Nessuna sanzione se il versamento delle imposte è impedito dalla crisi economica

La Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, con la sentenza n. 352/1/10, ha dichiarato che non possono essere comminate le sanzioni amministrative previste dall’ordinamento per il caso dell’omesso versamento di imposte se il contribuente non ha potuto provvedere al pagamento del dovuto perché versava in uno stato di forte crisi economica.

Il caso sottoposto all’attenzione del collegio pugliese è quello, oggi invero molto frequente, di una società che, a causa dell’attuale congiuntura economica, verteva in un tale stato di crisi da non poter più fare fronte agli oneri tributari.

Alla contribuente era, quindi, stata recapitata una cartella di pagamento con cui, insieme al pagamento delle somme omesse, era stato ingiunto anche il pagamento di sanzioni molto elevate (€ 214.998,89!).

La contribuente, tuttavia, ha ritenuto nel suo caso sussistenti le cause di esclusione della punibilità previste dall’ordinamento tributario, il quale, all’art. 6, co. 5, D.Lgs. n. 472 del 18 dicembre 1997, secondo cui “non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore”.

I giudici salentini aditi hanno accolto appieno le tesi difensive della ricorrente e hanno annullato le sanzioni comminate.

A tali conclusioni il collegio giudicante è giunto affermando che la “forza maggiore” è “una forza esterna, che determina la persona o la società, in modo inevitabile, a compiere un atto non voluto […]. In definitiva […] essa può ricorrere in caso di fatti imprevedibili ed inevitabili da parte di terzi soggetti, che hanno impedito al contribuente di rispettare le norme fiscali”.

Questa circostanza, sempre secondo la sentenza in rassegna, si era realizzata senza alcun dubbio nel caso esaminato, e doveva pertanto ritenersi che l’omesso versamento era conseguenza dell’improvvisa e imprevedibile crisi economica mondiale.

La forte crisi economica, situazione esterna al soggetto ricorrente, realizzando l’esimente della forza maggiore, rendeva quest’ultimo non sanzionabile amministrativamente e, quindi, le sanzioni a lui comminate dovevano essere annullate.

I principi appena richiamati dai giudici pugliesi appaiono di estrema importanza e possono rappresentare un modo per evitare a piccoli contribuenti (società ma anche privati) la beffa delle sanzioni oltre al danno della crisi: come la ricorrente, infatti, l’omesso versamento di quanto liquidato dalla dichiarazione correttamente presentata è spesso l’esito di situazioni di crisi temporanea di liquidità che devono essere guardate con un occhio diverso rispetto a quei casi in cui l’evasione non è altro che uno strumento di arricchimento.

Gratuito patrocinio: Cassazione, nel calcolo si tiene conto anche del reddito non imponibile

Il reddito non soggetto ad imposizione viene comunque conteggiato come reddito complessivo per essere ammessi al gratuito patrocinio. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con una sentenza deposita il 12 ottobre (la n. 36362) con cui ha respinto il ricorso di una donna che chiedeva di essere ammessa al patrocinio a spese dello stato. La donna aveva eccepito che le donazioni, consistenti in somme di danaro escluse dalla tassazione, non potevano rientravano nel computo del reddito complessivo per essere ammessi al gratuito patrocinio. Al contrario di quanto aveva eccepito la donna, la Corte ha quindi deciso la questione spiegando che, pur non essendo soggetto a tassazione, questi introiti devono comunque essere calcolati per stabilire il reddito complessivo del soggetto che chiede di essere ammesso al gratuito patrocinio. In particolare, dalla parte motiva della sentenza si legge infatti che “qualsiasi introito che l'istante percepisce con caratteri di non occasionalità, confluisce nel formare il reddito personale (non aggiuntivo dei familiari conviventi), ai fini della valutazione del superamento del limite indicato nell'art. 76 DPR 1152002”. La Corte ha inoltre specificato quali tipi di reddito rientrano nel computo e cioè ha aggiunto che “rilevano anche i redditi che non sono stati assoggettati ad imposte vuoi perché non rientranti nella base imponibile, vuoi perché esenti, vuoi perché di fatto non hanno subito alcuna imposizione: ne consegue che rilevano anche i redditi da attività illecite ovvero i redditi per i quali l'imposizione fiscale è stata esclusa”.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9115.asp

Solo Equitalia può usare l'arma dell'iscrizione a ruolo

Ruolo e ingiunzione costituiscono i due titoli esecutivi previsti dall'ordinamento pubblicistico.
Il ruolo, utilizzato in esclusiva da Equitalia, viene impiegato come tipico strumento di riscossione coattiva, ma rappresenta tuttora lo strumento per la riscossione ordinaria della Tarsu (articolo 72 Dlgs 507/93). L'ingiunzione viene invece utilizzata dai comuni e dagli altri soggetti affidatari ed è tuttora disciplinata dal Rd 639/1910. La legge 265/02 consente di applicare le disposizioni contenute nel titolo II del Dpr 602/73 «in quanto compatibili», rendendo così esperibile il procedimento più snello previsto per il ruolo. Il concetto è stato ribadito dall'articolo 36, comma 2, della legge 31/08, ma non è stata tuttavia chiarita la compatibilità tra i due sistemi e ciò ha alimentato diversi dubbi sull'estensibilità all'ingiunzione degli strumenti previsti per il ruolo. È significativa, a tal proposito, la vicenda delle iscrizioni ipotecarie, che diverse Conservatorie continuano a negare in virtù di una circolare dell'agenzia del Territorio (la 4/08), orientamento tuttavia smentito dalla giurisprudenza di merito.
Ci sono inoltre strumenti che non possono essere utilizzati con l'ingiunzione, tra cui il blocco dei pagamenti superiori a 10mila euro per i contribuenti morosi (articolo 48-bis Dpr 602/73). Entrando poi nella fase dell'espropriazione forzata, la legge 265/02 ha previsto la nuova figura del funzionario responsabile della riscossione, ma solo pochi comuni hanno al loro interno tali figure. Ulteriori dubbi sono sorti in ordine alle entrate riscuotibili: si pensi alle sanzioni amministrative, che una parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto riscuotibili solo a mezzo ruolo, orientamento smentito dalla Cassazione con la sentenza 8460/2010.
Resta comunque un sistema di riscossione coattiva a doppia velocità, fortemente sbilanciato in favore di Equitalia.
Singolare è poi la vicenda dell'accesso ai dati bancari e finanziari contenuti nell'anagrafe tributaria, previsto dalla legge 265/02: sono passati otto anni e, nonostante la severa prescrizione contenuta nell'articolo 83 della legge 133/08 (che esclude ogni discriminazione tra Equitalia e gli altri soggetti), l'accesso viene tuttora inspiegabilmente negato.

È evidente che in questo contesto non è possibile bandire una vera e propria gara, dal momento che le società private iscritte all'albo non possono competere con Equitalia. Né appare preferibile la soluzione della gestione diretta – che l'Anci-Ifel privilegia – specie per quei comuni che, pur essendo in grado di emettere le ingiunzioni, non riuscirebbero a completare la fase esecutiva per mancanza di personale abilitato. Il comune non può peraltro decidere di avvalersi dello strumento del ruolo, perché in tal caso si tratterebbe di un affidamento diretto, ritenuto illegittimo dal Consiglio di Stato (sentenze 2063 e 5566/2010). Si potrebbe optare per l'ingiunzione fiscale, utilizzabile anche da Equitalia, visto che è comunque iscritta all'albo ministeriale. Tuttavia la legge 31/08 non sembra offrire all'ente alcuna possibilità di scelta in ordine allo strumento della riscossione, che sarà determinato solo sulla base del soggetto che risulterà aggiudicatario.
Si finisce in ogni caso per privilegiare il gruppo Equitalia, mancando una competizione ad armi pari con gli altri soggetti. In una situazione di totale incertezza è necessario differire l'entrata in vigore del nuovo regime. Nel frattempo il legislatore dovrà adottare un "testo unico della riscossione", anche in vista dell'attuazione del federalismo fiscale.

http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-04/solo-equitalia-usare-arma-080633.shtml?uuid=AYBplXWC

In Campania le sentenze viaggiano on line . Siglata l’intesa tra Agenzia Entrate e Commissioni tributarie.

Le sentenze delle Commissioni tributarie della Campania nei confronti dell'Agenzia delle Entrate viaggeranno on line.

Lo stabilisce l'intesa - siglata ieri, 12 ottobre 2010, presso la Direzione Regionale dell'Agenzia delle Entrate della Campania - con la Commissione tributaria regionale facente capo alla Direzione Generale della Giustizia tributaria del Dipartimento delle Finanze.

Copia informale delle sentenze emanate dalle Commissioni tributarie campane a favore dell'Agenzia saranno trasmesse e acquisite attraverso la posta elettronica: ciò consentirà, alle due Amministrazioni, un risparmio significativo di risorse umane, strumentali e materiali, consentendo, infine, agli
Uffici dell'Agenzia delle Entrate una tempestiva ed integrale conoscenza delle sentenze stesse.

Ogni Direzione Provinciale dell'Agenzia delle Entrate avrà caselle di posta elettronica dedicate alla ricezione delle sentenze emanate dalle Commissioni tributarie della Regione.

"Esprimo piena soddisfazione per l'intesa con le Commissioni tributarie - afferma il Direttore Regionale delle Entrate Enrico Sangermano -. La trasmissione delle sentenze consente, senza dubbio, risparmi di tempo e risorse, nonché una tempestiva conoscenza delle sentenze integrali. Ciò comporta uno snellimento nelle attività dell'Agenzia e una notevole tempestività nell'azione relativa al contenzioso tributario".
http://www.stabiachannel.it/news/index.asp?idnews=18756

Il procuratore Lepore: «La camorra ha interesse a far aprire le discariche»

«La camorra ha un suo interesse a far aprire le discariche perché ci guadagna, a cominciare dai trasporti dei rifiuti». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Napoli, Giovandomenico Lepore, che ha ricevuto ieri sera a Boscoreale (Napoli), insieme con il vescovo di Nola, monsignor Beniamino Depalma la cittadinanza onoraria per le posizioni assunte in merito alle proteste delle popolazioni contro l'apertura di una seconda discarica nella vicina Terzigno, nel Parco Nazionale del Vesuvio.

Lepore, nei giorni scorsi, aveva detto di non ritenere che vi fosse il coinvolgimento dei clan nelle manifestazioni contro l'apertura del sito. «Non si può giustificare - ha aggiunto - una emergenza rifiuti che dura da 16 anni per responsabilità non solo delle istituzioni ma anche dei cittadini. La camorra diventa un alibi per molta gente che è tenuta a fare delle cose e non le fa anche se sono il primo a dire che la camorra esiste e va combattuta perchè specula anche sull'emergenza rifiuti».

Il procuratore, in merito alle dichiarazioni alla base delle motivazioni della cittadinanza onoraria, ha ricordato di essere «direttamente coinvolto nella lotta alla camorra, la combattiamo ogni giorno con sacrificio, con tutte le forze che abbiamo. Per questo ho detto che non si può sempre dire che c'è la camorra dietro ogni cosa anche quando c'è una legittima protesta di cittadini esasperati». «Uno che vive vicino a una discarica sta evidentemente male ma le proteste devono essere lecite, entro le regole. Non fatevi strumentalizzare da nessuno», ha detto rivolto ai cittadini presenti nella sala consiliare del Comune. A suo giudizio «non è possibile che la discarica, da soluzione provvisoria in attesa della apertura di un termovalorizzatore, divenga la soluzione definitiva».

Dopo aver definito l'inceneritore di Acerra «una cattedrale nel deserto», ha invitato i cittadini e gli amministratori ad andare avanti «soprattutto con proposte concrete per uscire da questa situazione».

http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=122729&sez=NAPOLI

Rendiconto preventivo e decreto ingiuntivo

L’amministratore di condominio, incaricando un legale o personalmente (quando gli è consentito, art. 86 c.p.c.), è legittimato a chiedere ed ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo di pagamento basato sul rendiconto preventivo regolarmente approvato dall’assemblea di condominio.

Questo, in estrema sintesi, il cuore di una pronuncia resa dal Tribunale di Genova lo scorso 31 agosto.

La sentenza risulta essere particolarmente interessante in quanto, alle volte, si è portati a credere che il rendiconto preventivo non abbia la stessa efficacia di quello consuntivo.

Così non è.

Prima di capire perché il giudice ligure si sia espresso in tal modo è utile fornire una definizione, a livello generale, del concetto di rendicontazione preventiva e consuntiva.

L’amministratore di condominio, al termine d’ogni anno di gestione, è tenuto per legge a presentare all’assemblea il conto della propria gestione ed il prospetto per quella successiva (artt. 1129, 1135 c.c.).

Il primo prende il nome di rendiconto consuntivo che come dice lo stesso termine permette ai condomini di fare un’analisi finale dei costi sostenuti durante l’anno.

Il secondo, invece, proprio perché nel corso del periodo di gestione sarà necessario affrontare delle spese necessarie all’erogazione dei servizi nell’interesse comune, altro non è che una previsione dei costi che dovranno essere affrontati nel futuro.

Preventivo e consuntivo, documenti contabili per la cui redazione non è necessario osservare particolari forme (Cass. 23 gennaio 2007 n. 1405), sono approvati dall’assemblea con le medesime maggioranze:

Rendicontoa)in prima convocazione con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti che rappresentino quanto meno 500 millesimi;

b)in seconda convocazione con il consenso di almeno un terzo dei condomini che rappresentino quanto meno un 333 millesimi.

Approvati questi documenti, l’amministratore avrà diritto d’agire, anche giudizialmente, per recuperare le somme dovute dai condomini morosi.

E’ chiaro in tal senso il primo comma dell’art. 63 disp. att. c.c. a mente del quale:

Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea, l’amministratore può ottenere decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione.

Proprio l’assenza di uno specifico riferimento ad uno dei due documenti deve portare a concludere che con stato di ripartizione possa intendersi tanto quella preventiva quanto quella consuntiva.

Dello stesso avviso il magistrato genovese che a dato giustizia in una causa sorta con l’opposizione ad un decreto ingiuntivo emesso sulla base di una ripartizione preventiva dei costi.

Secondo il giudice, infatti, si deve osservare che l’art. 63 delle disp. Att. del c.c. autorizza la riscossione mediante ingiunzione immediatamente esecutiva per ogni tipo riparto spese votato dall’assemblea, quindi anche in base al preventivo.

L’obbligazione intesa a consentire al condominio una adeguata provvista pare autonoma rispetto a quella principale di sopportare definitivamente i costi. Si è, in pratica, di fronte ad una obbligazione d’acconto, che contribuisce poi alla definizione dell’entità dell’obbligazione finale, ovvero, in caso di eccesso, dà origine ad un indebito obiettivo. (Trib. Genova 31 agosto 2010).

http://condominiale.lavorincasa.it/2010/10/rendiconto-preventivo-e-decreto-ingiuntivo/

Mantenimento dei figli: la contrazione di un mutuo fa presumere redditi in nero

Cassazione penale , sez. VI, sentenza 23.09.2010 n° 34336
Non può essere sollevato dall’obbligo del mantenimento il genitore non affidatario che contrae un mutuo per l’acquisto di una casa pur godendo di uno stipendio modesto, in quando ciò fa presumere redditi in nero.

Così i giudici della Suprema Corte hanno deciso con la pronuncia 23 settembre 2010, n. 34336 con cui la Corte ha, appunto, confermato la condanna penale nei confronti di un uomo accusato di non aver provveduto al mantenimento della ex e dei figli.
L’uomo aveva basato la propria difesa puntando sul fatto che l’acquisto di un immobile non indica necessariamente una fonte di reddito in nero, sottolineando, altresì, che pur non versando regolarmente l’assegno di mantenimento come stabilito nella separazione, aveva sempre versato alla moglie del denaro in contanti.

Le giustificazioni addotte dall’uomo non avevano, però, convinto i giudici, che, infatti l’avevano condannato sia in primo che in secondo grado.

La questione, quindi, si spostava dinanzi l’attenzione della Corte di Cassazione, dove, però, il risultato non cambiava; in quanto i giudici della sesta sezione penale, confermando le decisioni dei colleghi, sottolineavano, altresì, che “la capacità economica dell’obbligato che, all’epoca dei fatti, svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva inoltre contratto un mutuo per l’acquisto di un immobile, circostanza questa sintomatica di tale capacità, poteva verosimilmente provenire anche da altre fonti di reddito in nero”.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 9 aprile - 23 settembre 2010, n. 34336

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1 - Il Tribunale di Firenze, con sentenza 23/5/2007, dichiarava B.A. colpevole del reato di cui all'art. 570 c.p., comma 1 - 2, n. 2 - per essere venuto meno ai suoi obblighi di assistenza morale verso i figli minori F. e A. e per avere fatto mancare a costoro e alla moglie separata, S.A., i mezzi di sussistenza dal **** - e lo condannava alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 900,00 di multa, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

2 - A seguito di gravame dell'imputato, la Corte d'Appello di Firenze, con sentenza 23/6/2009, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, concedeva all'imputato i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione.

Riteneva il Giudice distrettuale che la prova a carico dell'imputato era integrata dalle precise e attendibili testimonianze della S. e dei suoi parenti (S.E., S. P. e R.S.), non smentite da quelle a discarico:

nel lungo periodo oggetto di contestazione, il B. non aveva assicurato alla moglie separata e ai figli minori a questa affidati i mezzi economici necessari per fronteggiare le primarie esigenze di vita, essendosi limitato solo a sporadici versamenti di somme modeste di denaro, tanto che la moglie aveva dovuto fare ricorso all'aiuto dei propri genitori; non erano emersi elementi per dubitare della capacità reddituale dell'obbligato, che, pur godendo formalmente di uno stipendio mensile d'importo contenuto, certamente aveva potuto fare affidamento su altre fonti di reddito in nero, tanto da avere contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile.

3 - Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l'imputato, deducendo la violazione della legge penale, con riferimento all'art. 570 c.p., la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione sotto più aspetti: a) non erano state trattate le tematiche relative allo stato di bisogno degli aventi diritto e alla capacità di adempiere dell'obbligato; b) contraddittoriamente, per un verso, si era affermato che l'imputato certamente aveva versato periodicamente, in adempimento del proprio obbligo, denaro contante alla moglie e, per altro verso, si era allegata attendibilità al racconto di costei; c) si era ritenuto, in modo del tutto congetturale, che l'imputato disponeva, al di là del modesto stipendio, anche di altre fonti di reddito; d) in ogni caso, anche a volere ritenere il mancato versamento dell'assegno mensile nella misura fissata in sede di separazione dei coniugi, ciò non integrava automaticamente il reato di cui all'art. 570 c.p., ma un mero inadempimento civile.

4 - La difesa della parte civile ha depositato in data 7/4/2010 memoria con la quale ha sollecitato l'inammissibilità o il rigetto del ricorso.

5 – il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.

La sentenza impugnata, che si integra con quella di primo grado, fa buon governo della legge penale, riposa su un apparato argomentativo che da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene e resiste alle censure mossele.

Preliminarmente, devesi rilevare che il ricorrente non censura la sentenza di merito nella parte in cui gli addebita la violazione degli obblighi di assistenza familiare anche sotto il profilo del totale disinteresse per la salute e per l'educazione dei figli, con i quali non aveva avuto alcun rapporto significativo per lunghi periodi di tempo, durante i quali si era reso irreperibile.

Le doglianze del ricorrente hanno ad oggetto soltanto l'addebito di avere fatto mancare alla moglie separata e ai figli minori i necessari mezzi di sussistenza.

Tale ipotesi di reato, prevista dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2 pacificamene si realizza solo nel caso in cui sussistano, da una parte, lo stato di bisogno degli aventi diritto a un adeguato contributo economico per soddisfare le primarie esigenze di vita e, dall'altra, la concreta capacità economica dell'obbligato a versare tale contributo. Quanto al primo presupposto, la Corte territoriale ne accerta implicitamente la sussistenza, evidenziando in punto di fatto, sulla base delle emergenze istruttorie acquisite, che S.A. era stata costretta a fare ricorso all'aiuto economico dei propri genitori, per fronteggiare le primarie esigenze di vita del nucleo familiare affidato alla sua responsabilità, al di là della considerazione che lo stato di bisogno dei figli minori, in quanto privi di capacità lavorativa o di una qualche rendita di posizione, non è oggettivamente contestabile. L'intervento surrogatorio di terzi non esclude lo stato di bisogno degli aventi diritto ai mezzi di sussistenza e, quindi, la configurabilità del reato in esame, a nulla rilevando l'eventuale convincimento contrario del soggetto inadempiente di non essere tenuto, in tale situazione, all'assolvimento del suo primario dovere, traducendosi lo stesso convincimento in errore sulla legge penale, non determinato da ignoranza scusabile (art. 5 c.p.) di una norma, che corrisponde - tra l'altro - ad un'esigenza morale universalmente avvertita.

Anche il secondo presupposto è ritenuto sussistente dalla Corte di merito, che, con motivazione immune da vizi logici, sottolinea la capacità economica dell'obbligato, che - all'epoca dei fatti - svolgeva regolare attività lavorativa retribuita ed aveva, inoltre, contratto un mutuo per l'acquisto di un immobile, circostanza quest'ultima sintomatica di tale capacita, riveniente verosimilmente anche da altre fonti di reddito in nero.

Il percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata, nella sua lucida articolazione, non evidenzia, come si sostiene in ricorso, passaggi di manifesta illogicità: i giudici di merito sostanzialmente, pur dando atto che l'imputato aveva effettuato alcuni versamenti di denaro in favore della moglie, peraltro da costei mai contestati, ritengono tali versamenti assolutamente inidonei, per la loro sporadicità e per la loro modesta entità, ad assicurare agli aventi diritto i mezzi di sussistenza, conclusione questa che da ragione, altresì, della infondatezza della tesi, pure prospettata dal ricorrente, del mero inadempimento di natura civile.

6 - Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione in favore della parte civile, S.A., delle spese sostenute in questo grado e liquidate nella misura in dispositivo indicata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a rifondere alla parte civile S.A. le spese del grado, che liquida in Euro 2.500,00 oltre spese generali, iva e cpa.

Per i giudici tributari niente compenso variabile se non si chiude il processo

Per i provvedimenti con i quali i giudici tributari non "chiudono" un procedimento non spetta il compenso variabile attribuito ai componenti delle commissioni tributarie. In particolare se si tratta delle ordinanze emesse a seguito della proposizione di istanze cautelari. È la conclusione alla quale arriva la Cassazione con la sentenza 21156/2010 della Sezione lavoro.

Secondo la Corte «l'ordinanza cautelare sia di accoglimento che di rigetto dell'istanza, non conclude in alcun modo il giudizio, essendo invece lo stesso destinato ad essere definito» con uno dei provvedimenti che invece il decreto legislativo 546/1992 prevede per la "definizione" del ricorso. Mentre invece non viene dato nessun rilievo al fatto che la norma non faccia più riferimento agli originari termini di "ricorso deciso" e di "sentenza pubblicata", ma a quelli di "ricorso definito" e "provvedimento emesso". Per i giudici della Corte, infatti, con l'espressione "ricorso definito" ci si riferisce «al ricorso tributario», e il legislatore, con «l'aggettivazione "definito" ha inteso riferirsi a quei provvedimenti che concludono il giudizio tributario». E questo «senza che alcuna disposizione consenta di restringerne o di estenderne l'ambito applicativo a seconda della maggiore o minore complessità dell'accertamento sotteso al provvedimento assunto».

Le istanze di sospensione e le ordinanze dei giudici che a esse dovranno dare risposta, sono destinate a crescere con l'immediata esecutività degli avvisi di accertamento e la rottamazione dell'istituto del ruolo. La sentenza è destinata a generare molte proteste da parte dei giudici tributari, che da sempre lamentano un trattamento economico peggiore rispetto a tutte le altre magistrature onorarie, dovendo affrontare peraltro questioni molto complesse e di notevole portata economica.

Non che la Cassazione non conoscesse l'argomento, visto che anche il Pm nella causa in questione (che aveva concluso per il rigetto del ricorso dell'agenzia delle Entrate, accolto invece dai giudici) era Ennio Sepe, presidente dell'associazione nazionale magistrati tributari. Senza mezzi termini la presidente del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria, Daniela Gobbi, afferma: «Non siamo d'accordo, perché l'ordinanza cautelare, che nel processo tributario non è neanche appellabile, conclude il procedimento cautelare, che ha una sua autonomia all'interno del processo e richiede uno studio del caso e una motivazione»

http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-14/niente-compenso-variabile-chiude-084644.shtml?uuid=AYdZ4qZC

Trasferimento di residenza di un coniuge nell’ipotesi di affido condiviso

È pacifico nella giurisprudenza di merito e di legittimità l’orientamento in base al quale il genitore affidatario (o collocatario) della prole non può arbitrariamente trasferire la propria residenza senza l’accordo dell’altro genitore o l’autorizzazione del Giudice, il quale, previamente, dovrà valutare l’eventuale pregiudizio che ne discenda per il minore.

La scelta della residenza del minore deve essere assunta di comune accordo dai genitori: in caso di disaccordo, ciascun genitore dovrà rivolgersi al Giudice per ottenere un nuovo assetto delle modalità dell’affidamento, in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 155, terzo comma, e 155-quater, secondo comma, c.c.

Il genitore che, al contrario, senza autorizzazione da parte del Giudice né avendo ottenuto il previo consenso dell’altro genitore, trasferisca la residenza del figlio minore in un’altra regione viola i principi basilari dell’affido condiviso - che impone ai genitori di assumere congiuntamente le decisioni fondamentali relative alla prole minorenne - dimostrando un comportamento irresponsabile e incompatibile con il ruolo di collocatario della prole.

Da tale contegno deriva una grave inadempienza sanzionabile da parte del Giudice ex art. 709-ter c.p.c. anche con la possibile inversione dell’affidamento e/o collocamento della prole.

Difatti, nell’ambito dei criteri di scelta da parte del Giudice del genitore collocatario della prole, un posto fondamentale deve essere attribuito alla capacità del genitore di mettere da parte le rivendicazioni nei confronti dell’altro e di conservarne l’immagine positiva agli occhi del minore, garantendo a quest’ultimo un rapporto equilibrato e continuativo con l’altra figura genitoriale e con l’altro ramo parentale.

«E’ notorio che dovere primario di un buon genitore affidatario e/o collocatario è quello di non allontanare il figlio dall’altra figura genitoriale: quali che siano state le ragioni del fallimento del matrimonio, ogni genitore responsabile, consapevole dell’insostituibile importanza della presenza dell’altro genitore nella vita del figlio, deve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l’immagine positiva agli occhi e nel cuore del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni del coniuge con la prole minorenne. L’attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato non a parole, ma in termini concreti» - Tribunale di Bari, sezione I, decreto 10 marzo 2009.

Nello stesso senso si richiama veda Cass. 10 ottobre 2008, n. 24907, inedita, in motiv., secondo cui: «tra i requisiti di idoneità genitoriale richiesti ad un genitore affidatario sia decisamente rilevante la capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive di un figlio, che si individuano, in prima istanza, nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni parentali attraverso il mantenimento, nella sua mente, della trama familiare, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sul coniuge».

fonte Giuristi & Diritto

Criteri di risarcibilità del danno non patrimoniale nell'infortunio lavorativo

(Cassazione civile, sezione III, sentenza 14.9.2010 n. 19517)
Con il primo motivo le predette deducono la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 112 c.p.c. Per omessa pronuncia in relazione al risarcimento del danno morale e l’insufficiente e comunque contraddittoria motivazione circa un punto decisivo per la controversia – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – sulla spettanza del danno morale e l’omessa motivazione sulla liquidazione del medesimo per averne la Corte di merito correttamente affermato la risarcibilità anche nel caso di presunzione legale della colpa – art. 2051 c.c. - senza poi provvedere alla relativa liquidazione, essendosi limitata ad aumentare il danno esistenziale per la moglie e a riconoscerlo per le figlie; sul punto anche la motivazione è insufficiente...

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 14 settembre 2010, n. 19517

Svolgimento del processo

Con sentenza del 15 settembre 2005 la Corte di appello di Trieste, in accoglimento dell’impugnazione di P.C. E A. e D.S.S. Aumentava, secondo un criterio equitativo puro, ad Euro 60.000.000 il risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla prima, e riconosceva Euro 30.000.000 a ciascuna delle seconde, in conseguenza della grave invalidità – 80% - riportata dal rispettivo marito e padre, infortunatosi sul lavoro. Ricorrono per Cassazione le danneggiate cui resiste Telecom.

Le ricorrenti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo le predette deducono la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 112 c.p.c. Per omessa pronuncia in relazione al risarcimento del danno morale e l’insufficiente e comunque contraddittoria motivazione circa un punto decisivo per la controversia – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – sulla spettanza del danno morale e l’omessa motivazione sulla liquidazione del medesimo per averne la Corte di merito correttamente affermato la risarcibilità anche nel caso di presunzione legale della colpa – art. 2051 c.c. - senza poi provvedere alla relativa liquidazione, essendosi limitata ad aumentare il danno esistenziale per la moglie e a riconoscerlo per le figlie; sul punto anche la motivazione è insufficiente.

Il motivo è infondato.

La Corte di merito ha infatti correttamente applicato il principio ormai consolidato (S.U. 26972/2008) secondo il quale il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dal danneggiato, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, sì che il danno biologico, il danno morale, quello alla vita di relazione e quello cosiddetto esistenziale devono esser valutati unitariamente nella voce del danno non patrimoniale (S.U. 26972/2008).

2.- Con il secondo motivo deducono la falsa applicazione di norme di diritto – artt. 2056 e 1226 c.c.; art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – per inadeguato esercizio del potere equitativo di cui all’art. 1226 c.c. Sotto il profilo della mancata personalizzazione del risarcimento; insufficiente e contraddittoria motivazione circa i criteri di quantificazione del danno – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – e lamentano che il criterio equitativo puro, riconosciuto dall’art. 1226 c.c., non può risolversi in arbitrio e perciò il giudice deve personalizzare il risarcimento ed indicare i parametri considerati.

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata – pag. 8 – i giudici di appello hanno date conto, nell’adottare il criterio equitativo puro – ossia svincolato da tabelle standardizzate e criteri automatici – delle circostanze oggettive e soggettive del caso concreto considerate, ed in particolare del danno alla sfera sessuale conseguita all’infortunio, fonte di “sconvolgimento delle abitudini di vita in relazione all’esigenza di provvedere ai maturati gravi bisogni del familiare, nonché della corrispondente diminuzione del contributo relazionale e di sostegno che a sua volta il familiare può offrire agli altri”. 3.- Pertanto il ricorso va respinto.

Si compensano le spese del giudizio di Cassazione.javascript:void(0)

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Compensa le spese del giudizio di Cassazione.

http://www.laprevidenza.it/news/documenti/cass_19517_2010/4974

Stretta su fedeltà e riservatezza

Il restyling della proprietà industriale ha un effetto "catenaccio" sul vincolo di riservatezza che nasce dal rapporto di lavoro. E al tempo stesso mette in equilibrio il rapporto diritti-doveri, tra imprese e lavoratori (dipendenti e collaboratori), comportando la diffusione di una serie di strumenti "anti-abuso". Le novità sono contenute nel Dlgs 131/2010, in vigore dal 2 settembre, che ha apportato significative modifiche al codice della proprietà industriale.
Sul fronte delle invenzioni vere e proprie, la riforma ritocca l'articolo 64 del codice e fa rientrare nella disciplina del compenso che può spettare al dipendente per le sue scoperte anche quelle che non siano state brevettate, ma utilizzate senza brevetto, purché in «regime di segretezza industriale». Deve sempre trattarsi di invenzioni brevettabili, cioè avere ad oggetto qualcosa che sia suscettibile di fabbricazione o utilizzo industriale.
Ma la riforma incide anche sul fronte del know how non brevettabile, che comprende informazioni ed esperienze meno tangibili e su cui pure si concentra con crescente intensità la capacità di innovazione e la competitività delle imprese. Si pensi alle raccolte di dati, alle tecniche commerciali e di marketing, a metodologie originali di lavoro, procedure interne di ottimizzazione di tempi, minimizzazione di costi, affinamento del customer care, eccetera: informazioni su cui si può misurare la capacità di un'impresa di competere, specie in particolari settori del terziario avanzato.
Sono proprio queste conoscenze quelle più compenetrate nel team di lavoro in cui si formano, o nei manager che le sviluppano. La riservatezza di questo specifico know how, anche quando il team si scioglie, o quando il manager abbandona l'azienda, è allora per l'impresa un tema di cruciale importanza. Dal punto di vista del dipendente è per contro importante essere consapevole del confine che passa fra il proprio bagaglio di competenze ed esperienze sviluppate in un'azienda ma spendibile anche altrove e, d'altro canto, ciò che egli non può "portarsi appresso" se non violando un diritto proprietario riservato al precedente datore di lavoro.
È su questo confine, che offre frequenti occasioni di contenzioso fra aziende e dipendenti o ex dipendenti, che intervengono due norme del codice. L'articolo 98 definisce l'oggetto della tutela, ossia le caratteristiche, di «sostanzialità» e di segretezza dei dati che non possono essere violati. L'articolo 99 prevede, come forma di tutela, il potere del detentore delle informazioni di vietarne ogni appropriazione od utilizzo. Quest'ultima norma è ora modificata in senso restrittivo. Il testo originario era espresso nei termini più ampi ed incondizionati, il che aveva dato campo libero a richieste di inibitoria delle aziende nei confronti di dipendenti ed ex dipendenti che si riteneva avessero utilizzato informazioni aziendali. Ora invece il divieto subisce alcune condizioni, con l'intento di circoscrivere le condotte illegittime.
In particolare, è richiesta la prova che l'acquisizione delle informazioni sia stata «abusiva». L'impatto della riforma si misurerà sull'interpretazione in concreto di questo requisito aggiuntivo. Nel rapporto di lavoro, l'abuso potrà essere rappresentato dalla violazione di specifiche regole e procedure aziendali. È da ritenere dunque che ciò porterà ad agire su queste regole e a potenziare strumenti ad hoc, come i patti di confidenzialità da stipulare fra azienda e singoli collaboratori, o i regolamenti e codici aziendali, chiamati a definire preventivamente quali siano le informazioni ed esperienze da considerare riservate, istituendo nel contempo anche misure o procedure adeguate a mantenerle segrete. Questi strumenti, se congegnati in modo mirato e non affidati alle formulazioni generiche cui spesso sono rimessi, possono conseguire un risultato positivo per entrambe le parti coinvolte.
Le aziende potranno così superare il loro aggiuntivo onere probatorio indicando le regole interne che siano state concretamente violate. I collaboratori avranno acquisito un risultato in termini di certezza, conoscendo in anticipo l'esatto perimetro delle informazioni riservate all'azienda, e saranno meno esposti a essere intralciati, nella loro carriera, dal rischio di rivendicazioni strumentali dei loro precedenti datori di lavoro.
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Le norme generali e i codici interni
Obbligo di fedeltà (articolo 2105, codice civile)
- Fra gli "obblighi di fedeltà" che gravano su ogni lavoratore dipendente (dagli operai ai dirigenti) c'è anche il divieto
di divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi
di produzione dell'impresa, anche se ciò non avviene
in favore di imprese concorrenti.
- La violazione può comportare misure disciplinari
e il licenziamento "in tronco", ossia senza preavviso.
- Vale solo per la durata del rapporto di lavoro.
Patti di riservatezza o di confidenzialità
- Sono accordi individuali fra azienda e lavoratore dipendente; possono essere stipulati sia contestualmente all'assunzione, sia successivamente.
- Consentono di determinare chiaramente, nel concreto della singola azienda e dell'attività lavorativa, quali informazioni debbono ritenersi confidenziali e quali sono le procedure corrette di accesso e di trattamento di tali informazioni e quali invece gli abusi.
- Valgono anche oltre la durata del rapporto di lavoro e vincolano, quindi, anche chi si sia dimesso o sia stato licenziato.
- A differenza del patto di non concorrenza, non presuppongono
il pagamento di un corrispettivo.
Segreto industriale (Codice della proprietà industriale - Decreto legislativo 30/2005)
- Tutela tutte le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali (articoli 98 e 99 del codice).
- Vale sempre, anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
La comunicazione di queste informazioni vale anche per gli ex dipendenti, che le abbiano acquisite durante il rapporto di lavoro poi cessato.
- Il divieto è circoscritto a quelle informazioni che, secondo le circostanze, debbono considerarsi segrete e che siano state acquisite con modalità "abusive".
Regolamenti aziendali e codici etici
- Si tratta di documenti predisposti dal solo datore di lavoro,
in base al potere del datore di lavoro di dettare regole interne all'azienda .
- Si propongono la medesima finalità di definire sia l'ambito
delle informazioni riservate e quali sono le procedure di accesso
e di trattamento.
- Sono efficaci finché dura il rapporto di lavoro.
In quanto unilaterali, valgono infatti soltanto come espressione del potere direttivo dell'azienda, che cessa col cessare
del rapporto con il singolo lavoratore.

http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-11/stretta-fedelta-riservatezza-080447.shtml?uuid=AYUUBqYC

Cassazione: niente limiti per gli autovelox

La Polizia Municipale può piazzare i rilevatori dove meglio crede, senza obbligo di segnalazione.

La seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha in sostanza dato carta bianca agli agenti di Polizia Municipale per quanto riguarda il posizionamento degli autovelox: secondo la sentenza 21091/10 non è necessario segnalarne la presenza, a patto che gli apparecchi siano gestiti direttamente dai vigili.

È questo l'epilogo del ricorso di Umberto G., multato a Stignano (in provincia di Reggio Calabria) perché colto da un rilevatore a superare il limite di velocità. Il tribunale di Locri aveva in un primo tempo annullato la sanzione perché l'apparecchiatura era posizionata "su un tratto di strada non menzionato in decreto prefettizio".

Il Comune si è successivamente opposto all'annullamento e ora la Cassazione gli ha dato ragione: se è la Polizia Municipale a gestire direttamente l'autovelox e non ha appaltato il tutto a privati, questo può essere piazzato dovunque.

I giudici della Cassazione hanno respinto anche l'altra obiezione avanzata dagli avvocati di Umberto G.: sostenevano che fosse necessaria l'omologazione di ogni singolo autovelox, e quello usato per registrare l'infrazione non ne era in possesso. La Suprema Corte ha sentenziato che l'omologazione non deve essere applicata su ogni singolo esemplare ma riguarda invece il modello depositato nelle sedi ministeriali cui i vari apparecchi si conformano.

http://www.zeusnews.it/index.php3?ar=stampa&cod=13229&numero=999

Il nuovo processo civile scommette su tre riti

Tre riti base. Con alcune (poche) specificità da salvare. Al ministero della Giustizia, mentre incombe la presentazione in Consiglio dei ministri delle norme sulla separazione delle carriere tra giudici e Pm e sulla conseguente distinzione dei Csm, si stringono i tempi anche sulla giustizia civile e sull'esercizio delle delega per la semplificazione dei riti. Il lavoro di ricognizione è infatti ormai a buon punto e uno schema di decreto legislativo è in via di definizione per essere poi approvato tra la fine dell'anno e l'inizio del 2011 (contingenze politiche permettendo). In anticipo, comunque, sui tempi di esercizio della delega che scadrà nella prossima estate.

L'obiettivo è arrivare a una drastica semplificazione delle regole processuali che, nel tempo, si sono andate stratificando fino a far conteggiare una trentina di fattispecie con regole procedimentali specifiche. Un sostanzioso antipasto delle intenzioni del legislatore lo si è peraltro avuto con la cancellazione del processo societario sin dall'anno scorso, processo che solo pochi anni fa sembrava dovesse poi costituire il modello per una più ampia riscrittura dell'intero Codice di procedura civile. Identica cancellazione ha poi subìto l'applicazione del processo del lavoro alle controversie in materia di risarcimento del danno da incidente stradale.

Adesso sotto la scure del "tagliaprocedure" finiranno regole come quelle sui giudizi in materia di immigrazione o di controversie sugli onorari agli avvocati o che riguardano il Codice militare. Ma, ancora, a essere sfrondate dovrebbero essere le norme sulla protezione dei dati personali o alcune regole sui pignoramenti. Al termine dell'operazione di razionalizzazione dovranno restare solo tre modelli base previsti dal Codice: il rito ordinario di cognizione, il procedimento sommario delineato dalla riforma in vigore dall'estate scorsa e quello del lavoro. Va però sottolineato come la stessa disposizione di delega salvasse alcune regole speciali come quelle stabilite in materia di famiglia, fallimenti e proprietà industriale.

Dei tre modelli processuali, però, va anche sottolineato come quello più innovativo, il procedimento sommario di cognizione, indirizzato ad arrivare a una conclusione della causa in tempi stretti e con un'istruttoria limitata stenti a decollare, visto che risulta utilizzato solo in misura assai marginale.

La semplificazione non dovrebbe poi avere ricadute a livello di coordinamento sul fronte della conciliazione, l'altro versante che agita il confronto tra avvocatura e ministero. Anche la delega sulla conciliazione, operativa dal prossimo marzo era, infatti, inserita nel medesimo provvedimento di riforma del processo civile. Nelle intenzioni del ministero, anzi, conciliazione e semplificazione dei riti dovrebbero mettere da una parte i cittadini nelle condizioni di poter usufruire di un circuito alternativo efficiente, almeno in alcune materie, e, nel caso scelgano di andare in tribunale, su regole più chiare.

La riduzione delle regole processuali va poi a costituire una tappa di un più ampio programma di riforma che ha avuto uno snodo fondamentale con l'entrata in vigore nell'estate scorsa di numerose modifiche al Codice di procedura (tra le altre il filtro in Cassazione e alcune misure per sanzionare le condotte dilatorie). Tutte misure indirizzate al futuro. Resta ancora da capire la ricetta che il ministero della Giustizia proporrà sullo smaltimento degli oltre 5 milioni di procedimenti arretrati.
http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-12/nuovo-processo-civile-scommette-085552.shtml?uuid=AYo4SBZC

Sequestro preventivo dello Studio Legale di un avvocato accusato di attività delittuosa

E’ illegittimo in quanto manca il nesso di pertinenzialità tra i reati contestati e il bene sequestrato
Nei confronti di un avvocato accusato dei reati di falsa testimonianza e frode alle assicurazioni, il Tribunale del riesame di Cosenza disponeva il sequestro preventivo dell’immobile adibito a studio legale del medesimo avvocato. Avverso tale pronuncia, l’imputato ha promosso ricorso per Cassazione. Con la Sentenza n. 36201/2010, la Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Il ricorrente ha dedotto l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo del ritenuto nesso di pertinenzialità tra il bene in sequestro e i reati contestati.In particolare, si è negato che lo studio professionale in questione costituisse cosa pertinente al reato, potendo al massimo rappresentare il “locus commissi delicti”, considerato che tra il bene sottoposto a vincolo reale e l’attività illecita contestata non sussisteva una relazione di pertinenza strumentale, dotata dei caratteri della specificità, stabilità e indissolubilità strumentale; che, in ogni caso, il rapporto di strumentalità tra il bene in sequestro e il suo possibile utilizzo criminoso imporrebbe che il sequestro preventivo avesse a oggetto “cose” oggettivamente e specificamente predisposte per la realizzazione di attività criminose e che per ciò stesso costituissero un mezzo indispensabile, stabile e specifico per l’attuazione o la prosecuzione della attività illecita. Inoltre, il ricorrente ha prospettato la violazione di legge e il vizio di motivazione sotto il profilo dell’apparenza delle giustificazioni, che sono state offerte a fondamento dell’affermazione che lo studio legale fosse la sede naturale, base logistica e operativa del sodalizio criminoso, posto in essere dagli associati per realizzare, truffe alle, compagnie di assicurazione. La Suprema Corte ha ritenuto le censure fondate, osservando che il ricorso alle norme generali in tema di sequestro preventivo, nei casi in cui quest’ultimo sia finalizzato a impedire la protrazione dell’attività illecita, è necessaria, la presenza di una correlazione indefettibile tra l’immobile e la commissione del reato, la quale sussiste quando l’immobile non è soltanto il luogo dove si compie l’attività illecita, in astratto realizzabile anche, altrove, ma costituisce il mezzo indispensabile per l’attuazione e la protrazione della condotta illecita. Ora, nel caso di specie, ad avviso della Corte, non può considerarsi “ex se”, la sede dello studio legale, in assenza di altri elementi idonei a avvalorare l’unicità e la indispensabilità di tale studio, in termini di indissolubile esclusiva e necessaria funzionalità per l’utile conseguimento degli obiettivi illeciti, inteso come luogo insostituibile, al fine di realizzare e proseguire le condotte illecite costituite dai delitti di falsa testimonianza e dalle condotte fraudolente messe in atto nei confronti di compagnie assicuratrici. Le misure cautelari non possono tenere conto di qualsiasi profilo di “colpevolezza”, proprio perché la funzione preventiva non attiene all’autore del fatto criminoso, ma concerne solo il tasso di “pericolosità” di alcune cose in quanto si pongono con un vincolo di pertinenzialità rispetto al reato.Tale pertinenzialità postula che la libera disponibilità di tali cose possa costituire una situazione di pericolo, tanto è vero che il sequestro preventivo, ancorché funzionale alla confisca, ben può tralasciare qualsiasi verifica in merito alla fondatezza dell’accusa. Pertanto la Corte ha ribadito che l’immobile adibito a studio legale per l’esercizio della professione di avvocato non può ritenersi collegato, in modo automatico, da un nesso strumentale diretto e immediato all’esercizio di tale attività, che è caratterizzata piuttosto dal rapporto fiduciario esistente tra il professionista e il cliente e che può svolgersi in luoghi diversi. Non è pertanto consentito sottoporre tale immobile a sequestro preventivo, non sussistendo il rapporto di pertinenzialità tra l’attività delittuosa in questione e lo studio in cui la medesima viene esercitata e tenuto in particolare conto che nel caso di specie, al ricorrente non è contestato il reato di associazione per delinquere, al fine di realizzare truffe in danno di compagnie di assicurazione e che costui ha dedotto, senza che sul punto vi sia stata risposta da parte del Tribunale del riesame, che la sua attività non era per nulla limitata a quel preciso contenzioso assicurativo, che fondava il provvedimento cautelare reale, ma si estendeva a altri e molteplici settori in materia civilistica.

http://www.studiolegalelaw.net/consulenza-legale/21888

Cassazione: Bambini rumorosi, i genitori devono pagare una multa

Divieto di schiamazzo per i bambini che giocano in cortile disturbando la quiete dei vicini di casa. Lo ha stabilito una recente sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione (n. 23862/2010), che ha previsto una multa per i genitori che non vigilano attentamente i figli, impedendo loro di arrecare disturbo. Il reato previsto è quello punito dall’art. 659 codice penale (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone).

Immaginate un pomeriggio d’estate in un cortile qualunque di un condominio qualunque. E’ facile incontrare gruppi di bambini che giocano, ed è del tutto scontato che si sentano le loro voci e lo scalpitio dei piedi che rincorrono un pallone. Ma quando gli schiamazzi superano la normale “tollerabilità”, soprattutto nelle ore del pomeriggio dedicate in genere alla quiete, allora potrebbe sorgere il problema.

Sull’argomento è intervenuta la Suprema Corte, che ha esaminato il caso di due genitori condannati a pagare una multa perché gli schiamazzi dei loro bambini avevano disturbato un numero “indeterminato” di persone. I genitori, infatti, secondo i giudici, hanno l’obbligo di vigilare sui figli affinchè il loro comportamento non arrechi danno o disturbo a terzi. La multa gravata sui genitori è di 40 euro. Più che alla quantità della sanzione, davvero irrisoria, questa pronuncia dovrebbe farci pensare a quanto è importante educare i nostri figli, fin da piccoli, a rispettare gli altri. Solo così potranno crescere in maniera davvero responsabile e consapevole, comprendendo che la nostra “libertà” finisce dove comincia quella di un’altra persona.

http://legale.guidaconsumatore.com/00958_bambini-rumorosi-i-genitori-devono-pagare-una-multa/

Linea dura del Garante della Privacy contro le affissioni nelle bacheche condominiali

Bacheche condominiali: gli avvisi non devono contenere dati personali - 8 luglio 2010

IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

NELLA riunione odierna, in presenza del prof. Francesco Pizzetti, presidente, del dott. Giuseppe Chiaravalloti, vice presidente, del dott. Mauro Paissan e del dott. Giuseppe Fortunato, componenti, e del dott. Daniele De Paoli, segretario generale;

VISTO il d.lg. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali);

VISTO il provvedimento del 18 maggio 2006, avente ad oggetto il trattamento di dati personali nell'ambito dell'attività connessa all'amministrazione dei condomìni;

VISTI gli atti d'ufficio e, in particolare, la documentazione acquisita nel procedimento su ricorso regolarizzato in data 27 maggio 2009, presentato dalla sig.ra Angela Azzarone, ai sensi degli artt. 145 e ss. del Codice, nei confronti del Condominio "Serena", in persona dell'amministratore p.t.;

RILEVATO che da tale documentazione sono emersi profili attinenti al trattamento dei dati personali dell'interessata (in qualità di partecipante al predetto condominio), con specifico riferimento alla loro diffusione;

VISTO quanto dichiarato dalla ricorrente nel suddetto procedimento, secondo cui, in data 18 aprile 2009, sarebbe stata affissa nelle "bacheche condominiali" una comunicazione avente ad oggetto la convocazione di un'assemblea straordinaria (a seguito dell'impugnazione di una delibera condominiale proposta dalla stessa ricorrente) contenente dati personali a lei riferiti;

VISTE le precisazioni rese dall'interessata, che, nel lamentare un'ulteriore divulgazione di propri dati personali a seguito della successiva affissione, in data 23 aprile 2009, di una copia del ricorso introduttivo avverso la predetta delibera condominiale, ha sostenuto che tale condotta si porrebbe "in contrasto con i principi di pertinenza e non eccedenza" di cui all'art. 11, comma 1, lett. d) del Codice, tenuto conto che le medesime informazioni avrebbero potuto essere ugualmente fornite ai condòmini ricorrendo a modalità alternative di comunicazione;

VISTE le richieste formulate in proposito dall'interessata, volte ad ottenere l'adozione di "misure necessarie per impedire […] la continua violazione del d.lg. n. 196/2003 e l'uso dei dati personali in difformità a quanto sancito dal d.lgs. anzidetto", nonché il "risarcimento delle spese e dei diritti, con riserva di ogni azione per il risarcimento dei danni";

ESAMINATA la documentazione acquisita agli atti e, segnatamente, il materiale fotografico prodotto dalla ricorrente (che ha evidenziato l'effettiva affissione in spazi condominiali accessibili a terzi, alla data del 23 aprile 2009, tanto della comunicazione di convocazione dell'assemblea condominiale che della copia del ricorso da lei presentato);

RILEVATO che la convocazione dell'assemblea condominiale oggetto della contestata affissione reca all'ordine del giorno il seguente punto: "Ricorso presentato dalla sig.ra Angela Azzarone contro il Condominio "Serena" […] per l'annullamento della delibera assembleare del 2 marzo 2009, riguardante l'approvazione bilancio consuntivo 2008. Determinazione";

RILEVATO altresì che la copia del ricorso affissa in bacheca contiene dati personali riferiti all'interessata, risultando in evidenza i relativi dati anagrafici (nome; cognome; data e luogo di nascita; indirizzo di residenza), oltre al codice fiscale e a talune informazioni relative alla proprietà dell'immobile;

VISTO quanto dichiarato dall'amministratore del condominio (con assunzione di specifica responsabilità al riguardo ai sensi dell'art. 168 del Codice) nella nota del 4 giugno 2009, con particolare riferimento al fatto che la copia del ricorso inoltrato dall'interessata, "apposto nella stessa mattinata del 23 aprile 2009, è rimasto affisso per circa un'ora", essendo stato rimosso "subito dopo la ricezione del telegramma" inviato dall'istante in pari data (con il quale l'amministrazione del condominio era stata diffidata a rimuovere i documenti oggetto di affissione nelle bacheche condominiali);

PRESO ATTO che le modalità di comunicazione prescelte nel caso di specie avrebbero risposto alla necessità di assicurare "finalità conoscitive e di risparmio economico per i condòmini";

VISTA l'ulteriore comunicazione del 15 giugno 2009, con cui la ricorrente ha contestato la veridicità delle dichiarazioni rese dal condominio per il tramite dell'amministratore p.t., a suo dire smentita dalla stessa documentazione prodotta nel procedimento su ricorso (cfr. il richiamato materiale fotografico e la copia del telegramma inviato, recanti data e ora, rispettivamente, del 23 aprile 2009, ore 21:05 e 21:06, e del 23 aprile 2009, ore 21:57);

VISTA l'ulteriore comunicazione del 7 luglio 2009, con cui l'interessata, nell'evidenziare l'avvenuta rimozione dalle bacheche condominiali dei documenti affissi, ha tuttavia lamentato un'ulteriore indebita divulgazione di dati personali a sé riferiti, conseguente all'esposizione, nelle anzidette bacheche condominiali, di una nuova comunicazione avente ad oggetto la ripartizione delle spese sostenute in ambito condominiale;

VISTE le dichiarazioni rese da alcuni dei partecipanti alla compagine condominiale e contenute negli allegati alla comunicazione del 10 luglio 2009, da cui risulta che gli stessi non avrebbero "mai visto affisso nella bacheca condominiale il ricorso inoltrato dalla Signora Angela Azzarone all'autorità giudiziaria";

VISTA la successiva nota del 17 luglio 2009, con cui la ricorrente ha contestato la veridicità delle dichiarazioni rese –asseritamente smentite dai menzionati rilievi fotografici, dalle comunicazioni telegrafiche e dalle "ammissioni" dell'amministratore, il quale, peraltro, non avrebbe mai negato l'avvenuta affissione dei documenti in esame–, allegando a riprova dell'accaduto ulteriori dichiarazioni testimoniali;

VISTA la nota del 28 luglio 2009 a firma dell'amministratore p.t. del condominio, che ha replicato ai nuovi "addebiti" ascrittigli dall'istante con la citata comunicazione del 7 luglio 2009;

PRESO ATTO delle dichiarazioni rese con tale comunicazione, secondo cui l'anzidetta nuova affissione non avrebbe integrato condotte illecite, trattandosi "semplicemente dell'avviso di pagamento relativo ai consumi […] con pedissequa ripartizione per ciascun condomino in base agli effettivi consumi rilevati e richiesta di pagamento della quota condominiale bimestrale", e non risultando nel prospetto affisso "eventuali morosità sussistenti od altre informazioni di tal genere, ma solo normalissimi avvisi che, nella gestione condominiale (riportante peraltro solo il nome ed il cognome di ciascun condomino), costituiscono la normalità anche perché rispondenti ad una esigenza conoscitiva ed altresì di economicità nella gestione di un condominio";

ESAMINATA la documentazione in atti, con particolare riferimento al citato prospetto recante le spese ripartite e i consumi ascritti ai singoli condomini nominativamente individuati (tra i quali, peraltro, figura un appellativo apparentemente non riconducibile all'interessata);

VISTA la comunicazione del 13 ottobre 2009, con cui la ricorrente ha evidenziato ulteriori condotte divulgative di dati personali per il tramite dell'amministratore p.t.;

VISTA la nota del 10 febbraio 2010, con cui lo stesso amministratore p.t. ha riaffermato la liceità del proprio operato, ribadendo di aver utilizzato la bacheca condominiale "soltanto per generiche informazioni di servizio inerenti la […] gestione, […], senza che ciò si [sia] concretizz[ato] nell'affissione dei dati personali dei singoli condomini";

VISTA la nota del 17 aprile 2010, con cui la ricorrente ha segnalato l'ennesima divulgazione di dati personali a sé riferiti, allegando materiale fotografico attestante l'avvenuta affissione di un prospetto recante la ripartizione delle spese bimestrali per la gestione condominiale tra tutti i condomini interessati (nominativamente identificati), con l'unica eccezione della ricorrente, individuata con le (sole) iniziali "a.a.";

RILEVATO che, in base al richiamato provvedimento del 18 maggio 2006, l'utilizzo di spazi condominiali accessibili a terzi risulta giustificato per la comunicazione di "avvisi di carattere generale utili ad una più efficace comunicazione di eventi di interesse comune", dovendosi viceversa rimettere "a forme di comunicazione individualizzata, o alla discussione in assemblea, la trattazione di affari che importi il trattamento di dati personali riferiti a condomini individuati specificatamente" (cfr. anche Provv. 12 dicembre 2001, doc. web n. 31007).

RITENUTO che, nel caso di specie, l'esposizione nelle bacheche condominiali dell'avviso di convocazione dell'assemblea straordinaria e della copia del ricorso proposto dalla ricorrente –pur attinenti a vicende di interesse condominiale, quali le iniziative da intraprendere a tutela del condominio– risulta essere avvenuta in violazione, oltre che del principio di necessità (art. 3, del Codice), delle disposizioni in tema di pertinenza e non eccedenza dei dati trattati (art. 11, comma 1, lett. d), del Codice); ciò, in ragione del fatto che le finalità perseguite avrebbero potuto essere ugualmente raggiunte omettendo i riferimenti all'interessata e, comunque, ricorrendo a modalità alternative, quale, ad esempio, rendendo disponibile copia del ricorso ai condomini che lo avessero richiesto (cfr., al riguardo, anche Provv. 19 febbraio 2009, doc. web n. 1601674);

RITENUTO, altresì, che, per le medesime ragioni, debba considerarsi illegittima (con correlata illiceità del trattamento svolto) l'affissione del prospetto recante informazioni sulla ripartizione delle spese condominiali, tenuto conto che anche l'indicazione delle sole iniziali degli interessati può risultare comunque idonea –specie se accompagnata (come nel caso in esame) da ulteriori elementi quali l'individuazione nominativa degli altri partecipanti alla compagine condominiale, ovvero dalla possibilità, in astratto, di associare dette iniziali a un nominativo chiaramente individuato (ove, ad esempio, risultante dal citofono)– a rendere identificabile i soggetti coinvolti (art. 4, comma 1, lett. b) del Codice);

RILEVATO inoltre che, dal complesso degli elementi in atti, non risulta allo stato acquisito il consenso dell'interessata alla divulgazione dei propri dati personali contenuti nei menzionati documenti, né risultano addotti presupposti alternativi di liceità del trattamento (art. 23 e 24 del Codice);

RILEVATO inoltre che nel caso di specie non risultano essere state adottate idonee e preventive misure di sicurezza, anche per il tramite dell'amministratore, volte a minimizzare i rischi di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta (art. 31 del Codice; Provv. 18 maggio 2006, p. 3.3.);

RITENUTO di dover prescrivere al Condominio "Serena" I Traversa Belvedere in Rodi Garganico (per il tramite dell'amministratore p.t.), in ragione delle reiterate condotte divulgative poste in essere, di adottare misure volte ad impedire trattamenti di dati personali dei partecipanti alla compagine condominiale in violazione del Codice, omettendo di indicare negli avvisi di carattere generale informazioni idonee a identificarli, anche indirettamente, e privilegiando modalità di comunicazione individualizzata anche ai fini della ripartizione delle spese attinenti alla gestione condominiale (art. 154, comma 1, lett. c) del Codice);

RILEVATA l'inammissibilità della richiesta di risarcimento dei danni formulata dalla ricorrente, trattandosi di profilo rispetto al quale nessuna competenza è attribuita dalla legge a questa Autorità;

RILEVATO che, in caso di inosservanza del presente provvedimento, si renderanno applicabili le sanzioni di cui agli artt. 162, comma 2-ter, e 170 del Codice;

VISTE le osservazioni formulate dal segretario generale ai sensi dell'art. 15 del regolamento del Garante n. 1/2000;

RELATORE il dott. Giuseppe Fortunato;

TUTTO CIÒ PREMESSO IL GARANTE

accertata l'illiceità del trattamento svolto, prescrive al Condominio "Serena" I Traversa Belvedere in Rodi Garganico, in persona del suo amministratore p.t., di adottare misure volte ad impedire trattamenti di dati personali dei partecipanti alla compagine condominiale in violazione del Codice, omettendo di indicare negli avvisi di carattere generale informazioni idonee a identificarli, anche indirettamente, e privilegiando modalità di comunicazione individualizzata anche ai fini della ripartizione delle spese attinenti alla gestione condominiale (art. 154, comma 1, lett. c) del Codice).

Roma, 8 luglio 2010

IL PRESIDENTE
Pizzetti

IL RELATORE
Fortunato

IL SEGRETARIO GENERALE
De Paoli

http://www.condominioweb.com/condominio/articolo426.ashx

Cassazione: multa a mama e papa' se fanno mancare l'affetto

Il disinteresse morale per i figli va sanzionato al pari del mancato pagamento degli alimenti. Lo stabilisce una sentenza della Corte di Cassazione secondo cui chi fa mancare l'affetto alla prole commette il reato previsto e punito dall'art. 570 c.p. che punisce la violazione degli obblighi di assistenza familiare. La decisione è della Sesta sezione penale della Corte che ha convalidato una condanna al pagamento di una multa di cento euro e a 20 giorni di reclusione, nei confronti di un padre separato che aveva tenuto "una condotta contraria alla morale delle famiglie" disinteressandosi di loro. L'uomo, già condannato dai giudici di merito si era difeso sostenendo che illegittimamente i magistrati avevano deciso di sanzionare il "semplice disinteresse di esclusiva natura sociale o morale verso il nucleo di origine", ritenendo invece insussistente l'omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza (di cui era accusato) poiche' "nel breve periodo della contestazione la madre affidataria delle bambine aveva provveduto con i proventi del proprio lavoro ai bisogni primari". La Corte ha respinto il ricorso facendo notare che "la contestazione mossa all'imputato e' stata articolata in rapporto alla duplice tipizzazione delle condotte criminose sanzionate dall'art. 570 c.p." in maniera del tutto legittima vista "l'attuazione di una condotta contraria alla morale e all'ordine della famiglia" consistita nel fare mancare l'affetto necessario alle figlie, "sia omissiva degli oneri contributivi finanziari determinati dal giudice civile".

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9109.asp

Compensi legali, minimi tariffari e accordi in deroga

È nullo l'accordo con il quale l'avvocato ed il cliente pattuiscono l'onorario spettante al professionista in deroga ai minimi tariffari. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza citata in epigrafe, depositata lo scorso 28 settembre e qui leggibile nei documenti correlati.
Nell'anno 1994 uno studio legale associato stipula una convenzione con due Società per azioni per l'espletamento di attività stragiudiziale e giudiziale concernente il recupero dei crediti contenziosi vantati dalle società nei confronti di propri clienti inadempienti. Interrottosi il rapporto tra le società ed il legale, quest'ultimo ricorre al giudice del lavoro di Napoli lamentando di aver ricevuto, in base alla convenzione, compensi inferiori ai minimi tariffari, inderogabili.
Al Tribunale di Napoli lo studio legale chiede che si dichiari la nullità ex articolo 24 della legge 13.6.1942, n. 794, modificata dalla legge 19.12.1949 n. 957, recepito dall'articolo 4 delle vigenti tariffe forensi, delle convenzioni intercorse tra le parti per la determinazione dei compensi forfettari relativi agli incarichi professionali espletati, chiedendo la condanna delle società al pagamento delle somme dovute. Il giudice napoletano accoglie in parte le richieste dello studio legale. Avverso la sentenza propongono appello lo studio legale e appello incidentale le società. I giudici di secondo grado accolgono in parte l'appello principale e rigettano quello incidentale. Tra le altre cose, la corte napoletana aveva osservato che l'accordo-convenzione, intervenuto tra le parti, doveva ritenersi nullo perché in violazione del divieto sancito dall'art. 24 l. n. 794 del 1942, essendo l'ammontare dei compensi, consensualmente predeterminato, inferiore ai minimi tariffari, e che non era applicabile la riduzione al di sotto dei minimi, consentita dall'art. 4 della stessa legge "quando la causa risulti di facile trattazione", solo nei confronti della parte soccombente e non anche nei confronti del cliente, mancando il parere del Consiglio dell'Ordine in tal senso.
Nel ricorso per cassazione le due società sostengono, tra le altre cose, che erroneamente il giudice di appello avrebbe ritenuto la sopravvivenza dell'art. 24 della l. n. 794/1942, poiché l'abrogazione ad opera della disciplina dettata dell'articolo unico della legge n. 1051/57, ex art. 15 delle preleggi, avrebbe riguardato soltanto gli artt. da 1 a 23. Viceversa, detto articolo unico avrebbe delegificato il procedimento di approvazione delle tariffe, rendendo i regolamenti tariffari inidonei a derogare efficacemente all'art. 2233 c.c., fonte principale per la determinazione del compenso spettante ai liberi professionisti. Ma, anche a voler ritenere, sotto l'indicato profilo, ancora vigente l'art. 24 citato, il confronto dell'assetto normativo nazionale con il quadro europeo avrebbe dovuto condurre alla conclusione di incompatibilità del divieto con il Trattato, dato che la liceità di una tariffa non comporterebbe di per sé la liceità della ben diversa disposizione che fissi l'inderogabilità della sua misura minima.
Preliminarmente il collegio romano osserva che, con riferimento alla professione di avvocato, la Corte di Cassazione, con orientamento pressoché costante, ha ritenuto, ora esplicitamente, ora per implicito, che la legge n. 794 del 1942, se pur deve ritenersi abrogata nei suoi artt. da 1 a 23, ai sensi del citato articolo 15, - essendo stata la materia interamente regolamentata per effetto della legge 3 agosto 1957, n. 1051, che ha attribuito al Consiglio nazionale forense la competenza di stabilire, con le modalità ivi previste, i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti per le prestazioni giudiziali in materia civile - ha lasciato in vita l'art. 24. Tale articolo - è sottolineato nella sentenza romana - dopo la significativa dicitura, "Inderogabilità convenzionali degli onorari e dei diritti", statuisce che "Gli onorari e i diritti stabiliti per le prestazioni dei procuratori e gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati sono inderogabili".
Sulla base di tale disposizione - affermano gli ermellini - la giurisprudenza di legittimità ha sancito la nullità dell'accordo con il quale l'avvocato ed il cliente pattuiscono l'onorario spettante al professionista in deroga ai minimi della tariffa forense. In tal modo si è inteso superare la gerarchia di carattere preferenziale, fissata dall'art. 2233 c.c., tra i vari criteri previsti per la determinazione del compenso dovuto per le attività intellettuali, laddove si stabilisce che "il compenso, che non è convenuto tra le parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice". La vigenza nel nostro ordinamento di una normativa che vieti di derogare convenzionalmente agli onorari minimi determinati da una tariffa forense trova, del resto, riscontro nelle pronunce della Corte di giustizia, che, in tema di tariffe professionali degli avvocati, ha affermato, che la normativa del trattato CEE non osta all'adozione, da parte di uno Stato membro, di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale sia dettata nell'ambito di un procedimento come quello previsto dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, come modificato. La conformità al principio comunitario della libera concorrenza di quelle norme del diritto interno, in virtù delle quali è imposta l'inderogabilità dei minimi di tariffa forense, costituisce orientamento confermato nell'anno 2006 da una sentenza della Corte di giustizia, con la quale si è stabilito che una limitazione al principio di libera prestazione dei servizi professionali può essere consentita allorché "ragioni imperative di interesse pubblico" la giustifichino; ragioni che con riferimento all'inderogabilità dei minimi della tariffa degli avvocati vengono individuate nell'esigenza di garantire la qualità della prestazione professionale a tutela degli utenti consumatori e la buona amministrazione della giustizia. Sussistendo questi obiettivi, l'obbligatorietà dei minimi può essere giustificata, dunque, allorché sussista il rischio che, per le caratteristiche del mercato, la concorrenza al ribasso sull'offerta economica tra gli operatori possa pregiudicare la qualità della prestazione. A proposito dei servizi legali, la Corte individua come fattore di rischio il "numero estremamente elevato" di professionisti iscritti ed in attività e riconosce al giudice nazionale il compito di determinare se la restrizione della libera prestazione creata dal divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari per i servizi legali, previsto dalla legislazione italiana, risponde a ragioni imperative di interesse pubblico ed e strettamente idoneo a garantire da un lato che vi sia corrispondenza tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni fornite dagli avvocati, dall'altro che la determinazione di tali onorari minimi costituisca un provvedimento adeguato alla tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia.
Pur non essendo una garanzia della qualità dei servizi - osserva il Supremo Collegio -, non si può di certo escludere - ed anzi deve affermarsi - che nel contesto italiano, caratterizzato da un'elevata presenza di avvocati, le tariffe che fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduce nell'offerta di prestazioni "al ribasso", tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio.
Nella sentenza romana, tuttavia, si evidenzia che l'art. 2, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006, convertito in legge n. 248 del 2006, ha abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime per le attività professionali e intellettuali "dalla data di entrata in vigore" della legge stessa; ne consegue che quelle disposizioni conservano piena efficacia in relazione a fatti - come quelli in oggetto - verificatisi prima. Tra i motivi del ricorso per cassazione è stato anche evidenziato che il Giudice d'appello ha ritenuto l'invalidità della rinuncia ai minimi tariffari operata dalla parte ricorrente, a fronte di una continuità di incarichi da parte delle società. Sul punto gli ermellini osservano che il principio dell'inderogabilità dei minimi tariffari sugli onorari di avvocato e procuratore non trova applicazione nel caso di rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, quando quest'ultima non risulti posta in essere strumentalmente per violare la norma imperativa sui minimi di tariffa. La prestazione d'opera del difensore può, infatti, pure essere gratuita - in tutto o in parte - per ragioni varie, oltre che di amicizia e parentela, anche di semplice convenienza. Sotto questo riflesso la retribuzione costituisce un diritto patrimoniale disponibile e la convenienza relativa può concretarsi, sul piano sostanziale, anche in un accordo transattivo, in quanto tale, pienamente lecito, rientrando esso nella libera autonomia dispositiva delle parti contraenti, alle quali è soltanto inibito di infrangere il divieto legale sancito dal citato art. 24, e cioè quello di predeterminare consensualmente l'ammontare dei compensi professionali in misura inferiore ai minimi tariffari.
Orbene - è detto infine nelle motivazioni della sentenza romana - la Corte partenopea ha osservato che per potersi ritenere intervenuta una rinuncia occorreva, pur sempre, che vi fosse piena consapevolezza da parte del rinunciante dello specifico oggetto della rinuncia medesima, "condizione questa che, nel caso di specie, non può certamente essere ravvisabile nelle lettere dell'avv.to con le quali lo stesso si limitava a dare atto della definizione della pratica in base al forfait illegittimamente concordato". Per la corte partenopea, quindi, nel caso specifico la rinuncia al principio di inderogabilità delle tariffe non aveva fondamento mancando la necessaria consapevolezza del rinunciante.

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Opposizione a Decreto Ingiuntivo, sentenza 'a sorpresa' della Cassazione: rischio cancellazione per molte cause

La sentenza n.19246 della Cassazione ha stabilito che è sufficiente proporre l'opposizione al decreto ingiuntivo perchè scatti per l'attore opponente il termine di 5 (cinque) giorni per la costituzione in giudizio (iscrizione a ruolo).

Nel silenzio della Superma Corte pare che alcuni Tribunali abbiano dichiarato improcedibili opposizioni già in corso (prima della pubblicazione di questa sentenza) e iscritte a ruolo nei dieci giorni successivi alla notifica dell'atto introduttivo, orientamento questo che era ormai consolidato nella prassi.

Se prevarrà questo orientamento nessuno può dirlo, ma se così fosse, i possibili danni per noi avvocati ed i nostri assistiti sarebbero assai ingenti, senza contare il fatto che questi ultimi potrebbero anche ritenereci responsabili di aver fatto scadere i termini!.

Anche il CNF si è mosso rapidamente ed ha chiesto l'approvazione di una legge per risolvere i problemi sorti a seguito di questa soluzione interpretativa (si legga il comunicato).

Ma per fortuna non tutti la pensano a questo modo, tant'è che la prima Sezione Civile del Tribunale di Varese con la sentenza del 08/10(2010 ha aperto uno spiraglio escludendo, attraverso un'adeguata motivazione, la retroattività della pronuncia della Cassazione, sia pure adottata a Sezioni Unite.

Sull'argomento segnaliamo anche questo articolo dell'Avv. Marco Minardi pubblicato su Lexform.it



Ecco il testo integrale della sentenza.



Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 15 giugno 2000, ha dichiarato improcedibile l'opposizione proposta da C.G. avverso un decreto ingiuntivo emesso in favore di Bancapulia s.p.a., in quanto l'opponente, pur avendo assegnato all'opposto un termine a comparire inferiore ai 60 giorni, si è costituito oltre il termine di cinque giorni dalla notifica della citazione.

La Corte d'appello di Lecce, con sentenza del 1 luglio 2003, ha confermato la decisione di primo grado richiamando l'orientamento espresso da questa corte, tra l'altro, con sentenza n. 37521 del 2001, secondo il quale l'abbreviazione dei termini di costituzione per l'opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all'opposto di un termine di comparizione inferiore a sessanta giorni, risultando del tutto irrilevante che la concessione dello stesso sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo.

Il C. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati con memoria, al quale ha resistito, con controricorso, la Bancapulia s.p.a..

Con ordinanza del 12 novembre 2008, la prima sezione ritenendo che il consolidato orientamento della corte presenti aspetti problematici ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione a queste sezioni unite.

La prima sezione ha invero ritenuto che non risponde alla sistematica del codice di rito che la disciplina dei termini di un procedimento possa discendere dalla scelta di una delle parti del giudizio, al di fuori di ogni controllo da parte del giudice. Irrilevante sarebbe il richiamo all'art. 645 c.p.c., comma 2, nel quale manca un'espressa prescrizione relativa al dimezzamento dei termini di costituzione che, infatti, viene fatto discendere dall'applicazione degli artt. 165 e 166 c.p.c., i quali tuttavia prevedono la riduzione dei termini di costituzione quale conseguenza della riduzione dei termini di comparizione operata dal giudice a richiesta dell'attore nella ricorrenza dei presupposti indicati nell'art. 163 bis c.p.c..

Peraltro, se fosse vero l'assunto della esistenza di un principio di adeguamento dei termini di costituzione a quelli di comparizione la riduzione dei termini di costituzione dovrebbe operare sempre e comunque nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, perchè la formulazione del dell'art. 645 c.p.c., comma 2, non consentirebbe alcuna discrezionalità. In realtà se la ratio della riduzione dei termini di comparizione è quella di accelerare la definizione del giudizio di opposizione, la riduzione alla meta dei termini di costituzione non è coerente con tale finalità, posto che il termine di costituzione del creditore opposto decorre non già dalla costituzione dell'opponente, ma dalla data dell'udienza di comparizione, che, tra l'altro, per effetto della modifica dell'art. 163 bis c.p.c., introdotta dalla L. n. 263 del 2005, art. 2 è ampliato da sessanta a novanta giorni per l'Italia e da centoventi a centocinquanta giorni se il luogo della notificazione si trova all'estero. Pertanto, senza un'apprezzabile utilità per la sollecita definizione del giudizio di opposizione, si finisce per introdurre un onere particolarmente gravoso a carico dell'opponente, che solo formalmente verrebbe bilanciato da analogo onere imposto al creditore opposto, il quale non può in alcun modo essere equiparato al convenuto in un giudizio ordinario, avendo egli, anzi, la qualità di attore in senso sostanziale. In tale situazione, ove si ritenga operante la riduzione del termine di costituzione per effetto automatico dell'attribuzione al creditore opposto di un termine inferiore a quarantacinque giorni sarebbe evidente l'irragionevolezza giacchè, a fronte di un termine di costituzione per l'opponente di soli cinque giorni, l'opposto dovrebbe costituirsi nel termine di dieci giorni prima dell'udienza di comparizione, venendo così a godere di ben 35 giorni per provvedere alla propria difesa. La pressione che in tal modo grava sull'opponente, mentre non vale ad abbreviare i termini di durata del processo di opposizione risulterebbe ingiustificata tenendo conto che l'opponente è attore solo in senso formale, ma sostanzialmente è convenuto, e che la necessità di intraprendere la causa non è frutto di una meditata scelta in un lasso di tempo discrezionale, ma necessitata dalla notifica dell'ingiunzione, laddove l'opposto dispone di tempi ben più ampi per la costituzione, anche se, attore in senso sostanziale, ha fruito di ampia disponibilità temporale nella decisione di presentare ricorso per decreto ingiuntivo.


Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l'omessa e/o insufficiente motivazione circa punti decisivi, in riferimento agli art. 645 c.p.c., comma 2 e art. 647 c.p.c., sostenendo che la corte d'appello si sarebbe acriticamente adagiata sull'orientamento della giurisprudenza di legittimità, senza considerare il rilievo, formulato nell'atto di gravame, secondo cui perchè possa operare l'abbreviazione dei termini di comparizione assegnati al creditore opposto è necessaria una consapevole manifestazione di volontà dell'opponente di avvalersi della facoltà prevista dalla legge, formulata in modo esplicito o desunta da elementi concludenti. Nella specie non sarebbero state adeguatamente valutate le circostanze che il termine di comparizione assegnato era di soli sette giorni inferiore a quello minimo e che la costituzione era avvenuta il nono giorno, il che doveva far propendere per un mero errore materiale nel calcolo del termine di comparizione. A ritenere irrilevante l'errore si introdurrebbe una presunzione assoluta di esercizio della facoltà di abbreviazione dei termini da parte dell'opponente non prevista dalla legge, trasformando la facoltà in un obbligo. Inoltre, il ricorrente afferma che la previsione della rinnovazione della citazione (art. 164 c.p.c.) nel caso di assegnazione di un termine inferiore a quello di legge dovrebbe trovare applicazione anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che costituisce un ordinario giudizio di cognizione, essendo insufficiente il riferimento alla specialità del rito per giustificare l'applicazione di una sanzione, quale quella della improcedibilità.

Con il secondo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione dell'art. 645 c.p.c., comma 2, con riferimento all'art. 647 c.p.c., si sostiene che al giudizio di opposizione, come previsto dall'art. 645 c.p.c., deve applicarsi la disciplina del procedimento ordinario e pertanto in caso di costituzione in giudizio, non omessa, ma semplicemente ritardata, non sarebbe giustificata la sanzione processuale dell'improcedibilità, prevista soltanto per il giudizio di appello dall'art. 348 c.p.c., come modificato dalla L. n. 353 del 1990. Viene anche denunciata l'incoerenza consistente nel ritenere inapplicabile, per la specialità del rito, l'art. 164 c.p.c. facendo allo stesso tempo applicazione del disposto degli artt. 165 e 163 bis c.p.c..

Con il terzo motivo, il ricorrente deduce errata o falsa applicazione dell'art. 645 c.p.c., comma 2, in quanto non sarebbe corretta l'estensione della riduzione del termine di costituzione previsto dall'art. 165, per il caso in cui il giudice abbia autorizzato la riduzione del termine minimo a comparire, all'ipotesi in cui la riduzione del termine di comparizione sia conseguenza di una mera scelta di parte.

2. Le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell'ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della corte, anche se, come sarà in seguito precisato, è opportuno procedere a una puntualizzazione. A parte un unico risalente precedente contrario, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio 1955 n. 8), la giurisprudenza della corte è stata costante nell'affermare che quando l'opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell'atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di costituzione ordinario (principio affermato, nei vigore dell'art. 645, come modificato con il D.P.R. n. 597 del 1950, art. 13 a cominciare da Cass. 12 ottobre 1955, n. 3053 e poi costantemente seguito; da ultimo, v. Cass. n. 3355/1987, 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006).

Più recentemente, nell'ambito di tale orientamento, si è ulteriormente precisato che l'abbreviazione del termine di costituzione per l'opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all'opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, essendo irrilevante che la fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo (Cass. n. 3752/2001, 14017/2002, 17915/2004, 11436/2009).

Contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina l'orientamento ora richiamato non è privo della necessaria base normativa.

Se, infatti, è vero che nella formulazione originaria del codice del '42, l'art. 645, comma 2 prevedeva la riduzione a metà dei termini di "costituzione", mentre nell'attuale formulazione della disposizione la riduzione a metà si riferisce solo ai termini di "comparizione", dai lavori preparatori non emerge tuttavia che la modifica testuale sia stata introdotta per ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a metà dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente, ma solo che la norma era stata imposta come necessaria conseguenza dalla introduzione del sistema della citazione ad udienza fissa.

Non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l'opposta opinione che reputa che il silenzio del legislatore in ordine alla disciplina dei termini di costituzione, a fronte della espressa previsione contenuta nella disciplina previgente, sia significativo della volontà di cambiare la regola, espressamente affermata dall'art. 165 c.p.c., comma 1, che stabilisce un legame tra termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione.

Ne deriva che tale regola, non può certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalità e coerenza con la conseguenza che l'espresso richiamo nell'art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua.

Nè appare decisivo il rilievo, indubbiamente corretto, della differenza esistente tra la fattispecie di cui all'art. 163 bis c.p.c., comma 2, nella quale l'abbreviazione dei termini è conseguenza dell'accertamento da parte del giudice della sussistenza delle ragioni di pronta trattazione della causa prospettate dall'attore, e di quella di cui all'art. 645 c.p.c., nella quale tale apprezzamento è compiuto (non dalla parte, come sostiene l'ordinanza di rimessione, ma direttamente) dal legislatore una volta per tutte, essendo in entrambe le fattispecie identica la funzione del dimezzamento dei termini di comparizione, consistente, da un lato, nel soddisfare le esigenze di accelerazione della trattazione e dall'altro, nell'opportunità di bilanciare la compressione dei termini a disposizione del convenuto con la riduzione dei termini di costituzione dell'attore.

Essendo pacifica la sussistenza dell'esigenza di sollecita trattazione dell'opposizione, diretta a consentire la verifica della fondatezza del provvedimento sommario ottenuto dal creditore inaudita altera parte, deve osservarsi che sussiste anche l'esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti, pur tenendo conto della peculiarità del giudizio di opposizione che, come è noto, ha natura di giudizio di cognizione piena che devolve al giudice della opposizione il completo esame de rapporto giuridico controverso, e non il semplice controllo della legittimità della pronuncia del decreto d'ingiunzione. E' anche pacifico che, a differenza dalle qualità formali, le posizioni dell'opponente e dell'opposto sono quelle, rispettivamente, di convenuto e di attore in senso sostanziale. Ora, se è vero che l'opposto ha avuto tutto il tempo di impostare la propria posizione processuale prima di chiedere il decreto ingiuntivo, resta anche vero che, di fronte alle allegazioni e alle prove, prodotte o richieste, dall'opponente, l'opposto ha necessità di valutarle per apprestare le sue difese e a tal fine sussiste l'esigenza di avere a disposizione i documenti sui quali si fonda l'opposizione nel più breve tempo possibile, per riequilibrare il sacrificio del termine a sua disposizione per valutare tali prove e articolare le difese prima della propria costituzione in giudizio.

Ciò che è indubbio è che certamente la necessità di sollecita trattazione dei procedimenti di opposizione meglio sarebbe stata soddisfatta se oltre alla riduzione a metà dei termini di costituzione dell'opponente il legislatore avesse anche ridotto in misura congrua i termini di costituzione dell'opposto, che invece restano abbastanza ampi (trentacinque giorni dalla notifica dell'opposizione e cioè dieci giorni prima dell'udienza che deve essere fissata a non meno di quarantacinque giorni dalla notifica stessa, ai sensi dell'art. 166 c.p.c.), ma tale opportunità di assecondare "l'euritmia del sistema" (corte cost. n. 18/2008), non incide sulla fondatezza del rilievo che il dimezzamento dei termini di costituzione dell'opponente, comunque rappresenta una, sia pur parziale e, forse, insoddisfacente, misura di accelerazione del procedimento.

3. Una parte della dottrina, ripresa anche dall'ordinanza della prima sezione civile, ha osservato che la lettera dell'art. 645 c.p.c. induce a ritenere che il dimezzamento dei termini di comparizione sia un effetto legale della proposizione dell'opposizione e non dipenda invece dalla volontà dell'opponente che intenda assegnare un termine inferiore a quello previsto dall'art. 163 bis c.p.c..

In effetti esigenze di certezza e quindi di garanzia delle parti, di fronte alla previsione di termini previsti a pena di procedibilità dell'opposizione, ha già portato a introdurre nell'orientamento tradizionale, basato sulla facoltatività della concessione da parte dell'opponente di un termine a comparire inferiore a quello legale, il temperamento costituito dall'affermazione dell'irrilevanza della volontà dell'opponente che potrebbe avere assegnato un termine inferiore anche solo per errore.

Ritengono le sezioni unite che esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell'opponente e dell'opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all'opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l'opposizione sia sfata proposta, in quanto l'art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l'opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell'opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l'anticipazione dell'udienza di comparizione ai sensi dell'art. 163 bis, comma 3.

D'altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell'opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulatali il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all'art. 645 c.p.c. con quello che può discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell'art. 163 bis, comma 3. (Cass. n. 4719/1995, 18203/2008).

Nè potrebbe indurre a diverse conclusioni l'osservazione che, se si ritiene irrilevante la volontà dell'opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, potrebbe sorgere il dubbio che il sacrificio del suo termine di costituzione possa essere ingiustificato, alla luce dell'art. 24 Cost., come potrebbe desumersi da corte cost. n. 38/2008. Infatti, l'effetto legale del dimezzamento dei termini di costituzione dell'opponente, dipendente sia solo fatto della proposizione dell'opposizione, è pur sempre un effetto che discende dalla scelta del debitore che non può non conoscere quali sono le conseguenze processuali che la legge ricollega alla sua iniziativa.

Infine, la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell'opponente rispetto a quelli dell'opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che si è già tradotta nell'atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attività materiale, mentre nel termine per la sua costituzione l'opposto non è chiamato semplicemente a ribadire le ragioni della sua domanda di condanna, oggetto di elaborazione nella fase anteriore alla proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, ma ha la necessità di valutare le allegazioni e le prove prodotte dall'opponente per formulare la propria risposta.

4. E' consolidato orientamento di questa Corte che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell'opponente va equiparata alla sua mancata costituzione e comporta l'improcedibilità dell'opposizione (Cass. n. 9684/1992, 2707/1990, 1375/1980; 652/1978, 3286/1971, 3030/1969 E' innegabile infatti, da una parte, che la specialità della norma di cui all'art. 647 c.p.c. impedisce l'applicazione della ordinaria disciplina del processo di cognizione, e dall'altra, che la costituzione tardiva altro non è che una mancata costituzione nel termine indicato dalla legge. Il ricorrente non ha prospettato ragioni decisive che possano indurre la Corte a discostarsi da tale orientamento. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Sussistono giusti motivi, in relazione al dibattito esistente sulle questioni oggetto del presente giudizio, per compensare le spese.



P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e compensa le spese.

http://www.avvocatoandreani.it/news-giuridiche/notizia.php?opposizione-decreto-ingiuntivo-sentenza-sorpresa-della-cassazione-rischio-cancellazione-per-molte-cause

Psicologia giuridica: Parliamo di internet. Quando aiuta e quando nuoce.

Uno strumento ultradimensionato che aiuta sicuramente i normodotati ma può danneggiare gravemente i deboli di mente: internet ormai ha rivelato la sua natura, le sue componenti ed i suoi obiettivi. E’ un insieme di tecnologie avanzate, di infrastrutture globali, di associazionismi, di contatti, di notizie scientifiche, politiche, religiose, di informazioni belle e brutte e di speculazioni industriali e commerciali. Internet è uno strumento tecnico dal volto accattivante, ma sofisticato ed ultradimensionato rispetto all’individuo. E’ appunto la complessità e la grandezza "fisica" e virtuale di questo strumento che lo rendono preponderante e prevaricante rispetto alla modeste possibilità delle persone deboli e fragili, sia nella tenera età, sia nella condizione neuro-psichica in cui si trovano i ragazzi con intelligenza borderline. Il soggetto debole e fragile (borderline) di fronte ad internet si sente gravemente confuso e trasportato nell’ignoto come un pezzo di carta sulle onde di un oceano: non ne può ricevere alcun bene se non un’enfasi e un giudizio sballato sui contenuti. Viceversa, un soggetto sano, intelligente e preparato usa internet con maestria e guida la sua ricerca nella rete senza esserne travolto.

Ancor di più i ricercatori e gli scienziati ne traggono immani vantaggi, perché usano la rete per dare indicazioni, per raccogliere dati, catalogare i risultati e trasmetterli ai fruitori. Le associazioni, le testate giornalistiche, i commercianti, i professionisti, le ASL, le scuole, le università e le industrie sono in effetti i grandi utilizzatori e fruitori della rete internet. I ragazzi borderline, invece, giocano con internet, si appropriano dei contenuti gravemente pericolosi e si trastullano con contatti ed esperienze spesso criminali e diseducanti, ricercando il peggio per suscitare sconcerto. Le persone borderline non hanno la resistenza intellettiva per ricercare nella rete nozioni ed informazioni che servono ad accrescere la cultura finalizzata all’integrazione dei processi istruttivi e formativi scolastici ed universitari. Di converso le persone sane e sicure dei propri obiettivi traggono grandi vantaggi dalla rete, usandola per fini culturali, commerciali ed utilitaristici nelle comunicazioni nazionali ed internazionali. Pertanto queste mie osservazioni vogliono stimolare un dibattito utile a far notare ai genitori che i ragazzi borderline traggono dalla rete soltanto informazioni pericolose e diseducative, mentre soltanto i ragazzi intelligenti e controllati usano la rete per accelerare i processi cognitivi e relazionali. Questo tipo di critica sugli effetti di internet spiegherebbe le presenza di opinioni contrastanti sull’utilità di internet nella scuola: la soluzione del dilemma risulta più agevole se ci si riferisce allo stato di salute psicologica degli utenti della rete.

http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_9090.asp