La decisione in epigrafe è stata emanata a seguito dell'azione giudiziaria proposta da una nota modella canadese, L. C., che si è vista diffamare anonimamente su un blog della piattaforma di Google, Blogger, con epiteti molto grevi e pesanti nonché con l'attribuzione di una condotta sessualmente promiscua.
La donna ha ottenuto dal giudice newyorkese di conoscere il nome di chi l'attaccava così duramente e infondatamente a livello personale.
Il giudice, accogliendo le sue richieste, ha affermato che nello specifico contesto del blog, gli epiteti volgari utilizzati nei confronti della modella non trovavano una giustificazione ragionevole e si potevano considerare insulti lesivi della sua onorabilità.Il giudice ha rifiutato l'argomentazione in difesa dell' “Anonymous Blogger” il quale sosteneva che il blog, grazie ai commenti, è diventato un moderno forum quotidiano per comunicare opinioni personali, incluse quelle insultanti.
Il riferimento alla libertà di espressione è chiaro, ciò nonostante il giudice fa riferimento a precedenti giurisprudenziali che in materia affermano il contrario.
Sostiene il giudice newyorkese: “Poichè Internet offre un mezzo di comunicazione virtuale, illimitato, economico ed immediato utilizzato da decine, se non centinaia di milioni di persone, i pericoli non possono essere ignorati. La protezione del diritto di comunicare anonimamente deve essere bilanciata con la necessità di assicurare che quelle persone che abusano delle potenzialità offerte da questo mezzo rispondano delle loro trasgressioni. Coloro che soffrono di danni conseguenti alle comunicazioni offensive dovrebbero trovare rimedi appropriati per prevenire i malfattori dal profittare dello scudo offerto dal Primo Emendamento”.
Google ha obbedito all'ordine del giudice di New York rivelando pubblicamente il nome della blogger che aveva intrapreso l'attività di cyberstalking: la studentessa di moda, R. P.
Costei, ormai non più anonima, ha deciso di reagire depositando una richiesta di risarcimento dei danni per 15 milioni di dollari contro Google, per aver violato la fiducia che ella nutriva sulla protezione della sua privacy da parte del provider.
La questione si è già posta in passato e i giudici si sono divisi sul riconoscimento della responsabilità dell'autore di affermazioni ingiuriose.
Questa decisione si inserisce in tale dibattito con una nota innovativa, ovvero la reazione della parte condannata.
Seppure sia condivisibile l'argomentazione giurisprudenziale che censura le applicazioni pretestuose del Primo Emendamento, tuttavia il problema si pone in merito alle modalità di rivelazione del nome della blogger anonima: avrebbe dovuto essere reso completamente pubblico o rivelato esclusivamente all'attrice? Esiste un interesse della collettività degli utenti di Internet alla conoscenza dell'identità della cyberstalker?
La risposta, fattuale più che giuridica, sembrerebbe essere negativa.
Va comunque ricordato che l'anonimato in Internet è un concetto alquanto relativo, essendo ogni utente identificato dal numero di Internet Protocol, ciò comporta che non si è mai veramente anonimi in Internet.
In questo ambito ci si può porre una ulteriore domanda che riguarda la natura stessa della Rete relativamente alla fondatezza giuridica dell'ordine, nonostante le condivisibili argomentazioni espresse dal giudice della Corte Suprema di New York.
Negli Stati Uniti la materia è regolata dalla Sect. 230 del Communication Decency Act del 1996 , però mai nominato nella decisione in commento.
Esso garantisce ai blogger l'immunità per le opinioni da loro espresse in Rete in nome di due principi: da un lato il libero scambio di informazioni e idee in Internet, dall'altro l'incoraggiamento degli Internet Providers alla autoregolamentazione contro la diffusione di materiale offensivo per mezzo dei loro servizi.
Ne conseguirebbe quindi che la richiesta della modella L. C. non avrebbe dovuto trovare soddisfazione e quindi il blogger colpevole di cyberstalking avrebbe mantenuto il suo anonimato.
Una siffatta soluzione non può più considerarsi soddisfacente.
Da quando il Communication Decency Act è stato promulgato sono trascorsi più di 10 anni, molte cose sono cambiate in Rete, a partire dalla sua esplosiva diffusione.
Sembrerebbe quindi giunto il momento di compilare un bilancio in merito all'efficienza di questo principio, soprattutto in merito alla garanzia della privacy nei confronti di chi compie azioni di persecuzioni diffamatorie come quella descritta nella decisione in esame.
Tuttavia vi è un altro importante elemento da tenere in considerazione, cioè la responsabilità del provider e la possibile equiparazione di questa a quella editoriale.
Le conseguenze di un mutamento di disciplina rischierebbero di stravolgere Internet decimando i piccoli provider poiché solo i grandi colossi avrebbero gli strumenti finanziari e legali per far fronte a questo tipo di rischi.
Inevitabilmente ciò comporterebbe la riduzione dello spazio di libertà e di scambio di informazioni che la Rete ha finora garantito.
In conclusione, il dibattito su questo tema è aperto e coinvolge tutti i fruitori della Rete, nella difficile ricerca di un possibile equilibrio tra tutela della libertà di espressione e protezione della onorabilità delle persone, vista la potenza divulgativa delle informazioni, tanto vere quanto false, di Internet.
fonte: Il Quotidiano Giuridico
(Supreme Court of the State of New York County of New York - Sentenza 17/08/2009 - )
La donna ha ottenuto dal giudice newyorkese di conoscere il nome di chi l'attaccava così duramente e infondatamente a livello personale.
Il giudice, accogliendo le sue richieste, ha affermato che nello specifico contesto del blog, gli epiteti volgari utilizzati nei confronti della modella non trovavano una giustificazione ragionevole e si potevano considerare insulti lesivi della sua onorabilità.Il giudice ha rifiutato l'argomentazione in difesa dell' “Anonymous Blogger” il quale sosteneva che il blog, grazie ai commenti, è diventato un moderno forum quotidiano per comunicare opinioni personali, incluse quelle insultanti.
Il riferimento alla libertà di espressione è chiaro, ciò nonostante il giudice fa riferimento a precedenti giurisprudenziali che in materia affermano il contrario.
Sostiene il giudice newyorkese: “Poichè Internet offre un mezzo di comunicazione virtuale, illimitato, economico ed immediato utilizzato da decine, se non centinaia di milioni di persone, i pericoli non possono essere ignorati. La protezione del diritto di comunicare anonimamente deve essere bilanciata con la necessità di assicurare che quelle persone che abusano delle potenzialità offerte da questo mezzo rispondano delle loro trasgressioni. Coloro che soffrono di danni conseguenti alle comunicazioni offensive dovrebbero trovare rimedi appropriati per prevenire i malfattori dal profittare dello scudo offerto dal Primo Emendamento”.
Google ha obbedito all'ordine del giudice di New York rivelando pubblicamente il nome della blogger che aveva intrapreso l'attività di cyberstalking: la studentessa di moda, R. P.
Costei, ormai non più anonima, ha deciso di reagire depositando una richiesta di risarcimento dei danni per 15 milioni di dollari contro Google, per aver violato la fiducia che ella nutriva sulla protezione della sua privacy da parte del provider.
La questione si è già posta in passato e i giudici si sono divisi sul riconoscimento della responsabilità dell'autore di affermazioni ingiuriose.
Questa decisione si inserisce in tale dibattito con una nota innovativa, ovvero la reazione della parte condannata.
Seppure sia condivisibile l'argomentazione giurisprudenziale che censura le applicazioni pretestuose del Primo Emendamento, tuttavia il problema si pone in merito alle modalità di rivelazione del nome della blogger anonima: avrebbe dovuto essere reso completamente pubblico o rivelato esclusivamente all'attrice? Esiste un interesse della collettività degli utenti di Internet alla conoscenza dell'identità della cyberstalker?
La risposta, fattuale più che giuridica, sembrerebbe essere negativa.
Va comunque ricordato che l'anonimato in Internet è un concetto alquanto relativo, essendo ogni utente identificato dal numero di Internet Protocol, ciò comporta che non si è mai veramente anonimi in Internet.
In questo ambito ci si può porre una ulteriore domanda che riguarda la natura stessa della Rete relativamente alla fondatezza giuridica dell'ordine, nonostante le condivisibili argomentazioni espresse dal giudice della Corte Suprema di New York.
Negli Stati Uniti la materia è regolata dalla Sect. 230 del Communication Decency Act del 1996 , però mai nominato nella decisione in commento.
Esso garantisce ai blogger l'immunità per le opinioni da loro espresse in Rete in nome di due principi: da un lato il libero scambio di informazioni e idee in Internet, dall'altro l'incoraggiamento degli Internet Providers alla autoregolamentazione contro la diffusione di materiale offensivo per mezzo dei loro servizi.
Ne conseguirebbe quindi che la richiesta della modella L. C. non avrebbe dovuto trovare soddisfazione e quindi il blogger colpevole di cyberstalking avrebbe mantenuto il suo anonimato.
Una siffatta soluzione non può più considerarsi soddisfacente.
Da quando il Communication Decency Act è stato promulgato sono trascorsi più di 10 anni, molte cose sono cambiate in Rete, a partire dalla sua esplosiva diffusione.
Sembrerebbe quindi giunto il momento di compilare un bilancio in merito all'efficienza di questo principio, soprattutto in merito alla garanzia della privacy nei confronti di chi compie azioni di persecuzioni diffamatorie come quella descritta nella decisione in esame.
Tuttavia vi è un altro importante elemento da tenere in considerazione, cioè la responsabilità del provider e la possibile equiparazione di questa a quella editoriale.
Le conseguenze di un mutamento di disciplina rischierebbero di stravolgere Internet decimando i piccoli provider poiché solo i grandi colossi avrebbero gli strumenti finanziari e legali per far fronte a questo tipo di rischi.
Inevitabilmente ciò comporterebbe la riduzione dello spazio di libertà e di scambio di informazioni che la Rete ha finora garantito.
In conclusione, il dibattito su questo tema è aperto e coinvolge tutti i fruitori della Rete, nella difficile ricerca di un possibile equilibrio tra tutela della libertà di espressione e protezione della onorabilità delle persone, vista la potenza divulgativa delle informazioni, tanto vere quanto false, di Internet.
fonte: Il Quotidiano Giuridico
(Supreme Court of the State of New York County of New York - Sentenza 17/08/2009 - )