del concorso possano tradursi in una violazione di principi qualificanti presenti nel bando stesso. In applicazione dei suddetti principi, il Consiglio, ritenendo che nel caso sottoposto al sup giudizio il procedimento di formulazione dei quesiti non avesse osservato il concetto di "elementi o nozioni di diritto", prescritto dal bando, in quanto la ditta incaricata dalla p.a. di predisporre i quesiti non si era limitata ad utilizzare i manuali normalmente predisposti per la tipologia concorsuale in parola, ma aveva utilizzato manuali specialistici, conferendo in questo modo ai questionari una tasso di difficoltà superiore al livello del concorso, ha rilevato non la violazione di un criterio di selezione ma un vizio logico-procedimentale dell'azione amministrativa di valutazione, ravvisando contrasto con una specifica previsione del bando inerente il livello della preparazione richiesta e da accertarsi mediante i questionari.

fonte http://www.laprevidenza.it/news/leggi-e-normative/annullabilita-della-procedura-concorsuale-per-eccessiva-difficolt&agrave/4365

Privacy e Sanità : non sono dati ultra-sensibili gli indirizzi degli esaminati dalla Comm. medica

Il Consiglio di Stato, con la sua pronuncia numero 1869 del 9 gennaio 2009 ha preso in esame la richiesta di comunicazione presentata dall’ANMIC all’Azienda USL di Bologna e relativa agli elenchi di coloro che vengono sottoposti alla visita medica dalla Commissione Sanitaria degli invalidi civili.
L'Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi Civili, fondata nel 1956, è l'Associazione che per legge ha la rappresentanza e la tutela dell'intera categoria degli invalidi civili e, in sede istituzionale,è rappresentata in tutte le Commissioni mediche per il riconoscimento della stessa invalidità.

Questa Associazione ,cui era stata attribuita personalità giuridica pubblica con la legge 23 aprile 1965, n. 458, si è successivamente trasformata in ente morale con personalità giuridica di diritto privato per effetto del decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, ed è formata dai mutilati e invalidi civili che “… ad essa liberamente si associano”.

Il Consiglio di Stato con il suo pronunciamento, che ha fatto discutere ed ha avuto risonanza a livello nazionale, ha deciso di accogliere il ricorso presentato dall’associazione ANMIC contro l’azienda sanitaria, che aveva negato a questa taluni dei dati oggetto della richiesta .

L’Associazione aveva, infatti, richiesto all’Azienda Sanitaria di Bologna gli elenchi sopraccitati, basandosi sulle disposizioni dell’articolo 8 della Legge n. 118 del 1971 “Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili”.

L’azienda sanitaria, così come emerge dalla sentenza in commento, ha, in realtà  trasmesso gli elenchi richiesti ma ha omesso di trasmettere gli indirizzi privati degli interessati

La motivazione del rifiuto di comunicazione di tali indirizzi è stata quella di considerare gli indirizzi privati alla stregua di un dato ultra-sensibile ai sensi dell’art. 60 del Decreto Legislativo n. 196/03 “Codice in materia di protezione dei dati personali”, in quanto i soggetti interessati non avevano fornito il loro consenso espresso a tale trattamento di dati.

Per poter procedere ad un commento esaustivo della problematica oggetto della sentenza è necessario analizzare per prima cosa la questio iuris, e cioè se gli indirizzi privati si possono considerare, se relativi a soggetti sottoposti a particolari indagini e verifiche di salute, dati ultrasensibili ai sensi degli artt. 59 e 60 del Decreto Legislativo. n. 196 del 2003, articoli che disciplinano il bilanciamento tra diritto di accesso ai documenti amministrativi e tutela della riservatezza.

Al riguardo, correttamente, il giudice di secondo grado ha stabilito che “…né appare congrua e condivisibile l’ascrizione degli indirizzi privati dei soggetti esaminati dalla Commissione medica a quel ristretto gruppo di dati presidiati al particolare regime di tutela previsto dall’art. 60 del decreto legislativo n. 196/03, sotto il profilo che quegli indirizzi sarebbero capaci di svelare lo stato di salute degli interessati”.

La soluzione adottata per dirimere tale questione e quindi l’interpretazione che il Consiglio di Stato dà dell’art. 60 pare essere senza alcun dubbio corretta, in quanto non è possibile far rientrare gli indirizzi privati dei soggetti esaminati dalla Commissione medica in quel ristretto gruppo di dati disciplinati dall’art. 60, che attribuisce un rigoroso regime di tutela ai dati sensibili che sono anche idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale.

L’articolo in esame, infatti, regola il trattamento e l’accessibilità ai dati sensibili, previa richiesta motivata ai sensi dell’articolo 22 della Legge 241/90, solo qualora la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accedere a questi sia di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consista in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.

Tale ultima Legge, come noto, permette anche ai soggetti portatori di interessi diffusi, di accedere alla documentazione amministrativa, presentando richiesta motivata che, se mirante ad ottenere documenti contenenti dati sensibili e/o di salute, viene valutata operando anche un bilanciamento degli interessi tra trasparenza e privacy.

La sentenza non affronta, invece, il vero punto nodale dei rapporti tra ANMIC e azienda sanitaria,in quanto non si incentra sulla legittimità della richiesta di accedere ai nominativi degli invalidi civili, che viene soltanto inquadrata, invece, alla luce degli articoli 59 e 60 del decreto legislativo n. 196/03 e più in generale dell’articolo 22 della Legge n. 241/90.

A tale riguardo è da considerare che l’articolo 8 della Legge n. 118 del 30 marzo 1971, rubricato “Compiti della commissione sanitaria provinciale” prevede al comma 4° che gli elenchi nominativi dei mutilati siano trasmessi dalle aziende sanitarie anche all’Associazione Nazionale invalidi Civili di cui alla L. n. 458 del 1965.

Tale disposizione, che, in considerazione del momento storico in cui è stata disposta, prevedeva una funzione di tutela quasi obbligata dei soggetti “fragili”, a parer mio, non può essere che vista come una comunicazione obbligata di dati, non assimilabile all’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi di cui al citato articolo 22..

Ma se tale comunicazione di dati aveva, nel 1971, una sua indubbia valenza di sostegno, pare alla sottoscritta meno opportuno che oggi, in considerazione della natura privata dell’Associazione e delle sue norme statutarie che prevedono la libera associazione di coloro che rientrano in particolari condizioni, l’associazione tratti senza preventiva delega i dati dei sottoposti ad accertamento per invalidità civile .

Inoltre, in considerazione dell’evoluzione e successione delle norme nel tempo e dell’introduzione nel panorama normativo nazionale della disciplina in materia di trattamento dei dati personali, tale onere comunicativo pare ritenersi ormai oggetto di un’abrogazione tacita ed implicita.

Al fine di chiarire le ragioni di tale considerazione è opportuno ricordare che già durante il periodo di vigenza della Legge 675/96, la prima normativa che disciplina,in risposta alle direttive comunitarie, il trattamento dei dati personali ,l’Autorità Garante, con il proprio provvedimento del 1 dicembre 1999 aveva chiarito che “non era da considerarsi più ammissibile, vista l’introduzione della Legge sulla riservatezza nell’uso dei dati personali, la comunicazione da parte delle aziende sanitarie, dei dati personali riferibili anche ai soli cittadini che richiedano od ottengano il riconoscimento dell’invalidità civile a ad associazioni ed enti che tutelano le diverse categorie di invalidi”.

Ciò in quanto il fatto stesso di essere sottoposti a visita di accertamento dello stato di invalidità può ritenersi trattamento di dati idoneo a rivelare lo stato di salute .

Ma è la successiva normativa di riordino e modifica della disposizioni sulla riservatezza nell’uso dei dati personali, quella del Decreto Legislativo n. 196/03,che prescrive una disciplina molto rigorosa dell’istituto della comunicazione dei dati personali e sensibili da parte degli enti pubblici che li detengono.

A tale disciplina il singolo ente non può contravvenire neppure acquisendo un esplicito e specifico consenso da parte dei soggetti interessati, che non può in nessun caso essere considerato un fattore esimente .

Infatti il sopra citato Decreto al suo articolo 20, commi 1 e 2, prevede che per le pubbliche amministrazioni in ambito pubblico il consenso è il presupposto necessario per poter procedere solo ed esclusivamente al trattamento di dati di salute per finalità di cura, finalità certo non assimilabile a quelle sottese alla disposizione, da parte del legislatore del 1971, dell’onere da parte delle aziende sanitarie di comunicare i dati degli invalidi all’ANMIC.

Gli enti pubblici possono ,quindi ,comunicare dati sensibili ad altri soggetti, pubblici o privati, solo se previsto espressamente da legge (comma 1) o da atto di natura regolamentare, che specifichi le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite, i tipi di dati e le operazioni di trattamento eseguibili(comma2).

Tale atto di natura regolamentare deve essere “adottato in conformità al parere espresso dall’Autorità Garante anche su schemi tipo”.

Il meccanismo previsto da tale secondo comma ha trovato, però, solo nella prima metà dell’anno 2006, il suo perfezionamento per quanto riguarda il trattamento dei dati sensibili da parte dell’ente pubblico azienda sanitaria.

Un’ apposita commissione costituita in ambito di Conferenza Stato Regioni ha, quindi, preparato uno schema tipo di atto regolamentare che ha ottenuto il parere positivo dell’Autorità.

Questo ha permesso alle singole Regioni e Province Autonome di adottare il proprio Regolamento, che ,anche se adottato da ognuna con proprio decreto, dispone un uniforme trattamento dei dati sensibili.

Al riguardo, per esempio la regione Emilia Romagna ha adottato il proprio Regolamento, il n. 3/06 pubblicandolo sul proprio Bollettino Ufficiale del 24/04/2006 e la Regione Toscana il n.18/R(“Regolamento per il trattamento dei dati sensibili e giudiziari da parte della Regione Toscana,Aziende Sanitarie,enti,aziende e agenzie regionali e soggetti pubblici nei confronti dei quali la Regione esercita poteri di indirizzo e controllo”) adottato dalla Regione Toscana, pubblicato sul bollettino Ufficiale del 16 maggio 2006.

Tali Regolamenti prevedono una serie di schede nelle quali sono elencati i trattamenti di dati di competenza delle aziende sanitarie e la scheda rubricata “Attività socio assistenziali a favore di fasce deboli di popolazione (persone bisognose o non autosufficienti o incapaci o appartenenti a particolari gruppi di popolazione)”non prevede alcuna comunicazione di dati tra azienda sanitaria e Associazione Mutilati ed Invalidi Civili.

Quindi, alla luce di tali presupposti e per concludere, non pare alla sottoscritta essere più consentita a decorrere dall’adozione di tali Regolamenti la comunicazione automatica e continua dei nominativi degli invalidi fatta dalle aziende sanitarie all’ Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi Civili,alla quale è altresì consentito invece, come ad ogni altro soggetto portatore di interessi diffusi avanzare richiesta motivata di accesso agli atti amministrativi.

http://www.diritto.net/index.php?option=com_content&view=article&id=4169&catid=44:diritto-alla-privacy&Itemid=77

Risoluzione del contratto di lavoro per mancata presentazione in servizio

Lo stato di handicap di un familiare non giustifica la mancata presentazione in servizio
Lo Statuto degli impiegati civili dello Stato, tutt’ora in vigore per le parti non abrogate, stabilisce che colui che ha conseguito la nomina, se non assume servizio senza giustificato motivo entro il termine stabilito, decade dalla nomina.
Il giustificato motivo, nella costante giurisprudenza della giustizia amministrativa è rappresentato da un ostacolo obiettivo, che effettivamente impedisca di assumere servizio nell’ufficio di prima destinazione. Ora, un lavoratore sottoscriveva un contratto individuale di lavoro con il Ministero di Grazia e Giustizia, in base al quale avrebbe dovuto assumere servizio, nel giorno indicato, presso il Tribunale di Ivrea, per svolgervi le mansioni di assistente addetto agli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti. ma, poco prima del giorno stabilito per la presentazione in servizio, il suddetto comunicava l’impossibilità di assumere servizio a causa di gravi motivi familiari. L’Amministrazione, in considerazione di ciò, differiva il giorno stabilito per la presentazione in servizio, ciò che avveniva anche in seguito a nuove istanze dell’interessato. Tuttavia, anche prima del nuovo termine stabilito per la presentazione in servizio nel Tribunale di Ivrea, il lavoratore, con apposita istanza chiedeva all’amministrazione di poter fruire dei benefici di cui al comma 5° dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992, adducendo la necessità di assistere in Roma la madre handicappata. Ai sensi della norma citata, il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso a altra sede. In altri termini il lavoratore, che pure non aveva preso servizio, chiedeva di essere assegnato a un’altra sede. L’Amministrazione respingeva l’istanza, con l’argomento che lo stato di handicap della genitrice non integrava gli estremi della gravità previsti dall’art. 33, comma 5°, della legge citata. Nel frattempo, l’Amministrazione, non avendo l’interessato preso servizio il giorno stabilito, dichiarava la risoluzione del contratto di lavoro in precedenza stipulato. Avverso tali provvedimenti, il lavoratore promuoveva ricorso al Tar del Lazio. Ma il Tar respingeva il ricorso. Avverso la statuizione del Tar, il ricorrente ha promosso appello al Consiglio di Stato. Il Consiglio si è pronunciato con la Decisione n. 7501/2009, rigettando l’appello. Il ricorrente ha proposto di nuovo la censura già dedotta in primo grado, ovvero che il beneficio in questione, per essere riconosciuto, non necessita di essere connotato da gravità, dovendosi tenere distinta l’ipotesi contemplata dal comma 5° da quella del comma 3° della stesso art. 33 della legge citata, il quale stabilisce che, colui che assiste una persona con handicap in situazione di gravità parente o affine entro il terzo grado, convivente, ha diritto a tre giorni di permesso mensile coperti da contribuzione figurativa, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno. Il Consiglio ha ritenuto di trattare prima la questione inerente la risoluzione del contratto, osservando che tale provvedimento è espressione di un potere dell’Amministrazione che ha fondamento nell’art. 9 ultimo comma del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, contenente lo Statuto degli impiegati civili dello Stato, per questa parte tutt’ora applicabile alla fattispecie in esame, non essendo stato abrogato dalle leggi successive che hanno determinato la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego. Ai sensi di tale disposizione,
colui che ha conseguito la nomina, se non assume servizio senza giustificato motivo entro il termine stabilito, decade dalla nomina, laddove il giustificato motivo, come già detto, nella costante giurisprudenza amministrativa è rappresentato da un ostacolo obiettivo, che effettivamente impedisca di assumere servizio nell’ufficio di prima destinazione, dovendosi qualificare come un onere specifico a carico del soggetto quello di presentarsi in servizio alla data indicata dall’Amministrazione che ha indetto la procedura selettiva e nella quale lo stesso si è posizionato utilmente, con la conseguenza che la mancata presentazione comporta, di per sé, la legittima emanazione del provvedimento di decadenza. Il Consiglio ha anche osservato che la condizione di handicap della madre dell’appellato, quand’anche la si dovesse ritenere grave, non integra, con tutta evidenza, l’ipotesi del giustificato motivo, la cui presenza evita il provvedimento di decadenza dal rapporto di lavoro. Su tale piano di considerazione, occorre tenere distinta la condizione di handicap del familiare, che consente al dipendente che abbia preso servizio di ottenere il beneficio di cui al comma 5° dell’art.33 delle legge n. 104 del 1992, da quella integrante l’obiettivo impedimento che alla data stabilita non consente al medesimo di prendere servizio.
Poiché per evitare la decadenza è sufficiente l’adempimento dell’onere della presenza in servizio nel giorno stabilito, la necessità di assistere continuativamente un familiare con handicap, ancorché grave, non presenta il carattere di effettività necessario affinché possa ritenersi avverato l’impedimento a assumere servizio, infatti, se così fosse, a rigore, nessuna sede, neppure quelle coincidenti con la dimora dell’handicappato da assistere, potrebbe consentire al dipendente di prendere servizio, non potendo egli allontanarsi da tale dimora neppure per un giorno.
Per tale ragione, la mancata presentazione dell’appellato, vale a dire l’inadempimento a un suo preciso onere, ha legittimato la risoluzione del rapporto di lavoro. Quanto alla questione in merito alla gravità dell’handicap, il Consiglio ha ribadito che non può essere condivisa la tesi del lavoratore secondo la quale tale beneficio può essere attribuito al dipendente anche quando l’handicap del familiare non sia grave, non richiedendo tale gravità l’invocato comma 5° dell’art. 33 della Legge n.104 citata, a differenza di quanto statuito dal precedente comma 3° dello stesso articolo. La tesi dell’appellante, in effetti, privilegia una intepretazione di carattere letterale alla quale deve contrapporsi l’interpretazione di carattere sistematico seguita dalla giurisprudenza e che viene animata dallo scopo di evitare, in ossequio alla finalità dell’art. 33 della già citata legge n. 104, che il beneficio in questione abbia una base applicativa la quale, dilatandosi, sacrifichi oltre misura le esigenze gestionali dell’amministrazione pubblica.

http://www.studiolegalelaw.net/consulenza-legale/15107

Vincere il concorso non dà sempre diritto al posto

“I vincitori di un concorso non hanno un diritto soggettivo incondizionato all’assunzione”. Infatti l’amministrazione può “non procedere alla nomina o all’immissione in servizio” a causa, ad esempio, di una ristrutturazione del personale. Ma non solo. Le aspettative professionali dei vincitori non devono essere risarcite.
È quanto si evince dalla sentenza n. 7497 depositata dal Consiglio di Stato lo scorso 30 novembre. In particolare, si legge nelle motivazioni che “i vincitori di un concorso pubblico non hanno un diritto soggettivo incondizionato all’assunzione atteso che l’Amministrazione ha il potere di non procedere alla loro nomina o all’immissione in servizio” dopo essere stati nominati, quand’anche abbia individuato anche le sedi in cui questo debba essere prestato. E ciò tutte le volte in cui siano presenti non solo valide e motivate ragioni di interesse pubblico che abbiano fatto venir meno la necessità o la convenienza alla copertura dei posti messi a concorso, ma anche, e a maggior ragione, quando, sia sopravvenuto un intervento normativo che si sia posto come factum principis impeditivo di quella nomina o di quell’assunzione in servizio”.

fonte cassazione.net

Consiglio di Stato «dimette» Pedersoli: non è più difensore civico di Napoli

Accolto il ricorso dell'ex presidente del Tar Della Valle Pauciullo. L'amarezza dell'escluso: tempi record.
Su decisione del Consiglio di Stato, Giuseppe Pedersoli non è più «difensore civico» a Napoli. «Rispetto la sentenza - dice - e come ho scritto al presidente del Consiglio Comunale, Leonardo Impegno, e al sindaco Rosa Iervolino Russo, attenderò serenamente i provvedimenti che saranno adottati». Inizia nel 2002 la vicenda del difensore civico: fu allora che il Comune di Napoli con pubblico avviso diede avvio al procedimento per l’elezione. Nel corso delle votazioni, ricorda lo stesso Pedersoli, il Consiglio comunale non riuscì a raggiungere il quorum dei voti prescritto. Ci fu un altro avviso pubblico al quale partecipò anche Giuseppina Della Valle Pauciullo. La prima Commissione consiliare affari istituzionali rimise la documentazione al presidente del Consiglio comunale per gli atti di propria competenza. A distanza di più di un anno dalla presentazione delle domande, l’amministrazione non portò a termine la procedura di elezione: da qui il ricorso al Tar presentato dalla Della Valle che però respinse il tutto. La sentenza fu impugnata ed oggi la decisione del Consiglio di Stato.

«RICORSO ACCOLTO IN TEMPI RECORD» - «Se da difensore civico in carica ho sempre invitato i cittadini al rispetto delle regole, è giusto che le rispetti anche io - dice Pedersoli - Aspetto con altrettanta serenità che il premier Berlusconi risponda all’interrogazione parlamentare presentata dall’onorevole Amedeo Laboccetta, soprattutto sui tempi dei processi che per la ex presidente del Tar Giuseppina Della Valle Pauciullo, 80 anni, scorrono molto più velocemente rispetto agli altri». «Da un dossier del Sole24ore del 9 marzo 2009, infatti, emerge che mediamente occorrono circa 8 anni per una sentenza di Consiglio di Stato, successiva a quella del Tar. La dottoressa, invece, in soli 22 mesi l’ha ottenuta. In un altro caso, riguardante un ricorso al Tar contro il Comune di Napoli che non si decideva a nominare il difensore civico, altro record, 4 mesi. Ricorso presentato nel marzo 2007, sentenza nel luglio dello stesso anno». «Sarei lieto se tutti gli altri cittadini, napoletani e italiani, potessero ottenere sentenze in tempi simili - conclude - Comunque ringrazio la dottoressa Della Valle per il regalo che mi ha fatto. Il 22 ottobre compirò 44 anni. Festeggerò in famiglia, copia della sentenza al centro della torta».

REAZIONI - Il presidente del gruppo Prc, Raffaele Carotenuto, definisce «grave ed inaccettabile il giudizio del Consiglio di Stato che accoglie l’appello di Giuseppina della Valle Pauciullo contro il Difensore Civico del Comune di Napoli, Giuseppe Pedersoli». «Come può un organismo della giustizia amministrativa ingerire nelle scelte politiche di un consesso civico elettivo che a larghissima maggioranza elegge tale figura di garanzia - sottolinea - Il sindaco di Napoli dica qualcosa a difesa dell’operato del Consiglio Comunale. In ogni caso il Comune di Napoli non può restare senza Difensore Civico».
«Quando ci fu l’elezione per il Difensore civico, non votai Pedersoli per motivi meramente politici. Oggi, alla luce dell’impegno e della perizia con cui ha esercitato il suo ruolo, se si dovesse riandare alle urne, lo voterei», dice il vice presidente del Pdl al Consiglio comunale di Napoli, Ciro Signoriello. «Prendo atto della sentenza con la quale il Consiglio di Stato a tempo di record ha provveduto a pronunziarsi sulla correttezza della procedura di nomina del difensore civico del Comune di Napoli annullando la relativa delibera». Lo sostiene, in una nota, il capogruppo del Pd in Consiglio comunale, Fabio Benincasa. «Fermo restando il rispetto che si deve alla pronuncia di un organo giurisdizionale di appello - aggiunge - resta il profondo rammarico che per motivi di carattere meramente procedurale venga annullata la nomina di una figura di grande importanza per la nostra città che, in questi due anni grazie alla serietà, professionalità e disponibilità del dottor Pedersoli era riuscita in maniera sempre garbata ad avvicinare i cittadini all’amministrazione svolgendo in pieno e con efficacia quel ruolo indipendente, obiettivo ed equilibrato che la caratterizza».
fonte corrieredelmezzogiorno

CONSIGLIO DI STATO - Concorsi: il voto numerico non soddisfa l’obbligo della motivazione

decisione 1.9.2009 n. 5145,
L’onere della valutazione delle prove scritte di un concorso pubblico non può essere sufficientemente adempiuto con il solo punteggio numerico, sussistendo un obbligo di motivazione integrativa laddove la valutazione tecnica investa i giudizi legati all’espressione di particolare complessità, nei quali l’aderenza ai criteri preventivamente costituiti, la correttezza delle soluzioni e la coerenza nell’esposizione concettuale si riveli determinante nella scelta e discriminante la reciproca prevalenza dei candidati nel senso della loro idoneità a ricoprire posizioni lavorative di significativa importanza per l’amministrazione.
Consiglio di Stato, Sez. V, Decisione 1 settembre 2009 n. 5145
Tale decisione, seppur posta in essere riguardo ad un ambito lavorativo particolare, è di estrema rilevanza in quanto “rompe” un orientamento ormai consolidato e riferito in genere ai pubblici concorsi e agli esami di abilitazione, tipo quello forense. Infatti, a differenza dei giudici amministrativi di I° grado, in passato i giudici del Consiglio di Stato avevano sempre, con varie argomentazioni, ritenuto legittimo, sufficiente, valido ed esaustivo il punteggio numerico quale voto a prove concorsuali o abilitazione, ritenendo lo stesso una valutazione congrua ed adeguata del giudizio ivi espresso. Alla base della suddetta statuizione si ravvisava 1) sia l’esigenza a rispondere al noto principio di economia dell’attività amministrativa 2) sia soprattutto perché il giudizio così espresso era ritenuto tale da integrare e soddisfare la necessaria chiarezza sulle valutazioni di merito poste in essere dalla commissione.
A titolo di esempio, esattamente un anno addietro, il Consiglio di Stato aveva statuito che “si deve ritenere che anche dopo l'entrata in vigore della L. n. 241/1990, il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione stessa, contenendo in se stesso la motivazione, senza necessità di ulteriori chiarimenti. La motivazione espressa numericamente, quindi, oltre a rispondere ad un evidente principio di economicità amministrativa di valutazione, assicura la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute dalla Commissione nell'ambito del punteggio disponibile e del potere amministrativo da essa esercitato. (Cons. Stato, Sez. VI, 09/09/2008, n.4300).
A fronte del suddetto orientamento ormai consolidato da parte del Consiglio di Stato, d’altro canto, negli ultimi anni vi erano state varie pronunce dei Giudici di merito diametralmente opposte, le quali, in buona sostanza, ritenevano insufficienti, inadeguati ed illegittime e pertanto carenti di motivazione le valutazione espresse solo in termini meramente numerici. Detta tesi “minoritaria”, sostenuta negli anni passati da alcuni TAR, in particolare della Campania, del Veneto, della Sicilia, della Lombardia e della Calabria, è stata, e lo è tuttora, adottata in alcune isolate pronunce, sembrando priva di ogni concreta possibilità di definitiva affermazione giurisprudenziale avanti al Consiglio di Stato.
Tale tesi minoritaria era stata sostenuta la prima volta nel lontano 1997 con una storica sentenza del T.A.R. Lombardia-Milano, il quale aveva statuito che “ai sensi dell'art. 3 l. 7 agosto 1990 n. 241 e dell'art. 12 d.P.R. 9 maggio 1994 n. 487, la valutata insufficienza della prova scritta del concorso (nella specie ad assistente di I categoria, qualifica dirigenziale) deve essere motivata con l'esplicitazione compiuta e logica delle ragioni, risultando insufficiente l'indicazione del solo voto numerico“ (T.A.R. Lombardia Milano, Sez. III, 13/05/1997, n.594).
Invece, le ultime pronunce di specie si basavano sul principio per cui “la valutazione di una prova ha natura composita, in quanto essa: - costituisce l'espressione di un giudizio tecnico - discrezionale, che si esaurisce nell'ambito del procedimento concorsuale, allorché tale giudizio è positivo, di modo che essa può essere resa con un semplice voto numerico;- rappresenta al tempo stesso, oltre che un giudizio, un provvedimento amministrativo che conclude il procedimento concorsuale, tutte le volte in cui alle prove di un candidato venga attribuito un punteggio insufficiente, donde la necessità, in tale ipotesi, che all'assegnazione del voto faccia seguito l'espressione di un giudizio di non idoneità, con il quale vengano esplicitate le ragioni della valutazione negativa, conformemente al disposto di cui all'art. 3 della L. n. 241/1990, ove questo venga interpretato - conformemente all'orientamento prevalente - nel senso che la motivazione è necessaria solo per gli atti aventi contenuto provvedimentale”(Tra le ultime: T.A.R. Sicilia Catania, Sez. I, 29/01/2008, n.209; T.A.R. Lazio Roma, Sez. I bis, 07/07/2007, n.6169; T.A.R. Campania Napoli, Sez. II, 15/06/2007, n.6193).
Tale tesi “minoritaria” era stata sostenuta in precedenza in un’unica isolata occasione a Palazzo Spada, esattamente nella Sentenza n. 5503 del 2006, nella quale si statuiva che “si deve ritenere insufficiente il solo voto numerico per comprendere le ragioni di una valutazione di insufficienza o di un giudizio negativo in ordine alle prove concorsuali di natura comparativa” (Cons. Stato, Sez. IV, 20/09/2006, n.5503)
Di tale “contrasto” di orientamenti si è dovuta occupare di recente addirittura la Corte Costituzionale, la quale nella Sentenza n. 20 del 30 gennaio 2009 aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma impugnata (la legge professionale dell’avvocatura, ove viene indicata le modalità di valutazione degli aspiranti avvocati) nella parte in cui non prevedeva l'obbligo di motivare e giustificare il voto verbalizzato in termini numerici nell'ambito della valutazione delle prove scritte per l'abilitazione forense.
Con la suddetta sentenza, come detto dopo innumerevoli e contrastanti pronunce da parte del Giudice amministrativo di I° grado, la Consulta era stata chiamata ad affrontare la complessa, dibattuta e delicata fattispecie riguardante le modalità di valutazione della prove scritte concernenti l'esame di avvocato. In particolare, la valutazione della Corte ha riguardato la possibile e presunta illegittimità costituzionale ai sensi degli articoli 24, I e II comma, 111, I e II comma, 113, I comma, e 117, I comma, della Costituzione con riferimento alle norme che “consentono” che il giudizio di valutazione degli elaborati redatti dai candidati sia espresso solo in termini numerici.
La Corte, è necessario ricordare, in plurime decisioni, aveva sempre escluso che la tesi dell’insussistenza, nell’ordinamento vigente, di un obbligo di motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione e della capacità degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida motivazione del provvedimento di inidoneità costituisse una interpretazione obbligata e univoca della normativa vigente (si vedano: ordinanze n. 466 del 2000, n. 233 del 2001, n. 419 del 2005).
La Corte Costituzionale, nella Sentenza 20/2009, statuendo di conseguenza alle succitate ordinanze, prendeva atto della circostanza per cui la soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza costituiva ormai un vero e proprio «diritto vivente». Di conseguenza, rigettava la denunciata illegittimità costituzionale ex art 24, 111, 113 e 117 Cost. della norma che, in base al “diritto vivente”, non imponeva alla commissione una specifica modalità di motivazione delle determinazioni da essa assunte in merito alle prove scritte ed orali. Pertanto, la disciplina censurata non era quindi idonea a interferire né con il diritto di difesa né con il principio del contraddittorio e si sottraeva all’ambito di applicazione dei parametri invocati dal rimettente.
La decisione sopra specificata della Corte Costituzionale sembrava essere il “punto di approdo” della più recente evoluzione della giurisprudenza del Consiglio di Stato riguardo alla “bontà” e adeguatezza del solo punteggio numerico nelle valutazione concorsuali. Detta tesi, che sembrava ormai essere considerata consolidata, ha subito una potenzialmente rivoluzionaria e battuta d’arresto. Infatti, con la recente pronuncia i Giudici di Palazzo Spada, i quali nelle stesse motivazioni ammettono di aver ben presente l’orientamento “maggioritario”, sostengono chiaramente l’insufficienza del mero punteggio numerico ad integrare una compiuta motivazione nella valutazione delle prove scritte di un concorso. Ciò, si legge, in quanto sarebbe in contrasto con l’obbligo della pubblica amministrazione di agire sempre con la massima trasparenza e correttezza. Detto modus agendi, inoltre, non è tale da subire alcuna limitazione o deroga di sorta, tanto meno nel caso di un concorso pubblico e soprattutto se riguardante giudizi legati all’espressione di nozioni di particolare complessità. Infatti, riconosce il Consiglio di Stato, sebbene i criteri generali di giudizio non siano sindacabili sotto il profilo della legittimità, la sinteticità del punteggio non consente sempre e comunque di esprimere in maniera compiuta la valutazione posta in essere dalla commissione in ordine alla maggiore o minore aderenza delle prove svolte dai candidati ai criteri prestabiliti. Da ciò ne consegue la necessità che il punteggio numerico sia integrato ogni qualvolta la complessità delle prove renda necessaria la comparazione dei giudizi con i criteri di valutazione e l’ostensibilità dell’apprezzamento in maniera più trasparente ed esaustiva rispetto al mero punteggio numerico.
fonte la previdenza

CONSIGLIO DI STATO.Chiusura di un locale rumoroso: se non è in gioco la salute pubblica decide il Comune

L’ARPA, a seguito di segnalazioni di rumorosità eccessiva e disturbo ai residenti provocati da un circolo che svolge attività di somministrazione di alimenti e bevande nelle ore notturne, rileva l’inquinamento acustico. Il comune di Bologna ordina l’inibizione dell’attività in tale area.
La ricorrente sostiene che il provvedimento andava qualificato come contingibile ed urgente e come tale di esclusiva competenza del sindaco ai sensi dell’art. 9 della legge n. 447 del 1995.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto invece che il provvedimento sia stato adottato nell’ambito degli ordinari poteri di controllo spettanti al Comune. Non ravvisandosi nel caso in esame situazioni di pericolo per la salute pubblica così gravi ed urgenti da rendere necessaria l’adozione di misure eccezionali, (potendo il problema dell’inquinamento acustico essere risolto attraverso gli ordinari strumenti di intervento a tutela della salute pubblica) il ricorso è stato respinto.
fonte Il Quotidiano Ipsoa

CONSIGLIO DI STATO: Ufficiali in s.p.e., per la promozione serve sempre il giudizio di idoneità.

L'art. 32, comma 3-bis, legge n. 224/1986, non integra l'ipotesi di una promozione automatica, per un diritto soggettivo perfetto, ricollegabile alla data di promozione dei parigrado con uguale o maggiore anzianità, del ruolo normale o speciale in s.p.e., occorrendo comunque, per l'avanzamento, il previo giudizio di idoneità.
(Consiglio di Stato Decisione, Sez. IV, 24/03/2009, n. 1771)
fonte Il Quotidiano Giuridico