La partecipazione a organismi di mediazione sta diventando un'opportunità di lavoro per i professionisti laureati in materie giuridiche ed economiche, soprattutto per quelli di giovane età (molti avvocati, si sa, hanno pochi clienti) o per persone che, giunte alla soglia della pensione, intendono occupare solo parte del loro tempo.
Ma qual è il Dna di questi organismi e quale quello dei loro aderenti? La materia sarà regolata da nuovi decreti in applicazione del Dlgs 28/2010, ma nel frattempo si applicano, le disposizioni dei decreti del ministro della Giustizia 23 luglio 2004 numeri 222 e 223, che determinano la formazione del registro degli organismi e la loro revisione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l'istituzione di separate sezioni del registro che richiedono specifiche competenze anche in materie di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti.
I decreti fissano le condizioni perché si possa essere soci, associati, amministratori o rappresentanti dell'organismo, che comprendono i consueti i requisiti di onorabilità (oltre alla mancanza di condanne anche quella di sanzioni disciplinari diverse dall'avvertimento). È necessario un iter di formazione del mediatore con partecipazione a corsi di formazione tenuti da enti pubblici, università o enti privati accreditati. I corsi di formazione possono essere piuttosto costosi e devono avere una durata minima di 40 ore (corso base di 32 ore, di cui non meno di 16 di pratica e quattro per la valutazione, più un corso di specializzazione societaria di otto ore).
Il compito di verificare la qualificazione professionale dei mediatori è assegnato al responsabile dell'organismo, salvo che i mediatori siano professori universitari in discipline economiche o giuridiche, o professionisti iscritti ad albi professionali nelle medesime materie con anzianità di almeno 15 anni, oppure ancora magistrati in pensione.
Quanto all'organismo, deve comprendere almeno sette mediatori-conciliatori, deve essere coperto da una polizza assicurativa di importo non inferiore a 500mila euro per le conseguenze patrimoniali derivanti dallo svolgimento del servizio di conciliazione e offrire garanzia di trasparenza amministrativa e contabile. A essere esonerate da questi adempimenti sono solo le camere di commercio. Ricordiamo che, oltre a queste, praticamente tutti gli ordini professionali hanno fondato organismi di questo tipo: niente vieta però di costituirne altri.
Le indennità dovute agli organismi di conciliazione (si veda la tabella nella pagina a fronte) non sono poi gli unici costi previsti. Innanzitutto va aggiunto quasi sempre un importo di 30 euro a titolo di diritti di segreteria (è esente solo chi può accedere al gratuito patrocinio e, in alcuni casi, il consumatore nelle controversie con i professionisti regolate dal codice del consumo). Inoltre, se si è assistiti da un avvocato, bisogna ovviamente pagare la sua consulenza secondo le indennità in materia stragiudiziale previste dai relativi tariffari.
Se poi si deve chiamare un perito di parte, anche i suoi costi incombono sul ricorrente o sulla parte avversa, in genere in base ai tariffari specifici del professionista stesso (geometra, commercialista, ragioniere, ingegnere, architetto, perito eccetera). Stesso discorso per i consulenti esterni di cui spesso ha bisogno l'organismo di conciliazione, che li sceglierà tra gli esperti del tribunale. Se la conciliazione sfocia in un contratto, ci sono i costi vivi e burocratici a esso connessi (ad esempio, la trascrizione). Infine, vanno calcolate le eventuali spese di registrazione del verbale di conciliazione.
fonte http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Editrice/IlSole24Ore/2010/05/03/Economia%20e%20Lavoro/4_D.shtml?uuid=7d590328-5676-11df-a6ca-2846584c0201&DocRulesView=Libero