La S.C. si pronuncia su una domanda di danni da demansionamento e mobbing ed afferma che la liquidazione del danno non patrimoniale non può essere simbolica, dovendo essere adeguata all'entità del pregiudizio effettivo subito dal lavoratore.
Nel caso esaminato dalla S.C., un dipendente pubblico, demansionato per un periodo non breve da metà 1996 alla fine del 1999, chiede al giudice ordinario il risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale.
La Corte è così chiamata ad affrontare varie questioni, in tema di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amminsitrativo, in ordine alla qualificazione della domanda risarcitoria, in relazione alla prova del demansionamento, nonché con riferimento al tipo di danno risarcibile e alla sua liquidazione.
Sul piano della giurisdizione, la Corte applica la norma transitoria contenuta nell'art. 69, settimo comma, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, affermando che, ove il lavoratore-attore riferisca le proprie pretese ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo al 30 giugno 1998, la regola del frazionamento della competenza giurisdizionale tra giudice amministrativo in sede esclusiva e giudice ordinario, in relazione ai due periodi interessati, trova temperamento in caso di illecito permanente, sicché, qualora la lesione del diritto del lavoratore abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, occorre fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza, con la conseguenza che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario allorché tale cessazione sia successiva al 30 giugno 1998.
Per la qualificazione della domanda, la Corte osserva che, ove il pubblico dipendente proponga, nei confronti dell'amministrazione datrice di lavoro, domanda di risarcimento danni per lesione dell'integrità psico-fisica, non rileva, ai fini dell'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità proposta, la qualificazione formale data dal danneggiato in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ovvero mediante il richiamo di norme di legge (artt. 2043 e ss., 2087 c.c.), indizi di per se non decisivi, essendo necessario considerare i tratti propri dell'elemento materiale dell'illecito posto a base della pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata una condotta dell'amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi, indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, costituendo, in tal caso, il rapporto di lavoro mera occasione dell'evento dannoso; oppure se la condotta lesiva dell'amministrazione presenti caratteri tali da escluderne qualsiasi incidenza nella sfera giuridica di soggetti ad essa non legati da rapporto d'impiego e le sia imputata la violazione di specifici obblighi di protezione dei lavoratori (art. 2087 c.c.), nel qual caso la responsabilità ha natura contrattuale conseguendo l'ingiustizia del danno alle violazioni di taluna delle situazioni giuridiche in cui il rapporto di lavoro si articola e sostanziandosi la condotta lesiva nelle specifiche modalità di gestione del rapporto di lavoro. Soltanto nel caso in cui, all'esito dell'indagine condotta secondo gli indicati criteri, non possa pervenirsi all'identificazione dell'azione proposta dal danneggiato, si deve qualificare l'azione come di responsabilità extracontrattuale (così già Cass. n. 18623 del 08/07/2008). In ordine alla prova del danno da demansionamento, la sentenza si ricollega ai precedenti di legittimità costituiti da Cass. n. 6572 del 24/03/2006 e Cass. n. 29832 del 19/12/2008, ed afferma che, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, dovendo il danno non patrimoniale essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno.
Particolarmente interessante la sentenza in relazione alla valutazione del danno non patrimoniale da demansionamento: la Corte premette in linea generale, richiamando Cass. n. 10864 del 12/05/2009, che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un "vulnus" ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati "ex ante" da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità. Applicati tali principi al caso di specie, in ordine all'an del danno, la sentenza conferma la correttezza della valutazione del giudice di merito, che aveva identificato il danno negli “aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti al lavoratore dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare”.
Con riferimento invece al quantum del danno, la S.C. afferma che la liquidazione del danno non patrimoniale non può essere simbolica, dovendo essere adeguata all'entità del pregiudizio effettivo subito dal lavoratore; inoltre, al fine di tale giudizio di adeguatezza, la Corte sottolinea l'esigenza di una valutazione della condotta datroriale nel suo complesso, considerando la persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti di discriminazione o di persecuzione idonei a qualificarlo come mobbing), la lunga durata dei reiterate situazioni di disagio professionale e personale, consistite, fra l'altro, nel dover operare in un locale piccolo e fatiscente e privo di computer, nonché l'inerzia dell'amministrazione rispetto alle richieste del dipendente intese a non compromettere il suo patrimonio di esperienza e qualificazione professionale.
(Sentenza Cassazione civile 22/02/2010, n. 4063)
fonte http://www.ipsoa.it/PrimoPiano/Lavoro/danno_da_demansionamento_adeguato_al_pregiudizio_effettivo_subito_dal_lavoratore_id970590_art.aspx